Questi è il figlio mio, l’amato: ascoltatelo - Ufficio liturgico nazionale
23 aprile
II domenica di Pasqua
Parola di Dio
At 2,42-47 Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune.
Sal 117 Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre; oppure Alleluia, alleluia, alleluia.
1 Pt 1,3-9 Ci ha rigenerati per una speranza viva, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti.
Canto al Vangelo (Gv 20,29) Alleluia, alleluia. Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Alleluia.
Gv 20,19-31 Otto giorni dopo venne Gesù.
 
Una comunità che cresce
Luca ci permette di sbirciare tra le mura della domus dove la comunità dei credenti si raduna. Appare chiaro che dopo la prima Pentecoste cristiana, esperienza in cui lo Spirito di Dio dinamizza la parola degli apostoli e si effonde su ogni carne, l’esistenza umana diventa lo scenario dell’operare di Dio che si manifesta per mezzo degli apostoli attraverso prodigi e segni. Lo straordinario si fa ordinario, dove si dà a Dio la possibilità di abitare. Quanti con il battesimo si sono uniti a Cristo vivono: dell’ascolto della Parola che viene loro spezzata dagli apostoli; di un’alta qualità di rapporti interpersonali; della memoria del dono del Signore attraverso l’esperienza della fractio panis; della risposta al Dio che chiama, attraverso la preghiera. Quattro aspetti che diventano i pilastri della comunità credente. Diversamente dalla società umana, dove ognuno è intento a prosperare a prescindere dagli altri o persino a scapito degli altri, la comunità dei credenti sceglie di ripudiare l’individualismo per favorire la condivisione, la solidarietà, l’assistenza. La perseveranza diventa la cifra di uomini e donne che scelgono la via della comunione e della sobrietà. Questo perseverare nell’alleanza genuina con Dio e con i fratelli diventa forza attrattiva che affascina, seduce e conquista molti, diventa lievito buono che fa fermentare tutta la massa. L’adesione alla fede non accade per proselitismo o imposizione, ma per fascinazione di bellezza. Questo è il principio in forza del quale vive la comunità credente di ogni tempo.
 
«Nella sua grande misericordia»
La risurrezione di Cristo non è un evento tra gli altri, ma è la fonte della rigenerazione umana. Il Padre ha fatto sgorgare da questa vittoria del Figlio sulla morte un potenziale di vita che ha il potere di rigenerare ogni essere umano, di partorirlo a una vita nuova. La vita nuova non è un guadagno che si ottiene con sforzi o meriti, ma è dono, un’esperienza immeritata, del tutto gratuita, che muove alla speranza, consegnando ai credenti la consapevolezza di essere eredi non di realtà materiali, destinate a passare, ma di beni eterni imperituri, beni di cui Dio stesso è garante e custode per noi che siamo salvaguardati dalla fede. Se il dono non viene dall’uomo è perché trova la sua origine in un sentimento dinamico che abita il cuore di Dio e che ha il potere di trasfigurare l’uomo e la storia: la sua misericordia che, come tutto ciò che si può dire di un Dio che è instancabilmente a favore dell’uomo, è una dimensione grande, non quantificabile, fuori cioè da ogni misura umana. È «nella sua grande misericordia» che Dio mostra le sue tracce da sempre, a partire dalla prima alleanza. In questa qualità specifica del suo amore che dice presenza, vicinanza, compassione, aiuto, perdono e sensibilità verso i desideri del cuore umano, egli ama farsi incontrare e riconoscere. In questa misericordia abita una possibilità sempre nuova per l’uomo e la donna credenti, abita la chance della conversione e del rinnovamento permanenti.
 
 
Il soffio dello Spirito Santo
Nella sera del grande giorno, il «primo della settimana», i discepoli si trovano insieme in un luogo ormai a loro tanto caro, il cenacolo, ma le porte dell’abitazione sono sprangate. Il sentimento che regna all’interno è la paura, non una paura generica, ma «la paura dei Giudei» che, avendo eliminato il Maestro, rappresentano una reale minaccia anche per la loro stessa vita. In quella dimora satura di paura - ma anche della memoria del Maestro che l’ha impregnata delle fragranze del dono - Gesù si fa presente. Entra in quel luogo in un modo insolito, inedito, «a porte chiuse», segno che lo spazio non rappresenta più un limite. Dopo la risurrezione, egli ci viene presentato con una modalità di presenza nuova, un corpo che è in continuità con quello della sua esistenza terrena e della sua passione - ne porta ancora i segni! -, ma che è anche nuovo perché sfida le leggi della fisica. Gesù, ritto in mezzo ai suoi, perché il sonno della morte è ormai stato sconfitto, li saluta augurando loro lo shalom, la pace, il godimento del dono di Dio. Il pastore ferito non è scomparso, ma è vivo e si manifesta ai suoi. Nel salutarli, offre loro anche la testimonianza delle umiliazioni subìte: le mani forate e il fianco squarciato. Queste ferite nella carne sono i segni distintivi che permettono ai discepoli il riconoscimento. Riconoscere il Signore nell’offerta totale di sé è per loro esperienza che procura fede e gioia, e scaccia la paura perché il dono di sé è la sola risposta della fede alla paura. E in quell’atmosfera di fede gioiosa il Signore risorto consegna ai discepoli una missione nuova con un gesto che richiama l’atto creativo del Padre: Gesù alita sui discepoli il suo Spirito. Come Dio, da esperto artigiano, aveva plasmato l’essere umano dalla terra e aveva soffiato nelle sue narici per trasmettergli la vita, ora il Risorto, figlio amato del Padre, estrae i suoi discepoli dalla polvere della paura e soffia su di loro il suo alito vitale, infondendo loro lo Spirito Santo e rendendoli dispensatori del perdono divino. Questi discepoli timorosi e impauriti sono abilitati a riversare sugli uomini e le donne di tutti i tempi la misericordia del Padre, che è la chiave del Cielo.
 
«Se non vedo…»
Ma tra i discepoli, oltre al «figlio della perdizione», Giuda, manca all’appello Tommaso che, quando rientra a casa dagli altri, si mostra scettico dinanzi al racconto della visita di Gesù Risorto. Non avendolo visto con i propri occhi, non riesce a credere. Gli servono prove: la vista e il tatto sono il suo unico accesso alla verità. La settimana dopo, Gesù - che ha accolto la sfida di Tommaso - torna e lo invita a fare le sue verifiche: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Tommaso vede ma non tocca. In quelle ferite di dolore scopre i segni dell’amore e si arrende e proclama: «Mio Signore e mio Dio!». La confessione di fede sgorga da un cuore che si scioglie dinanzi alla presenza di un Dio vivo che non si sottrae alla relazione, non condanna chi fa fatica a credere, ma gli dà appuntamento e lo aspetta. Tommaso ha visto, ma noi, discepoli di oggi, non vediamo. Leggere la vita con la Scrittura e la Scrittura con la vita ci permette però di abbracciare la fede e la vita vera, ci permette di vedere il Risorto nell’Eucaristia, nei volti e negli eventi di ogni giorno. Ci permette di sentirci eredi dei beni più grandi.
 
Una gioia indicibile e gloriosa
L’eredità straordinaria di cui Dio ci ha resi partecipi sin d’ora è un bene così grande da immetterci in uno stato di gioia permanente. Per l’apostolo Pietro e la comunità che nasce dalla sua predicazione essere eredi di Dio è fonte di una gioia indicibile che niente può attutire o spegnere, nemmeno le prove dolorose della vita. Esse infatti non accadono per allontanarci da Dio e devitalizzare la nostra fede, ma sono fuoco di purificazione che rende la fede «molto più preziosa dell’oro». In tal modo la fede è provocata a crescere e a progredire, avendo come motore l’amore per Cristo e come meta la salvezza di molti.
 
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 31-MAR-17
 

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