Sussidio Quaresima Pasqua 2016 - Ufficio liturgico nazionale
14 febbraio
I domenica di Quaresima
Forti contro la tentazione, ricolmi dei doni di Dio
Parola di Dio
Dt 26,4-10: “Ecco i frutti della terra che tu, Signore, mi hai dato”. All’inizio di tutto, la benevolenza di Dio e il suo dono: prima ancora che intervenga il peccato e il rifiuto.
Sal 90: "Mio rifugio, mia fortezza, mio Dio in cui confido".
Rm 10,8-13: “Il Signore di tutti, ricco verso quelli che lo invocano”. La ricchezza di Dio si china sulla povertà di chi lo invoca.
Lc 4,1-13: ”Sta scritto: non tentare il Signore, Dio tuo”. Tentare Dio significa approfittare della sua benevolenza, sfidarla, ridurre la sua misericordia a impunità.

In breve
La tentazione può mascherarsi sotto apparenze di misericordia: prima fra tutte, la rassegnazione indifferente all’inevitabilità della tentazione, del cedimento alla fragilità umana. Da qui la ricerca del soddisfacimento dei bisogni unicamente materiali (prima tentazione) e la pretesa di usare a fin di bene il potere (seconda tentazione). L’ultima proposta diabolica, nel racconto lucano, mostra la più grande insidia: mettere alla prova il Signore, vale a dire approfittare beffardamente della sua misericordia, sfidarlo alla protezione assoluta, rimandando l’urgenza della conversione.

Commento Gesù mostra il volto amorevole del Padre, chinandosi verso l’umanità tentata, assumendo su di sé il peso e la fatica della lotta, mostrando in sé come è possibile vincere il male. Così mostra anche un volto possibile di uomo nuovo: che rimane con la sua fragilità, che non vince magicamente, ma si affida al Padre e vive un’autentica fraternità.
 
L’esperienza di Israele nel deserto Come Israele era stato condotto da Dio nel deserto per quarant’anni, in modo che fosse provato ciò che era nel suo cuore e la sua fedeltà nell’osservare i comandi (cfr. Dt 8,2), così Gesù viene condotto dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni, dove viene messo alla prova dal diavolo.
Notiamo innanzitutto che Gesù respinge le tentazioni diaboliche facendo leva sulla parola di Dio contenuta nei capp. 6-8 del Deuteronomio (cf Dt 8,3: “ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna .. per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore; e Dt 6,13-14: “Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome. Non seguirete altri dèi…”; e infine Dt 6,16: “Non tenterete il Signore, vostro Dio, come lo tentaste a Massa”).
Notiamo poi che le prove stesse che egli si trova ad affrontare richiamano più o meno direttamente i “test" falliti da Israele nel deserto.
In Esodo 16, Dio concede la manna dal cielo di fronte alle mormorazioni con cui il popolo rimpiange l’abbondanza di pane di cui disponeva in Egitto (Es 16,3). Gesù invece, ugualmente provato dalla fame, si rifiuta di abusare a proprio vantaggio della figliolanza divina per ottenere un “pane celeste”.
Il popolo si era prostrato dinanzi al vitello d’oro, attribuendo ad esso l’uscita dall’Egitto (Es 32,4.8), Gesù da parte sua rifiuta risolutamente di riconoscere la pretesa di potere e autorità sui regni del mondo rivendicata dal diavolo, e ingannevolmente offerta in cambio dell’adorazione.
Infine a Massa e Meriba (Es 17) Israele mette alla prova Dio stesso contestando che egli davvero abbia una presenza provvidente nei confronti del popolo; Gesù rifiuta categoricamente di tentare Dio e obbligarlo a dare prova di quella protezione che secondo il Salmo 91 (90) (abilmente citato dal tentatore) il Signore non fa mancare a chi in Lui cerca rifugio e a Lui si affida.
 
Se sei Figlio di Dio…
In questo modo l’evangelista mostra quale sia la qualità specifica della figliolanza divina di Gesù rivelata in occasione del battesimo del Giordano (a cui si riallaccia la frase condizionale del diavolo “se/siccome sei Figlio di Dio…” in Lc 4,3.9), ma già annunciata nel racconto dell’infanzia (Lc 1,32.35) e nella genealogia (3,23.38), e in che modo debba concretizzarsi la dotazione dello Spirito Santo legata a tale identità.
La proposta diabolica consiste nell’insinuare che essere Figlio di Dio e disporre della potenza dello Spirito siano privilegi da sfruttare a proprio vantaggio, o per affrancarsi dal bisogno e dalla sofferenza, o per ottenere (e, per giunta, facilmente) ciò che tutti gli uomini bramano e per il cui possesso da sempre guerreggiano e si calpestano a vicenda: il potere, il dominio; oppure per disporre arbitrariamente della propria vita fino a lanciarsi in imprese sconsiderate.
Gesù rifiuta questo copione. Certo, guarigioni clamorose e perfino ritorni in vita saranno una parte importante del suo ministero profetico-messianico, ma mai per sé stesso, bensì solamente a beneficio degli altri che si trovano nel bisogno (poveri, prigionieri del demonio, ciechi, oppressi, zoppi, lebbrosi, sordi, morti) come dichiarato programmaticamente nella sinagoga di Nazaret, poche righe sotto, in Lc 4,16-21 (come adempimento di Is 61,1-2) e ulteriormente ribadito in Lc 7,22 (attraverso un florilegio di citazioni isaiane) di fronte ai discepoli del Battista.
 
Vivere di fiducia
Nel momento decisivo della croce Gesù si guarda bene dal “salvare sé stesso” (Lc 23,35.37.39) o dal forzare il Padre a farlo (Lc 22,42). A Gesù basta vivere della fiducia nel Padre: questo è il solo pane di cui non si può davvero fare a meno (cfr. Gv 4,34). E se è vero che egli è destinato all’investitura regale, si tratta però di un regalità intesa come servizio (Lc 22,24-26), che Gesù otterrà solo percorrendo la sua lunga strada verso Gerusalemme (Lc 9,51-53; 13,33) e al ritorno da “un paese lontano” (Lc 19,12). Un regno che in ogni caso è il Padre a preparare (Lc 22,29; cfr. 10,22) e che Gesù si limita a ricevere con la stessa obbedienza e dedizione filiale con cui accetta di bere il calice della passione (Lc 22,42). Egli vive tutta la sua vita e la sua stessa persona come dono ricevuto dal Padre, in un continuo rendimento di grazie con cui - similmente all’israelita di Dt 26,10 - presenta e offre sé stesso al Padre (Eb 7,27; 9,14), e con sé anche tutti coloro che il Padre gli ha dato (Gv 17), quali frutti del suo “chicco di grano” (Gv 12,24).

Israele perfetto e nuovo Adamo
A differenza del Figlio di Dio/Israele (Es 4,22; Os 11,1), dunque, Gesù esce dalla prova nel deserto confermato nella sua identità di Figlio obbediente e docile al Padre, che non ha bisogno di correzione alcuna (cfr. Dt 8,5: “Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te”).
Ma in tal modo egli si rivela essere non soltanto il Figlio di Dio/Israele perfetto, ma anche il Figlio di Dio/Adamo perfetto: ecco allora il senso (o un possibile senso) dell’inusuale conclusione della genealogia con “Adamo, figlio di Dio” (Lc 3,38; non vi sono altri esempi di genealogie che includano Dio) che precede immediatamente il racconto delle tentazioni. Gesù prende posto in Israele come parte di una famiglia umana creata in Adamo in una relazione di figliolanza con Dio. A causa della disobbedienza di Adamo, tale figliolanza era stata guastata per tutte le generazioni a venire. Il nuovo Adamo Gesù, nella sua obbedienza filiale, l’ha ripristinata.
 
Un modello per noi, un volto possibile di uomo nuovo Focalizzare l’attenzione sul fatto che il brano delle tentazioni riguarda il Figlio di Dio in quanto nuovo Adamo, e quindi primizia di un’umanità rinnovata, ci aiuta a non appiattire il testo sulla dimensione astrattamente dottrinale e ad apprezzarne lo spessore in quanto exemplum e modello per il nostro discepolato (specialmente in questo tempo di Quaresima); un aspetto suggerito già dal modo particolare in cui Luca introduce Gesù, presentandolo come “pieno di Spirito Santo” (Lc 4,1), frase che non ricorre altrove nel vangelo, ma che ritorna varie volte negli Atti per caratterizzare discepoli e apostoli (cfr. At 6,3: i Sette; 6,5; 7,55: Stefano; 11,24: Barnaba).
 
Una parola possibile
E a questo punto entra in gioco la riflessione di Paolo. Sullo sfondo sta l’interrogativo sulla praticabilità dell’annuncio cristiano. La parola di Dio è troppo in alto per noi? É realmente possibile osservarla e vivere di essa, o si tratta di un traguardo irraggiungibile? La sua risposta è chiara: “Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore” (Rm 10,8 e Dt 30,11-14). All’inizio della Quaresima veniamo confortati sull’effettiva possibilità di vivere secondo Dio.
 
Di più: una parola traboccante
Dal momento che nel brano delle tentazioni Gesù replica al diavolo precisamente attingendo a passi del Deuteronomio, è lecito pensare che egli possa aver trovato la forza per resistere proprio meditando le parole della Legge donata a Israele attraverso Mosè. La parola di Dio non chiede l’impossibile, perché è una parola vicinissima all’uomo (cfr. Mc 1,14-15), una parola intima, che abita nel suo stesso cuore e che da lì spinge per sgorgare dalla bocca e traboccare nella vita. Paolo traspone tutto questo in una prospettiva cristologica: quella giustizia “del cuore” a cui tendeva la Legge, e che Dio ora ha reso accessibile a tutti i popoli (Rm 10,11-12) mediante la fede nella risurrezione di Cristo e la confessione della sua signoria (Rm 10,9-10), è qualcosa che rientra realmente nell’ambito delle nostre possibilità, e questo tanto più in quanto ci è stato dato lo Spirito di Cristo che geme nel nostro intimo (Rm 8,23-27), lo Spirito che ci ha trasformati in figli adottivi che gridano ‘Abbà!’ insieme al fratello Gesù (Rm 8,14-15).

Permanere nella fiducia
Nel racconto lucano delle tentazioni, l’ultima, la più insidiosa, riguarda il “tentare Dio”. Si tratta di una prospettiva diversa da quella di Matteo, per il quale invece la tentazione finale è quella del potere. Seguendo la proposta di Luca, possiamo intuire che il “tentare Dio” riguarda proprio coloro che hanno compiuto il percorso che porta alla piena coscienza di essere figli di Dio, che hanno cominciato a sperimentare nel loro cuore e nella loro vita la potenza della fiducia in lui, lasciandosi guidare dalla sua parola. Proprio nel progredire della fede può sopraggiungere un eccesso di confidenza, per cui Dio dovrebbe esaudire i nostri desideri, liberarci da ogni pericolo, in una parola impedire la croce. Anche la grande predicazione giubilare sulla misericordia rischia di indurre una falsa sicurezza, una specie di leggerezza nei confronti del peccato e delle scelte della vita, fondata sulla presunzione indifferente che tutto potrà essere perdonato, e che non c’è fretta di convertirsi. Si tratta di una tentazione estremamente pericolosa, perché si riveste delle promesse divine e ha tutta l’apparenza della fede. Ma non è in questo senso che Gesù è Figlio di Dio, e ci invita a seguirlo.

La via è aperta
Cristo ha già percorso e aperto per noi la via che porta giù nell’abisso della nostra perdizione (Rm 10,7) e poi su su nelle altezze dell’esaltazione a cui siamo chiamati (Rm 10,6) e dove ci attende (Gv 14,2). Ed egli non è assente, ma vive in noi nello Spirito Santo che ci inabita. La parola della fede quindi è veramente vicina, alla nostra portata: è già nel nostro cuore e sulle nostre labbra pronta per essere confessata e tradursi in pratica. Lo era già per Gesù nel silenzio di Dio nel deserto di Giudea. Lo è anche per noi oggi, in tutti i nostri deserti, anche quando siamo chiamati a confrontarci ciascuno con la propria croce di ogni giorno (Lc 9,23). Possiamo quindi iniziare con fiducia il tempo prezioso della Quaresima, certi che il Signore saprà rendere salda la fragile opera delle nostre mani (Sal 91/90,17).
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 11-FEB-16
 

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