Sussidio Pasqua 2015 - Ufficio liturgico nazionale
26 aprile
IV domenica di Pasqua

Colletta
Dio onnipotente e misericordioso, guidaci al possesso della gioia eterna, perché l’umile gregge dei tuoi fedeli giunga con sicurezza accanto a te, dove lo ha preceduto Cristo, suo pastore. Egli è Dio...

Liturgia della Parola
Prima lettura At 4,8-12: In nessun altro c’è salvezza.
Salmo 117: La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Seconda lettura 1Gv 3,1-2: Vedremo Dio così come egli è.
Canto al Vangelo (Gv 10,14): Io sono il buon pastore, dice il Signore; conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.
Vangelo Gv 10,11-18: Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.

 
Spunti brevi
La comunità nuova è comunità che guarisce. Non dobbiamo intendere questo solo in senso miracolistico: nel nome di Gesù impariamo infatti a prenderci cura gli uni degli altri, partendo da chi si ritrova nel bisogno, senza porre confini alla nostra carità, che può espandersi ad abbracciare di ogni nazione, di ogni credenza religiosa, di ogni appartenenza ideologica. Non siamo noi che operiamo la salvezza: il nome di Gesù restituisce piena dignità ad ogni persona che si affida a lui, genera nuove possibilità di vita. Non siamo più soggetti alle logiche mercenarie, che ingabbiano la persona nei meccanismi economici, ma ci possiamo aprire a relazioni nuove, gratuite, fraterne.
 
La manifestazione esterna: comunità che guarisce
Il discorso di Pietro nella prima lettura prende le mosse dalla guarigione di un uomo infermo. Non si tratta di un espediente tattico, di un’astuta trovata pubblicitaria. Coloro che seguono il Cristo, Crocifisso e Risorto, si mettono spontaneamente dalla parte dei crocifissi della terra, per confortarli, beneficarli, se è possibile, o anche solo per stare al loro fianco, anche quando non si è in grado di ottenere risultati immediati. Si è abilitati ad annunciare il vangelo del Risorto solo quando si compiono le sue stesse azioni. Si tratta essenzialmente di appassionarsi e di prendersi cura delle persone, con limpidezza e gratuità, partendo dai più poveri, partendo da chi non ha tutele, perché ci sia la possibilità di rialzarsi e riabilitarsi.
Seguendo Cristo, buon pastore che conosce una per una le sue pecore, che le guida con la sua voce, anche noi ci prendiamo cura, sia dei fratelli di fede, sia di chi si trova nel bisogno. Il più delle volte ci si ritrova davanti a problemi che appaiono sproporzionati alle proprie energie umane: ma là dove c’è il coraggio di prendersi cura degli altri, nel nome di Cristo, si sperimenta sempre la sorpresa del riscatto, della guarigione, dell’umanità che si rialza da dove era caduta.
 
La ragione profonda: il nome di Gesù, buon pastore
Capita dunque a noi ciò che i discepoli videro nella moltiplicazione dei pani: il poco donato, moltiplicato dalla benedizione di Gesù, basta per una folla enorme. Là dove sembrava impossibile arrivare con la sola forza del denaro, si accende la bellezza del dono di Dio. Non è in effetti opera puramente umana: Gesù, il buon pastore, è all’azione, sia nei confini della sua Chiesa, sia al di fuori di essa. Gesù continua a donare la vita per il gregge. Continua a verificarsi ciò che è accaduto nella sua Passione: là dove sembrava esserci solo sconfitta e morte, può rinascere una vita nuova; là dove c’erano uomini e donne dispersi, deprivati nella loro dignità, riemerge una comunità nuova, non necessariamente ricca di mezzi umani, ma del tesoro della grazia di Dio e di ciò che il suo Spirito suscita in loro.
 
Il nodo da sciogliere: uscire dalle relazioni mercenarie
Nel vangelo, per contrasto alla figura del pastore, appare la figura del salariato, del “mercenario”. Si tratta di colui che si prende cura del gregge solo per percepire il compenso. Di per sé non sarebbe una figura negativa. Chi lavora, merita il suo compenso. In circostanze normali, non si percepisce la differenza tra il salariato e il pastore. Ma nell’emergenza, all’apparire del lupo, la figura del mercenario rivela tutto il suo limite: egli non è disposto a perdere la vita per il gregge.
La parabola del mercenario e del lupo è di estrema attualità in un mondo in cui il fatto economico si sta espandendo in tutti i settori della vita. Sembra che tutto possa essere pagato, contabilizzato, controllato matematicamente e finanziariamente, in maniera pratica ed efficiente. In circostanze normali, tutto funziona. Ma nel momento della crisi, tutto salta. Una società non può fondarsi sull’economia; l’economia ha bisogno di trovare il suo posto delimitato in una società fondata su valori solidi. Altrimenti rischia l’autodistruzione. I discepoli di Cristo offrono il loro contributo al mondo globalizzato, tentato di affidarsi unicamente alle logiche economiche, nel momento in cui coltivano relazioni gratuite, che restano non misurabili, che non fuggono di fronte alle emergenze.
 
La gioia da vivere: trovare pascolo, essere saziati
“Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo”. Al di fuori di ogni logica economica, Gesù dona interamente la vita, ed essa gli viene interamente restituita. Coloro che credono in lui hanno la stessa possibilità: perdere la vita per ritrovarla. Qui sta la nostra gioia. Una gioia che nessuno può togliere. La pietra “scartata dai costruttori” diventa “pietra d’angolo”: non è solo la storia di Gesù. Diventa l’esperienza di ciascuno di noi, quando doniamo la vita come lui.
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 20-MAR-15
 

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