Questi è il figlio mio, l’amato: ascoltatelo - Ufficio liturgico nazionale
16 aprile
Domenica di Pasqua
«Risurrezione del Signore»
Veglia Pasquale nella notte santa  
Gen 1,1-2,2 (forma breve 1,1.26-31) Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.
Sal 103 Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra o Sal 32 Dell’amore del Signore è piena la terra.
Gen 22,1-18 (forma breve 22.1-2.9a.10-13.15-18) Il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede.
Sal 15 Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Es 14,15-15,1 Gli Israeliti camminarono sull’asciutto in mezzo al mare.
Es 15,1b-6.17-18 Cantiamo al Signore: stupenda è la sua vittoria.
Is 54,5-14 Con affetto perenne il Signore, tuo redentore, ha avuto pietà di te.
Sal 29 Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato.
Is 55,1-11 Venite a me e vivrete; stabilirò per voi un’alleanza eterna.
Is 12,2.4-6 Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza.
Bar 3,9-15.32-4,4 Cammina allo splendore della luce del Signore.
Sal 18 Signore, tu hai parole di vita eterna.
Ez 36,16-17a.18-28 Vi aspergerò con acqua pura e vi darò un cuore nuovo.
Sal 41 Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio o Is 12,2-6 Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza o Sal 50 Crea in me, o Dio, un cuore puro
Rm 6,3-11 Cristo risorto dai morti non muore più.
Sal 117 Alleluia, alleluia, alleluia.
Mt 28,1-10 È risorto e vi precede in Galilea.
 
«E la luce fu»
Durante la «madre di tutte le veglie» (Agostino, Sermone 279,1), i battezzati sono chiamati a vegliare, come sentinelle oranti nel cuore della notte, perché i propri occhi siano riempiti di luce e i propri orecchi di parole di sapienza. L’energia racchiusa nelle Scritture si sprigiona in una liturgia della Parola così abbondante per destare la memoria, la speranza e il giubilo nel popolo di Dio, narrando gli eventi di grazia che vanno dalla creazione all’annuncio della risurrezione di Cristo. Un bagno nelle Scritture per ricomprendere la propria vita all’interno del grande capolavoro dell’opera salvifica divina e scoprire che anche la notte più nera è illuminata di luce. Un’immersione nelle origini della storia che si apre con la prima azione divina riferita in Gen 1,3: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu». Si comprende così che quando Dio parla, c’è luce e che tra la parola pronunciata «dal soffio della sua bocca» e l’evento che da essa scaturisce non vi è minimo scarto perché egli assicura alla sua parola il pieno compimento. Il primo racconto della creazione che Genesi ci consegna mostra, infatti, il carattere performativo della Parola di Dio che realizza tutto ciò che dice. Dopo la luce, l’acqua, la vegetazione, appaiono finalmente gli esseri viventi e in particolare la creatura umana che non solo riceve la vita, ma è creata «a immagine e somiglianza» di Dio. A lei, infatti, è dato di gustare insieme a Dio non solo il riposo del sabato, conclusione della settimana creatrice, ma anche la Risurrezione del Figlio suo, evento che porta l’opera divina più avanti e che è collocato oltre il sabato, «all’alba del primo giorno della settimana».
 
La vita come prova
Con la seconda lettura si passa dalla poesia alla prosa narrativa e dalla contemplazione della bellezza del creato alla durezza della vita umana, caratterizzata da prove e dal difficile esercizio della libertà. Inoltre dallo scenario cosmologico si passa a un evento collocato in un tempo e in uno spazio circoscritti, e da un Adamo generico si passa a dei volti concreti: Abramo e Isacco; un padre e un figlio. Dal racconto delle origini la liturgia della Parola ci conduce nel ciclo di Abramo che si è aperto con una promessa che finalmente si compie al cap. 21: Abramo riceve il figlio promesso, malgrado l’età avanzata (sua e di sua moglie Sara!). In Gen 22, però, Dio interviene per metterlo alla prova. La prova consiste nell’esercitare la difficile arte della libertà personale: cosa fare del dono di Dio? Appropriarsene o imparare a restituirlo? Abramo, come ogni padre/madre vorrebbe impossessarsi del dono, ma sceglie un cammino in salita: riconoscere il primato del Donatore (Dio) sul dono (il suo stesso figlio), espresso dal suo eccomi, sofferto ma cristallino. Lega suo figlio per sacrificarlo e donarlo a Dio il quale, però, leggendo la verità del suo cuore, risparmia la vita di Isacco impedendogli di vedere la fossa e, con un suo eccomi del tutto originale («oracolo di Ywhw»), rinnova la sua promessa ad Abramo sotto forma di giuramento. Nell’aqedah (legatura) di Isacco che sceglie di camminare verso la morte, la liturgia ci fa iniziare a pregustare la libertà con cui Gesù si dona sulla Croce.
 
La destra di Yhwh
Dalla fede del singolo si passa poi alla fede di un intero popolo. Israele, schiavo in Egitto, sperimenta la forza spaventosa dei nemici, percepiti come una massa informe e minacciosa che incarna sia la prospettiva della morte sia quella della sopravvivenza che chiede di scendere a compromesso con la morte. Bloccati davanti al mare, incalzati dagli Egiziani, gli Israeliti provano un senso di terrore e smarrimento (che l’opera divina sorprendente trasformerà in timore reverenziale), lanciano un grido di angoscia e di aiuto che, al termine del racconto, si trasforma in canto. Dio interviene prodigiosamente e snuda il suo braccio: accade così la disfatta degli Egiziani nel mare e la salvezza insperata degli Israeliti. La sua destra entra in azione agendo ancora sulle acque (come aveva fatto nella creazione), segno che Dio si coinvolge nella storia a favore del suo popolo e lo fa con un evento per descrivere il quale vengono fuse insieme due tradizioni: quella che descrive il miracolo come prosciugamento delle acque (il Signore fa soffiare un forte vento dell’est che asciuga il mare che torna però nel proprio spazio quando Egiziani si dirigono verso la battigia) e quella che invece lo descrive come una divisione delle acque (il Signore ordina a Mosè prima di stendere la mano sulle acque per dividerle e far passare gli Israeliti, poi di stenderla nuovamente per far precipitare l’acqua sull’esercito egizio che viene travolto). Il focus del racconto però è posto su ciò che accade al termine della traversata: «il popolo temette il Signore e credette in lui e in Mosè suo servo». Quello che la liturgia ci consegna è il miracolo della fede che rende visibile l’intervento di Dio, che fa memoria del passato, illumina il presente e apre al futuro.
 
Verso un futuro pieno di speranza
Dopo il racconto dell’esodo, compaiono nella Veglia Pasquale quattro testi profetici dove da una storia narrata in terza persona si passa a un discorso in cui Dio si rivolge direttamente ai suoi ascoltatori. La comunità che fa memoria della sua storia viene interpellata perché possa rispondere - a colui che parla e che invoca l’ascolto - rivitalizzando la sua fede in lui. È l’invito alla responsabilità nella storia dell’alleanza, dove all’amore abbondante che Dio effonde sul suo popolo in qualità di sposo (Is 54,5-14), Israele è chiamato a rispondere ricercando la sapienza divina che solo la parola viva ed efficace di Dio trasmette (Is 55,1-11). Al popolo, sollecitato a leggere la tragedia dell’esilio come conseguenza dell’idolatria che lo ha spinto ad abbandonare la «fonte della sapienza» perdendo la pace e la vita, è chiesto di ritornare al Signore per risplendere della sua luce e gioire della propria appartenenza (Bar 3,9-15.32-4,4). Quest’opera del ritorno viene spiegata nell’ultimo testo profetico come intervento salvifico di Dio che, fedele a se stesso, promette un lavacro di purificazione e il dono di un «cuore nuovo» e di uno «spirito nuovo», dotati di sensibilità maggiore nei confronti della sua parola (Ez 36,16-17a.18-28). Questi testi profetici dunque non consegnano tanto un’altra tappa della storia di Israele, ma aiutano a volgere lo sguardo verso un futuro pieno di speranza. Si staglia infatti all’orizzonte la ricostruzione di Gerusalemme, la fioritura di un popolo di «discepoli del Signore», la conversione dei popoli, la piena comunione tra Israele e quel Dio che gli ha fatto conoscere ciò che a Lui piace.
 
Viventi per Dio
Dopo le acque della creazione e quelle del mare che obbediscono alla voce del Signore e dopo l’«acqua pura» con cui Dio promette di purificare il suo popolo, l’apostolo Paolo istruisce la comunità cristiana sul mistero dell’acqua battesimale, nella quale si è immersi grazie alla fede in Cristo, acqua che non lava via la sporcizia ma produce una vita nuova. Per mezzo del battesimo, infatti, accade ciò che i testi profetici avevano significato: il tempo di una comunione rinnovata con Dio per mezzo del Figlio suo. Il dono del cuore nuovo concesso all’umanità è dato attraverso il dono d’amore del Figlio che si consegna alla morte e la assume su di sé fino a neutralizzarne il potere. Cristo, infatti, come recita il Preconio pasquale, «spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro». Risorgendo dai morti, egli ha sconfitto la morte. In forza dell’intima comunione con Cristo che si genera col battesimo, il credente sperimenta il mistero pasquale nella sua stessa carne: sperimenta che si può morire al peccato, crocifiggendo «l’uomo vecchio» (l’umanità che vive sotto la sfera del peccato e si oppone a Dio e alla sua volontà), e si può rinascere alla libertà dei figli di Dio che permette di vivere per Dio. Camminare nella vita nuova significa quindi essere liberi, non più schiavi del peccato. Si comprende allora che la schiavitù d’Egitto non significava solo l’esperienza dell’oppressione di un potere umano, ma anche del potere del peccato che rappresenta l’ostacolo più grande al compiersi del disegno divino avviato con la creazione. Vivere per Dio in Cristo Gesù significa fare della propria vita un culto spirituale, una lode permanente all’amore di Dio che non cambia con l’alternarsi delle stagioni e delle mode, ma è «per sempre» (Sal 117,1-2).
 
Il tripudio della vita e il dono della fraternità
Prima di condurci in un luogo, il sepolcro, l’evangelista Matteo ci consegna un tempo, l’alba, che crea in noi, uditori della Parola, una forte connessione tra la luce che tinge il cielo al mattino e la parola pronunciata da Dio nella sua ingiunzione creatrice del primissimo giorno (Gen 1,3). Questa luce che inaugura il primo giorno della settimana - che i primi cristiani consacreranno al Signore - viene accentuata dall’apparizione folgorante di un angelo. Destinatarie di questo tripudio di luce sono due donne, Maria di Magdala e l’altra Maria, che non sono portatrici di aromi, come in Marco e in Luca. Escono all’alba gratuitamente, attratte dal luogo che trattiene la vita del loro Maestro. Esse, come l’assemblea pasquale, essa stessa femminile, desiderano vedere e sono accontentate: assistono a un terremoto, a un’angelofania, all’apertura del sepolcro. La potenza divina irrompe nel cosmo per operare ciò che era stato promesso per bocca di Ezechiele: «ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio» (Ez 37,12). Questa promessa intercetta l’attesa dei lettori che scorgono nella risurrezione di Cristo la speranza della propria. L’angelo invita le donne innanzitutto a non temere, a non reagire come le guardie, ma a credere che il Crocifisso è stato risvegliato, perché la sua tomba è vuota. Poi le invia dai discepoli per annunciare loro la risurrezione di Gesù e l’appuntamento che egli ha fissato con loro in Galilea. Mentre le donne corrono con timore e gioia a portare l’annuncio ai discepoli, accade una sorpresa più grande della precedente. Non più un angelo si manifesta a loro, ma il Risorto in carne ed ossa che si lascia abbracciare e adorare. Gesù rilancia le donne nella loro missione evangelizzatrice ma, diversamente dall’angelo che le aveva indirizzate ai «suoi discepoli», egli le manda a coloro che chiama «miei fratelli». Il Risorto consegna alle donne le due grandi verità della Pasqua: la filiazione e la fraternità. Il dono di vita presente in Gesù Risorto supera la vita biologica, dà origine alla nuova creazione del battesimo dove siamo resi figli nel Figlio e diventiamo fratelli del e nel Risorto. L’assemblea può sentirsi così destinataria del tesoro che la liturgia della Parola le ha consegnato e custode della fraternità che fa di ogni comunità ecclesiale non un agglomerato di individui, ma una comunione di fratelli, un’autentica famiglia.
Domenica di Pasqua
At 10,34a.37-43 Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
Sal 117 Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo oppure Alleluia, alleluia, alleluia.
Col 3,1-4 Cercate le cose di lassù, dove è Cristo oppure 1Cor 5,6b-8 Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova.
Canto al Vangelo (cf. 1Cor 5,7b-8) Alleluia, alleluia. Cristo, nostra Pasqua, è immolato: facciamo festa nel Signore. Alleluia.
Gv 20,1-9 Egli doveva risuscitare dai morti (nella Messa del giorno)
Lc 24,13-35 Resta con noi perché si fa sera (nella Messa vespertina).
 
«Noi siamo testimoni»
L’evento della Risurrezione diventa forza propulsiva per coloro che ne sono stati testimoni. Un testimone di Cristo è primizia dei salvati. Egli acquista una luminosità che lo trascende, diviene qualcuno che non si appartiene più, che non può più separare la sua vita dall’impatto con Colui che lo ha ferito, rapito, trasformato. Il testimone è un “espropriato”, parla di sé alla luce di un altro che non lo depaupera di sé, ma lo arricchisce e lo completa del suo dono. Questo è quanto accade a Pietro, trasfigurato dal dono che è la persona di Cristo e dal dono di Cristo che è la sua Pasqua, trionfo della vita su ogni morte. Questo discepolo della prima ora ha seguito tutto l’itinerario di Gesù. Lo conosce e sa ricapitolarlo con estrema agilità. Il contesto in cui lo vediamo predicare è quello di un primo annuncio rivolto al centurione romano Cornelio e alla sua casa. Pietro è forte dell’evento della risurrezione di Cristo, ma anche di un effetto che ad essa consegue: l’allargamento del perimetro della salvezza. Pietro viene istruito interiormente da Dio perché comprenda che la salvezza è per tutti gli uomini. Egli non cancella il privilegio d’Israele come popolo che ha ricevuto la rivelazione, ma sostiene che il Vangelo nato in seno al popolo eletto produce una salvezza che travalica i confini d’Israele per raggiungere ogni carne. Pietro riassume il ministero di Gesù menzionando luoghi, eventi, persone e soprattutto elaborando una teologia del miracolo, dove l’attività terapeutica di Gesù rappresenta la garanzia della sua identità messianica. Egli non parla da singolo, ma utilizza il plurale per significare la comunione che caratterizza il collegio apostolico, l’unione dei testimoni, di coloro cioè che hanno condiviso con Gesù il ministero, la prova della passione (anche se zoppicando), e persino il pasto dopo la sua risurrezione, ricevendo il mandato di predicare la sua signoria di Giudice universale e di annunciare il perdono dei peccati a chiunque crede in lui. Senza trascurare la priorità d’Israele nel progetto salvifico divino, la predicazione di Pietro apre alla missione universale, preannunciata dai profeti e realizzata dalla Pasqua di Cristo.
 
La vita nuova
L’effetto della risurrezione di Cristo è la caduta dei privilegi e dei muri di separazione, ma anche una capacità nuova di illuminare la storia dal di dentro per comprendere che non ci è data un vita terrena e basta, ma che questa nostra vita è innestata in quella divina che la riossigena continuamente. Paolo e la tradizione paolina invitano i credenti non solo ad essere testimoni della risurrezione di Cristo ma a vivere essi stessi da «risorti». A questa vita nuova si accede con il battesimo e in essa si può perseverare eliminando il «lievito vecchio» che è «lievito di malizia e di perversità» (1Cor 5,6-8) - che rimanda alla contaminazione dovuta al peccato - e sottraendosi alla superficialità del mondo protesi alla manifestazione di Cristo che è la «nostra vita», imparando che ciò che è stabile non si trova nelle cose «della terra» ma in quelle «di lassù», cioè in Cristo stesso (Col 3,1-4). La vita nuova è descritta come esistenza luminosa perché vissuta all’insegna della sincerità e della verità. Essere «azzimi», liberi dal lievito del peccato, significa certamente accogliere il dono di Cristo ma al tempo stesso anche impegnarsi a vivere un’esistenza trasparente in responsabile coerenza con la nuova condizione di risorti.
 
«Vide e credette»
L’evangelista Giovanni ci conduce fin dentro al sepolcro dove si sprigionano le fragranze inedite della Risurrezione di Cristo. La vita entra laddove prima regnava solo il tanfo della morte. Prima testimone di questa incredibile vittoria è una donna mattiniera che si lancia solitaria al sepolcro. È ancora buio, ma si tratta di un buio che prelude all’inizio di un nuovo giorno, giorno che non è uno qualunque, ma il «primo» della settimana e l’alba di una creazione nuova. Questa donna che non teme le tenebre è Maria di Magdala, discepola che nel IV Vangelo entra in scena solo al momento della crocifissione, dove appare accanto al piccolo resto dei discepoli fedeli che Gesù pone sotto il manto della Madre. Con perseveranza e coraggio ha seguito il Cristo fino alla Croce e ora lo segue al sepolcro. Il corpo del Maestro, anche se rinchiuso in un sepolcro, continua ad essere calamita per Maria che si lascia attirare, malgrado il buio. Solo l’amore può trattare un corpo morto alla stregua di un corpo vivo. Il corpo, infatti, non è un dettaglio accidentale ma è la manifestazione della persona totale, della sua capacità relazionale, della sua unicità, realtà dinamica che permette la rivelazione e la comunicazione. È il terreno dell’incontro con l’altro, il giardino dove sboccia ogni sorta di relazione. Per questo Maria si dirige al sepolcro e non ha paura del buio. Desidera onorare chi ha toccato la sua vita e ossigenato l’orizzonte in un modo così significativo da continuare a vivere in lei e con lei. Giunta al sepolcro, Maria è destabilizzata: la pietra è stata tolta dal sepolcro. Che vuol dire? Al dolore per l’assenza del suo Signore si aggiunge quello per la scomparsa del suo corpo. Senza indugio, questa “donna dell’aurora” corre da Pietro e dal discepolo amato, inizia la sua indagine appellandosi alla comunità, a quei discepoli così intimi a Gesù che, credendo alla sua parola, vengono da lei coinvolti e con lei decidono di correre al sepolcro. Il discepolo amato arriva prima, vede i teli funerari deposti, ma si arresta per dare la precedenza a Pietro che entra nel sepolcro e trova anche il sudario. Ci sono solo gli abiti della morte, ma dov’è la morte? Dove il suo pungiglione? Il discepolo amato decide di entrare e l’esperienza che fa in quel luogo, che sembrava avesse ingoiato per sempre il Maestro, è letta da un efficace «vide e credette». Un’intuizione luminosa lo attraversa ed è come se percepisse il mistero dell’eternità incastonata nel tempo, della vita in pienezza che sgorga da una morte abbracciata per amore e infine vinta. Ma quei teli e quel sudario piegati, che non avvolgono più il corpo di Gesù, restano un punto interrogativo. È ancora buio per la mente umana... La fede deve ancora fare i conti con i deserti del cuore. La luce può venire solo dal Risorto e dalle sue parole che aiutano a comprendere le Scritture, scaldano il cuore e aprono la mente e gli occhi del cuore.
 
Riconoscere il Risorto che vive in mezzo a noi
Quando la ragione non riesce a comprendere il mistero non può fare altro che arrendersi e lasciarsi illuminare dal mistero stesso che si rivela facendosi presenza, esperienza. L’evangelista Luca lo testimonia a proposito di due discepoli del Signore, la cui comprensione sembra infrangersi contro lo scoglio della morte di croce. Per i due di Emmaus, che esprimono la loro delusione totale nei confronti di quel Maestro che avevano seguito e nel quale avevano tanto sperato, non resta altra soluzione che il regresso alla sfera del privato, cioè tornare a casa e farla finita con l’attesa della liberazione e del riscatto di Israele, ormai naufragata definitivamente. La strada da Gerusalemme a Emmaus, breve stando alla geografia, diviene un itinerario piuttosto lungo perché percorsa col cuore gonfio di delusione. Se si dilata lo spazio, però, si dilata anche il tempo e si apre in esso una fessura: il Risorto fa capolino per disinfettare le ferite dell’incredulità e raggiungere quell’abisso della separazione da lui dove i suoi due discepoli sono andati a finire. Lo fa delicatamente, non imponendosi, ma proponendosi come un interlocutore sconosciuto e senza un secondo fine, con il quale rileggere gli eventi, raccontare le attese. Dal ministero pubblico alla tomba vuota viene rivisitato tutto l’evento Cristo. La catechesi dei due al forestiero è precisa, ma piatta, spenta. Manca il sale della fede a darle sapore. E Gesù provoca la fede mostrando ai suoi la circolarità ermeneutica tra le Scritture e la sua Pasqua: la sua croce è conforme alle Scritture. Il dono totale della sua vita mostra come la potenza si manifesta proprio nella debolezza. L’ermeneutica offerta da Gesù alle Scritture e alla sua Pasqua scalda il cuore dei discepoli e i gesti dell’ultima cena, ripetuti per loro soltanto, sciolgono definitivamente i nodi del cuore. Gli occhi si aprono e la fede protrae la presenza del Cristo Risorto che non si manifesta più in carne ed ossa ma nei sacramenti della Chiesa, che rigenerano continuamente la vita dei credenti, accendendo sui loro volti il sorriso radioso di Dio.
 
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 11-APR-17
 

Chiesa Cattolica Italiana - Copyright @2005 - Strumenti Software a cura di Seed