Questi è il figlio mio, l’amato: ascoltatelo - Ufficio liturgico nazionale
14 aprile
Venerdì Santo
Passione del Signore
Is 52,13-53,12 Egli è stato trafitto per le nostre colpe.
Sal 30 Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.
Eb 4,14-16; 5,7-9 Cristo imparò l’obbedienza e divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono.
Canto al Vangelo (cf. Fil 2,8-9) Gloria e lode a te, Cristo Signore! Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome. Gloria e lode a te, Cristo Signore!
Gv 18,1-19,42 Passione del Signore.
 
Piaghe che guariscono
Nel deutero-Isaia appaiono ben quattro canti, composti con tutta probabilità nel periodo post-esilico, dedicati ad un personaggio misterioso: il Servo del Signore. Si tratta di una figura di difficile identificazione che gli interpreti leggono ora come un individuo (Mosè, Geremia o lo stesso Isaia), ora come una collettività (il popolo di Israele). A questo Servo, Dio affida una missione particolare che si realizza però in modo sorprendente e paradossale. Il quarto canto, infatti, mostra l’estrema ostilità sperimentata da questo Servo che riceve gloria dopo una prova estremamente umiliante. Egli è assimilato a «una radice in terra arida», un essere ripugnante dinanzi al quale si prova vergogna. Contro di lui si abbatte il disprezzo degli uomini, causa di tanta sofferenza. Diversamente da quanto ci si aspetterebbe, egli reagisce accettando il rifiuto e assumendo il carico di sofferenze di coloro che lo rifiutano. Il Servo è come la calamita che attira la coltre delle sofferenze e dei peccati umani, ma anziché restarne schiacciato egli diviene fonte di sollievo tanto che «per le sue piaghe noi siamo stati guariti». Egli acquista così i tratti di colui che compie l’espiazione dei peccati del popolo e reagisce alla violenza che si scaglia contro di lui con la mitezza di un agnello che si lascia tosare e macellare senza opporre resistenza. È il nuovo agnello della Pasqua, il cui sangue procura salvezza e diviene principio della vita non più di un gregge disperso ma dell’intero popolo dei redenti.
 
Il giusto che giustifica
Il Servo del Signore appare come il giusto che, pur se scevro da qualsiasi forma di violenza e inganno, subisce le pene destinate al peggiore tra i malfattori: morte e sepoltura con gli empi. Incarnazione del dolore innocente di tutti i tempi, il Servo non scompare dentro ad un sepolcro, ma riemerge dalla morte, vede la luce e riceve gloria e ricompensa. È la dinamica dell’esaltazione che fiorisce proprio nel cuore dell’umiliazione. Un’umiliazione che egli non subisce passivamente, ma che accoglie dinamicamente facendo delle sue prove un dono, un’offerta «in sacrificio di riparazione». Addossandosi le iniquità altrui, il Servo giusto giustificherà molti. Appare qui uno dei pilastri della teologia paolina: la giustificazione. Solo chi è giusto può giustificare. Per Paolo solo Cristo può realizzare quest’opera che consiste nel ricondurre l’uomo dalla condizione del peccato al progetto originario di Dio che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. Quest’azione giustificatrice è come l’energia che si sprigiona dalla morte di Cristo per far morire l’uomo vecchio ed è come l’energia che emana dalla resurrezione di Cristo che permette la rinascita a vita nuova. Chi è allora colui che Isaia chiama «il mio servo»? Se lo chiede anche un eunuco etiope che interpella il diacono Filippo (cf. At 8,34). Chi si nasconde o meglio si rivela in quel volto così privo di «bellezza per attirare i nostri sguardi»? Gesù stesso si identifica nel Servo quando dice di essere venuto «a servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Filippo vede nel volto del Servo sofferente il volto del Cristo della Passione (cf. At 8,35) e gli autori del Nuovo Testamento sono tutti unanimi nel leggere questi canti in chiave cristologica. Gesù è il servo scelto e amato che annuncerà la giustizia alle nazioni e nel cui nome esse spereranno (Mt 12,18-21; cf. Is 42,1-4), ma è anche il servo sofferente che «ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie» (Mt 8,17), colui che «deve soffrire molto ed essere disprezzato» (Mc 9,12), colui dalle cui piaghe si è «guariti» (1Pt 2,24-25). È Cristo che, in qualità di sommo sacerdote estremamente solidale con il popolo, ha saputo immedesimarsi con la creatura umana e «prendere parte alle nostre debolezze… messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15), diventando per chi lo ascolta «causa di salvezza eterna» (Eb 5,9).
 
Bere il calice
Il vangelo di Giovanni si apre con il dramma del tradimento. La notte di Giuda, iniziata con il suo disconnettersi dalla comunione con il Maestro durante la cena, continua con la tenebra della consegna del Giusto nelle mani dei peccatori. C’è un ricercato speciale dinanzi al quale gli aggressori - soldati e guardie del tempio - non riescono a stare, se indietreggiano e cadono indietro. Ma Gesù non fugge e viene allo scoperto, lasciandosi trovare da chi lo cerca, perché i suoi non vengano coinvolti al posto suo e quando Simon Pietro prova a difenderlo, egli gli ricorda la necessità di deporre le armi e permettergli di bere il calice. Bere il calice è un’espressione che rimanda sia al «calice della salvezza» (Sal 115, 4) che al «calice dell’ira» o il «calice del castigo» (Is 51,17; Ger 25,15). Nel calice personale di Gesù s’intrecciano i due motivi: egli desidera bere la coppa riservata ai peccatori per trasformarla in calice di salvezza. Desiderio che si accorda al progetto di Caifa che ritiene conveniente che «un solo uomo muoia per il popolo». È la morte espiatrice presente nel quarto canto del Servo. Questo desiderio di Gesù però mal si coniuga con le paure di Pietro che, sentendosi minacciato, nega di essere suo discepolo, voltando le spalle al Maestro.
 
La fonte della rinascita
Mentre i sommi sacerdoti hanno fretta di risolvere il caso e stanno alla larga dal pretorio per evitare contaminazioni che potrebbero compromettere la celebrazione della Pasqua, il Maestro viene condotto dal procuratore romano Pilato, che gli rivolge una domanda carica di tensione e di curiosità: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù fa conoscere una regalità nuova, sconosciuta, spiegando che il suo regno non è di questo mondo, che non è uno spazio fisico ma la realtà che permette a ogni cosa di essere ciò che è: la verità. Le parole di Gesù toccano Pilato che non trova in lui alcuna colpa e desidera rimetterlo in libertà, scontrandosi però con i Giudei che preferiscono alla sua libertà quella di un brigante e costringono Pilato a decretare la crocifissione del Giusto. Giovanni ci conduce così all’apice di quella teologia del fallimento che attraversa l’intera liturgia della Parola del venerdì santo. Insieme all’umiliazione e alla sofferenza, a Gesù-Servo del Signore non viene risparmiato il dramma dell’abbandono. Ha lavato i piedi ai suoi, mostrando tutta la sua prossimità e solidarietà con loro, ma nel momento della prova è solo un piccolo gruppo che resta con lui sotto la Croce: il discepolo che egli ama e tre donne, Maria, madre di Cleopa, Maria di Magdala, e la madre, la prima discepola che ha acceso la sua fede sin dall’inizio, a Cana, quando ha confessato di credere nel Figlio, senza esitazione alcuna. Il vangelo di Giovanni ci conduce così fino alla sorgente della rinascita: una croce, da simbolo di infamia, diventa il centro di irradiazione del soffio del Figlio amato del Padre che, dopo aver amato l’umanità fino all’estremo, si lascia aprire il costato, facendone sgorgare «sangue ed acqua», elementi che rimandano alla vita divina che fluisce nella storia attraverso l’eucaristia e il lavacro battesimale. Quel costato aperto sancisce l’inizio di una rigenerazione, di una nuova nascita che non accade secondo la carne ma secondo lo Spirito. Quello che Gesù aveva annunciato in modo prolettico a Nicodemo ora si compie. Si può rinascere dall’alto, solo recandosi sotto la croce e prendendo tra le proprie mani il corpo di Gesù, cospargendolo con i profumi destinati ai funerali di un Re, mostrando che anche chi si ritiene maestro ha bisogno di abbassarsi per abbracciare la vita del Figlio e vivere un’esistenza luminosa da discepolo e da alleato del Padre.
 
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 23-FEB-17
 

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