Questi è il figlio mio, l’amato: ascoltatelo - Ufficio liturgico nazionale
9 aprile
Domenica delle Palme

Parola di Dio
Mt 21,1-11 Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Is 50,4-7 Non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi, sapendo di non restare confuso.
Sal 21 Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Fil 2,6-11 Cristo umiliò se stesso, per questo Dio lo esaltò.
Canto al Vangelo (Fil 2,8-9) Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.
Mt 26,14 -27,66 La passione del Signore.
 
L’ingresso di Dio nel suo tempio
La tradizione di iniziare la celebrazione di questa domenica attraverso una processione commemorativa, con la quale i fedeli sono condotti a fare memoria dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, è molto antica. Curiosamente, la liturgia sottolinea — molto più di quanto non facciano i vangeli — il ruolo dei fanciulli in questo festoso corteo. I fanciulli, menzionati solo dall’evangelista Matteo, svolgono la funzione di voce profetica che riconosce e attesta la regalità di Gesù, il cui regno — come egli stesso dirà davanti a Pilato — non è di questo mondo. Per questo sono soprattutto i bambini, con il loro spirito piccolo e semplice, a saperlo riconoscere come re autentico. Questa felice intuizione della liturgia sembra profondamente in sintonia con il modo con cui Gesù sceglie di entrare a Gerusalemme, preparando la coreografia del suo ingresso con estrema cura e attenzione ai particolari.
 
Il Signore ha bisogno
Prima di entrare nella città santa, per vivere il suo mistero di passione, morte e risurrezione, Gesù manifesta ai suoi discepoli una necessità. Dice di aver bisogno di un’asina e di un puledro. Anzi, dice in terza persona che «il Signore ne ha bisogno» (Mt 21,3). In tutto il vangelo è la prima e ultima volta che Gesù palesa una simile necessità. Il testo insiste molto su questo particolare, raccontandolo due volte, prima nell’annuncio e poi nell’accadimento. Ciò significa che non si tratta di un dettaglio. Anzi, il suo valore simbolico è molto forte. L’asina infatti rappresenta il tipo di Messia che Gesù è: mite, umile di cuore, tutto a favore dell’uomo e del suo bisogno di salvezza. Tutti si aspettavano un Messia glorioso e potente, che avrebbe avuto il dominio su tutto e su tutti. E in effetti il Cristo viene, ma la sua gloria è l’umiltà, la sua potenza è l’amore, il suo dominio è il servizio. Come dicevano i profeti di Israele: «Umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9,9).
 
Un Dio servo
Nella prima lettura, si ascolta l’inizio del terzo canto del «servo del Signore», questo misterioso personaggio di cui parla l’Antico Testamento, inviato da Dio per portare la salvezza agli uomini, che la tradizione cristiana ha identificato naturalmente con il Signore Gesù Cristo. Il servo che porta la salvezza del Signore non è uno che dispone di facili e universali soluzioni ai problemi presenti nella storia. È piuttosto un discepolo che, ogni mattina, ha bisogno di mettersi in ascolto della realtà per poter poi compiere la sua missione di salvezza confidando unicamente nella forza del bene. La parola del profeta Isaia assicura che Dio è così attento alla nostra storia da non tirarsi mai indietro, nemmeno quando l’onda del male arriva addosso a lui. Anzi, proprio quando il gioco si fa molto duro, il servo del Signore sceglie di non sottrarsi, senza mai cadere nella logica della violenza e dell’aggressività.
 
Un Dio che si svuota
Lo stesso rovesciamento di parametri è raccontato dal meraviglioso inno di san Paolo apostolo ai Filippesi, dove si annuncia il modo con cui il nome di Dio si è definitivamente rivelato al mondo. Svuotandosi, Dio ha riempito il mondo della conoscenza di lui, annullandosi ha maturato un nome che ormai attende solo di essere da tutti riconosciuto e accolto. Dio, pur potendo imporre il suo nome, ha atteso pazientemente che l’uomo imparasse a riconoscerlo e ad accoglierlo, confessando la sua misteriosa e paradossale regalità divina.
 
Regale perché reale
Il tema del paradosso, in questa domenica delle Palme, si prolunga e culmina nel racconto di Passione, il secondo lungo vangelo che oggi viene proclamato. Ciò rappresenta un unicum nell’anno liturgico. Come mai, in questo giorno, la chiesa ricorre a due vangeli per condurre i fedeli nel cuore della settimana Santa? Perché ascoltando il vangelo che accompagna la processione di ingresso noi ricordiamo la regalità di Cristo, nell’ascolto della sua passione facciamo invece memoria della realtà della sua regalità. Questo misterioso intreccio dipinge il volto di un Cristo regale perché reale, cioè attento alla realtà fino al punto da assumerla interamente, senza alcuna mistificazione.
 
Il Padre rivelato
Del resto, la morte in croce di Gesù non è la più crudele o la più assurda delle morti che la storia abbia conosciuto. Purtroppo, altre persone, lungo i secoli — e ancora oggi — sono state sottoposte a sofferenze ben più atroci. Ma possiamo dire con certezza che è stata sicuramente la più cruda, perché nella manifestazione del più grande amore — quello di Dio stesso — si è realizzato lo scontro con il più grande rifiuto — quello dell’uomo, creato a sua immagine e somiglianza. Eppure attraverso questa sofferenza il Signore Gesù ci ha svelato, definitivamente, il volto di Dio. Per questo, i vangeli si preoccupano di annotare che, quando Gesù muore, il velo del tempio si squarcia: il Dio invisibile può ormai essere riconosciuto nel corpo esanime, ma ardente d’amore, di Gesù il Nazareno. Questo è l’ultimo grande ossimoro di questa liturgia domenicale.
 
Il Figlio compiuto
Gesù sulla croce muore in una completa solitudine. I discepoli sono tutti fuggiti. I soldati lo sorvegliano. I capi religiosi lo scherniscono. Persino l’ultima solidarietà, quella del Padre celeste, non fa udire la sua voce. Quando il suo ultimo disperato grido — «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» — non ottiene risposta, Gesù capisce che è venuto il momento di diventare lui stesso risposta alla domanda. Il Padre non risponde, non perché estraneo o insensibile al dolore del Figlio, ma perché vi partecipa nel modo più profondo e rispettoso della sua libertà. Il suo silenzio non è abbandono, ma l’impalpabile segno di fiducia in quanto il Figlio sta compiendo nella sua libertà d’amore. Il Padre non interviene per consentire al Figlio di poter dire fino in fondo ciò che gli sta a cuore — noi e la nostra salvezza — e, al contempo, per poter dichiarare fino in fondo quello che è disposto a essere: un Cristo povero e umile, che dà la vita per i suoi amici e anche per i suoi nemici. Nel racconto evangelico un particolare conferma questa prospettiva, quando Gesù rifiuta di prendere il vino mescolato con fiele, che era in antichità un comune anestetico che si dava ai condannati a morte per alleviarne le sofferenze. Gesù lo rifiuta non certo per il gusto di soffrire di più, ma solo per vivere fino in fondo la propria scelta di amore e di servizio.
 
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 13-FEB-17
 

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