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"Testimoni digitali": la sfida continua


«Senza timori vogliamo prendere il largo nel mare digitale, affron­tando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni go­verna la barca della Chiesa». Con questa con­segna, esattamente due anni fa, i parteci­panti al convegno nazionale «Testimoni di­gitali » lasciarono l’Aula Paolo VI in Vaticano dopo aver ascoltato le parole con le quali Benedetto XVI aveva appena ricordato co­me «più che per le risorse tecniche, pur ne­cessarie, vogliamo qualificarci abitando anche questo universo con un cuore credente, che contribuisca a da­re un’anima all’inin­terrotto flusso comu­nicativo della rete». I due anni trascorsi han­no visto un lavorìo dif­fuso – tra Cei, diocesi, parrocchie, animatori – per far camminare quelle indicazioni del Papa. Con monsignor Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio na­zionale per le comunicazioni sociali e tra i protagonisti di «Testimoni digitali», è tem­po di lanciare uno sguardo di sintesi su quel che è stato fatto, e su ciò cui occorre ancora porre mano. «È stato proprio lo scarto tra consapevolezza e prassi lo scopo di ‘Testi­moni digitali‘. Se infatti la consapevolezza del ruolo strategico del sistema dei media si è accresciuta – spiega Pompili –, la prassi di tante realtà ecclesiali è rimasta la stessa. Nel frattempo però il cambiamento sotto la pres­sione del web si è fatto così veloce e globa­le che non era più possibile far finta di nien­te. Perfino i bambini sono inseparabili dal cellulare e navigano con disinvoltura. Biso­gnava fare i conti con questa novità che fi­no a dieci anni fa non era così pervasiva».

Il Papa parlò di ‘volti‘ da riscoprire, uno spunto che si sta confermando di estrema pertinenza rispetto all’evoluzione dei media. Se questo è certamente vero per la comunicazione ‘sociale‘, nel­la comunità ecclesiale si sono visti frutti di quella indicazione di Benedetto XVI?

Dicono che Benedetto XVI scri­va i suoi testi a matita. Al con­tempo il suo magistero intorno ai nuovi linguaggi si è fatto ri­corrente ed esigente, spingen­dosi fino ad interpretare la Re­te come una sorta di cortile dei gentili dove «fare spazio anche a coloro per i quali Dio è anco­ra uno sconosciuto». Il Papa insomma ha ben chiara la svolta dei social network quan­do ricorda che «il compito di ogni credente che opera nei media è quello di spianare la strada a nuovi incontri, offrendo agli uomi­ni che vivono questo tempo digitale i segni necessari per riconoscere il Signore». Sotto l’impulso del suo pensiero è cresciuta in tan­ti la convinzione di «abitare» questo spazio virtuale, non in contrapposizione a quello reale, ma a integrazione e a espansione del­lo stesso. Specie oggi che il territorio geo­grafico si è andato dissolvendo e bisogna ri­trovare la strada per ritessere rapporti e ri­costruire reti di relazione.

Dopo il convegno nazionale, lei ha incon­trato gli uffici diocesani delle comunica­zioni
in tutta Italia. Cos’ha verificato in que­sto lungo viaggio?
C’è un discreto fermento in giro, nonostan­te la crisi economica abbia raffreddato qual­che entusiasmo. Anche sabato 21 aprile a Sa­vona incontrando la redazione del Letimbro che festeggia i 120 anni ho toccato con ma­no che la Chiesa può abitare la Rete proprio perché è radicata fortemente in un territo­rio e riesce a smaterializzarsi proprio in virtù della forza dei suoi legami quotidiani. E le e­sperienze – ripensando al giro fatto per l’I­talia insieme con don Ivan Maffeis – sono davvero differenti. Si va dalla parrocchia di Mistretta in Sicilia che gestisce un piccolo network parrocchiale ( Tv, radio e giornale) a situazioni diocesane come quelle di Bre­scia o di Rimini dove siamo di fronte a del­le «case della comunicazione» con una strut­tura ben coordinata tra i diversi media ( TV, radio, giornale, web).

Quali segni più promettenti scorge nelle e­sperienze di ‘base‘? E quali sono i limiti e i ritardi più ostinati?

I segni più promettenti sono l’investimen­to sulle persone. Se si scommette sulla for­mazione degli animatori della comunica­zione e della cultura ritenendoli necessari non meno che i catechisti o gli operatori del­la Caritas si è sulla strada di un reale cam­biamento. Naturalmente non basta che gli animatori siano attrezzati se poi le comu­nità non li accolgono, cioè non li valorizza­no, mettendoli in condizione di poter con­tribuire a far crescere il livello e la qualità della comunicazione dentro e fuori la Chie­sa.

Tecnologie, soluzioni e servizi continuano a evolversi, a crescente velocità. Come può la Chiesa, che ha un passo differente, se­guire questa evoluzione così rapida? A qua­li sfide deve attrezzarsi a rispondere?

Non mi pare che la Chiesa abbia un passo differente rispetto alla velocità delle nuove tecnologie. Rispetto ad altri mondi cultura­li semmai la Chiesa ha mostrato una spic­cata sensibilità. Forse proprio la sua espe­rienza plurisecolare l’ha resa duttile e ver­satile, consapevole che il linguaggio non è un mezzo ma l’ambiente nel quale vivere. Quello che, non a caso, i vescovi italiani han­no definito nei loro Orientamenti decenna­li un «nuovo contesto esistenziale».

 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 23-APR-12
 

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