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"Luoghi di parola" cercansi


Mi è accaduto di sentirmi nominare come «nuovo Rodari» o «erede di Ro­dari ». Ancora oggi accade, ma so­lo da parte di osservatori superfi­ciali: chi ha sguardo attento ha da tempo riconosciuto le diffe­renze, anche profonde, tra Roda­ri e me. Assimilando campi di­versi del piano formativo e politi­co, Rodari sta accanto a figure come don Milani, Munari, Lodi, Dolci, ai promotori di democra­zia espressiva. Tutti quelli che si occupano di educazione e valori democratici hanno debiti essen­ziali con lui. Per inquietudine, o una specie di bulimia espressiva, ho scritto molto, costruendo un’impalcatura di scritture so­vrabbondante e quasi caotica. In prosa e, soprattutto, in poesia, la mia scelta non è, come in Rodari, «didattica» o «animativa», ma e­stetica e formale. Quello che la prosa, e soprattutto la poesia di Rodari, stimolano e sviluppano come «testo-gioco», «testo-sti­molo », io l’affido alla dinamica e­stetico/ emozionale dei testi. Il «fattore di sviluppo», come era chiamato dai pedagogisti di un tempo, il gioco creativo linguisti­co, che in lui è mostrato e giocato come tale, in me è interno al te­sto, dato come esperienza godi­bile e stimolante nella lettura.

L’atto educativo in Rodari è di­dattico, in me estetico. Lui agisce con la combinatoria contenuti­stico- formale, io con la comples­sità arricchente della scrittura/lettura. Può essere utile, per chiarire, ricordare un episo­dio. Negli anni 80 ci fu un grande sviluppo dei libri-game, che pro­ponevano percorsi narrativi al­ternativi a seconda di certe scelte distribuite nel testo. Erano libri che imitavano la dinamica dei vi­deogame: Rodari li aveva in realtà precorsi da anni, con le sue storie a diversi finali. Un editore mi propose di scrivere u­no o più di quei libri. Ri­fiutai istintivamente. Mi disturbava l’ipotesi di scrivere una storia con di­versi finali. Motivai il ri­fiuto dicendo che il mio stile era poco adatto alla «velocità» consumatoria di quel tipo di letture. Mi risposero che si poteva correre il rischio: al massimo, ci sarebbero stati dei libri-game un po’ più «letterari» degli altri. Dovetti così cercare una ragione migliore per il mio rifiuto, e lo feci articolando meglio la prima obiezione. Nel li­bri- game, fondamentale è la performance: la lettura corre o­rizzontalmente, curiosa e impa­ziente di quello che può accade­re, di ciò che si può fare sceglien­do una o l’altra arma, questo o quel potere. L’elemento di sor­presa, scoperta, emozione, è po­sto in un «orizzonte orizzontale». Parole, frasi, testo, sono veicoli per correre al finale, possibil­mente vittorioso.

Non era quella la lettura che volevo e che conside­ravo valida. La sorpresa, la scoperta e l’emozione che m’interessa proporre, sono quel­le della lettura che sprofonda «in verticale» nel testo, nello spesso­re semantico, attratta da bellez­za, ritmo, novità, intensità. La «li­bertà » della lettura non è sceglie­re fra finali diversi, ma immagi­nare, secondo la propria «cultu­ra » immaginaria. È la «libertà propria» della lettura che crea le immagini, fa germogliare la pa­rola- seme nel terreno della me­moria, costruendo un mondo sensoriale/emotivo, totale, unico e libero. Quella mia obiezione valeva evidentemente anche ri­guardo i racconti dai molti finali di Rodari: non certo in quanto attività didatticamente possibile, e divertente, ma come cosa inte­ressante, o opportuna, per l’au­tore. Se Rodari, negli anni 60 e 70, è stato, come il maestro Man­zi, o, oggettivamente, le stesse ra­dio e televisione, fra i diffusori di una lingua italiana unitaria in contesto ancora quasi-dialettale, nella quarantina d’anni trascorsi la situazione è cambiata, e pur­troppo non in meglio. Il calore e colore dei dialetti, la loro espres­sività, non è stata sostituita da u­na ricchezza analoga della lingua comune: alcuni agenti in primo tempo positivi (la televisione so­prattutto) hanno anzi appiattito e impoverito il vissuto verbale in­dividuale e collettivo, insieme al­la scomparsa delle occasioni ora­li- corali di elaborazione e riso­nanza della parola. Senza adden­trarci nella sociologia linguistica, è venuta meno negli ultimi de­cenni una «competenza espressi­va » media del linguaggio, la sua ricchezza qualitativa, la sua fa­coltà espressiva «di base». Trala­sciando i modelli peggiori e più distruttivi (parole «da stadio» o loquela da suburra esistenziale del «Grande Fratello»), anche i luoghi «di parola» più qualificati, più adatti a produrre e stimolare espressione e comunicazione personale, sembrano inefficaci.

Corruptio optimi maxima:
il lin­guaggio liturgico, che dovrebbe essere un culmine d’intensità-in­timità espressiva, nelle sue reda­zioni teologiche e pastorali, o è vuoto e stanco (la predicazione media) o una mistura astrusa di filosofemi e formule tardo-esi­stenzialiste: niente che suoni au­tentico e ricco di senso, sia per il «canto» collettivo che per la pre­ghiera. Scomparsi, e non sosti­tuiti, i luoghi-situazioni in cui si prolungavano e confermavano il calore e la pratica del linguaggio affettivo primario, quello che le­ga corpo/voce/parola di mamma e bambino, del piccolo o medio gruppo di gioco, della recitazio­ne/ celebrazione orale-corale, più o meno festosa, di vissuti e avvenimenti. Scomparsa, o sosti­tuita dall’alienazione del ka­raoke, ogni occasione individua­le o collettiva di «canto». Discor­so a parte vorrebbe, e articolato, per quanto riguarda la verbalità espressiva, il ruolo perduto, e perdente, della «parola d’arte», delegata agli specialisti, autori o attori, ai «pubblicatori», agli «e­sperti d’espressione». Commento ancor più severo meriterebbe la poesia (intesa come ambito let­terario) nonostante i pochi sforzi di qualcuno relegata in ghetti au­toreferenziali, estranei, nel biri­gnao depressivo di convegni e letture esclusive, sostanzialmen­te (e conflittualmente) legata alla dimensione editoriale, dedita al­le misteriose produttività della lettura silenziosa, «dal bianco della pagina al bianco della men­te ». S favorita, in questo, rispetto alla cultura anglosassone, dalla maggior distanza tra ambito d’arte e comunicazione, tra capacità poetica e «oralità» dei poeti, la poesia «istituziona­le » nostrana, spesso compiaciuta della sua «estraneità», ha abban­donato l’uso del «linguaggio gio­cato » (rima, verso, fonosimboli­smo, metafora, ritmo, arguzia fi­gurale...) alla pornografia della pubblicità. La pubblicità è in ef­fetti la forma linguistica del «poetico» oggi più diffusa, assai più di quella, poco meno degra­data, della canzonetta. Questa fe­nomenologia, certo frettolosa e brutale, serve a descrivere un campo che, rispetto alla parola e­spressiva, è pressoché deserto.

Gli unici due luoghi possibili per l’istituzione e il rafforzamento della parola espressiva (a parte il dialogo fisico-fonetico-affettivo tra madre e bambino, e quello, pure già a sua volta impoverito, tra gli amanti nello scambio ero­tico) sono, sul piano individuale, la lettura (come esperienza inti­ma e ri-costituente del senso), e su quello sociale (nonostante la criminale trascuratezza di cui è oggetto nei nostri tempi politici) la scuola.
 
di Roberto Piumini

 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 16-MAR-12
 

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