Questi è il figlio mio, l’amato: ascoltatelo - Ufficio liturgico nazionale
21 maggio
VI domenica di Pasqua
Parola di Dio
At 8,5-8.14-17 Imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.
Sal 65 Acclamate Dio, voi tutti della terra; oppure Alleluia, alleluia, alleluia.
1Pt 3,15-18 Messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.
Canto al Vangelo (Gv 14,23) Alleluia, alleluia. Se uno mi ama, osserva la mia parola, dice il Signore, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui. Alleluia.
Gv 14,15-21 Pregherò il Padre e vi darà un altro Paràclito.
 
La Parola e lo Spirito
I protagonisti degli Atti degli Apostoli sono una coppia vincente: la Parola e lo Spirito. Della Parola ci è riferito che si compie, viene accolta, chiede ascolto, viene proclamata/insegnata/predicata/inviata, si diffonde, viene ricordata, cresce, è glorificata, custodisce. Lo Spirito invece predice, parla, riempie, si effonde, testimonia, consola, invia in missione, decide, impedisce, avvince, avverte e stabilisce. Nello Spirito inoltre gli Apostoli vengono scelti, sono battezzati, sono consacrati. Questa coppia vincente lavora in stretta sinergia e spinge gli inviati fuori delle mura di Gerusalemme, permettendo loro di assistere alla Pentecoste dei Samaritani. L’inviato destinato alla missione in Samaria è uno dei Sette, Filippo, detto anche «l’evangelista», che predica il Messia e compie gli stessi segni che hanno caratterizzato il ministero di Gesù, liberazioni e guarigioni, che sprigionano il tratto caratteristico dell’effusione dello Spirito: la gioia. La notizia della docilità dei Samaritani giunge a Gerusalemme e i Dodici inviano Pietro e Giovanni perché, dopo aver accolto la Parola e aver ricevuto il battesimo nel nome di Gesù, gli abitanti di Samaria possano anche ricevere lo Spirito Santo tramite l’imposizione delle loro mani. Accanto ai due protagonisti principali, la Parola e lo Spirito, appare anche il ruolo importante dei due inviati dal collegio apostolico, Pietro e Giovanni, che hanno il compito di innestare la comunità dei Samaritani nella comunione dell’unica Chiesa fondata dagli apostoli e mostrare che essi vi entrano a pieno diritto.
 
«Se mi amate»
Nel contesto dell’ultima cena Gesù istruisce i suoi discepoli circa la qualità della relazione con lui. I discepoli non sono coloro che hanno timore del loro Maestro, ma coloro che lo amano. Il rapporto maestro/discepoli non è un rapporto marcato dal dominio dell’uno e dalla sottomissione degli altri, ma una relazione qualificata dall’amore che appartiene all’ordine della nuova alleanza inaugurata dal Cristo. Mentre celebra la liturgia del distacco, Gesù non fa altro che accrescere e intensificare i legami dell’amore. Solo l’amore permette un ascolto libero, e Gesù desidera uditori liberi della sua Parola. Solo l’amore salva dal senso di abbandono e solitudine che possono paralizzare il cuore. Per questo Gesù consegna una grande promessa: la sua intercessione presso il Padre perché egli doni ai suoi un altro Paràclito che assicuri l’antica promessa biblica dell’Io-con-te divino. Quella divina presenza concretizzatasi visibilmente nella carne di Gesù viene assicurata ora dalla presenza del Paràclito che letteralmente significa «difensore» e che viene identificato come lo «Spirito di verità», perché guida i discepoli alla Verità, alla comprensione della rivelazione che è Cristo. Questo Spirito non è un estraneo o un intruso nella vita dei discepoli, ma presenza conosciuta, cioè sperimentata interiormente, perché già presente in loro. Amando Gesù, infatti, essi hanno anche accolto la sua Parola e il suo Spirito, diversamente dal mondo che ne ha rifiutato la Parola perché non conosce né Gesù né lo Spirito Paràclito. I discepoli hanno già esperienza dello Spirito di Gesù, ma vengono preparati dal Maestro ad una presenza ancora più grande, che rimanda agli effetti della glorificazione di Gesù dopo la sua morte e risurrezione.
 
«Io vivo e voi vivrete»
La liturgia del distacco di Gesù si celebra in un clima di amore e di attenzione che allontana la disperazione e si apre alla speranza dell’avvento di un tempo pieno di sorprese e di promesse straordinarie. Gesù spiega ai suoi che la sua partenza non comporta vuoto, perdita e smarrimento, ma prepara ad una presenza nuova, ad una comunione più grande: il Maestro lascia su questo mondo non un gruppo di individui soli e abbandonati, ma una comunità di fratelli intensamente amati e curati dalla sua divina presenza, che non sarà più percepita all’esterno, ma dentro al cuore. Gesù non sarà più accanto a loro, ma dentro di loro. Questa esperienza determinerà una frattura con il mondo, che non potrà vedere l’irruzione di questo mistero dell’inabitazione di Gesù nei suoi. La scomparsa di Gesù dalla vista umana apparirà come un’assenza per il mondo, diversamente da come la percepiranno i suoi, che invece potranno vederlo. La possibilità di vedere è legata intimamente al conoscere. Potrà vedere Gesù solo chi lo ha conosciuto, chi lo ha amato dando ospitalità alla sua parola nella propria carne. Questo amore apre gli occhi e permette di accedere al mistero pasquale di Gesù e di fare esperienza della potenza di vita che da esso si sprigiona: i discepoli possono vedere Gesù perché è il Vivente che comunica loro la vita in abbondanza, come egli spiega loro con un’espressione estremamente efficace: «voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (Gv 14,19c). I discepoli sono chiamati a condividere la stessa vita di Gesù e ad essere immessi nello stesso mistero di reciproca immanenza che egli vive con il Padre suo: come Gesù è nel Padre, così i discepoli sono in lui ed egli in loro. È l’apice del mistero dell’amore: essere l’uno nell’altro. Questo amore non avrà altra prova che l’osservanza dei comandamenti, l’adesione alla Parola di Gesù. Questo amore dei discepoli attira l’amore del Padre e del Figlio e la loro visita, il loro prendere dimora nei cuori. La nuova casa di Dio non è uno spazio, ma il cuore dei discepoli di ieri e di sempre che hanno dilatato le proprie pareti interiori accogliendo l’ampio respiro di vita che proviene dall’osservanza dei comandamenti.
 
Adorare Cristo nel proprio cuore
Se il Signore ha scelto il cuore umano per sua stabile dimora, non è necessario cercarlo chissà dove. Egli si lascia trovare dentro e chiama i veri adoratori ad adorarlo «in spirito e verità» (Gv 4,23). Il nuovo culto, il culto logico perché conforme al Logos fatto carne, non è più legato a un luogo particolare, ma è la nostra stessa carne visitata dall’amore di Cristo e capace di rispondere al suo amore con l’amore e l’adorazione. Questa adorazione non è un’esperienza intimistica che isola i credenti dal resto del mondo, non è realtà che si possa nascondere o tacere, ma incontro che immette in una speranza significativa capace di dare senso a molti, una speranza della quale bisogna saper dare ragione per imparare a comunicarla e a trasmetterla a chiunque ne sia affascinato o colpito. Di questa presenza viva e vivificante che abita in noi occorre parlare con dolcezza, rispetto e retta coscienza, unica difesa possibile contro le calunnie e le cattiverie di chi aggredisce i credenti perché non comprende. L’arma che il cristiano usa contro il male non è altro che il bene, a imitazione del Maestro che abbracciando la sofferenza ha devitalizzato il peccato, l’ingiustizia e la morte.
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 31-MAR-17
 

Chiesa Cattolica Italiana - Copyright @2005 - Strumenti Software a cura di Seed