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Tv locali:
a rischio 2600 posti di lavoro


Duemila e seicento persone che dall’oggi al domani potrebbero restare senza la­voro, «e parliamo solo dei giornalisti. Poi c’è tutto il resto». Franco Siddi è il segretario ge­nerale della Fnsi, la Federazione nazionale della Stampa italiana, e fa i conti con la concretezza che il suo ruolo gli impone: «Se davvero si verificas­se quella che voi di Avvenire avete molto bene chiamato la ‘tele-mattanza‘ delle televisioni lo­cali, questo sarebbe il risultato più immediato. E non certo l’unico».
 
Un fatto gravissimo, tra l’altro in tempo di crisi e di disoccupazione galoppante.
A causa delle nuove norme, la previsione è che su 580 emittenti locali ben 250 potrebbero esse­re messe a tacere. Il fatto è che ha prevalso la vo­lontà del governo di fare cassa mettendo all’asta alcune frequenze, per incassare 3 miliardi e 100 milioni di euro: un’operazione tecnocratica che guarda ben poco alle persone e alle imprese e fa­vorisce i soliti noti, ovvero l’ex duopolio, ormai divenuto tripolio, delle grandi emittenti a scapi­to di quelle minori. Mi si potrebbe chiedere per­ché noi, che siamo un sindacato, ci scaldiamo tanto per la sopravvivenza delle imprese: ri­spondo allora che il lavoro c’è solo se le imprese sono sane, è interesse di tutti. Dovrebbe esserlo anche del governo.
 
La Fnsi ha invitato il ministero dello Sviluppo e­conomico e l’Agcom, l’agenzia che controlla le telecomunicazioni, a un sussulto di responsa­bilità.
È un appello che ripeteremo all’infinito e che non può assolutamente restare inascoltato. Questa norma va cambiata, ministero e agenzia non pos­sono rimpallarsi la responsabilità. Il passaggio al digitale terrestre doveva essere una grande op­portunità per il pluralismo, invece stiamo assi­stendo a una vera selezione genetica che lascia sopravvivere solo i forti e strangola i deboli. Che poi sono deboli solo quanto a possibilità econo­miche e grandezza, perché in realtà rappresen­tano un immenso patrimonio sociale e cultura­le.
 
Se dovessero tacere, ad esempio, le tante emit­tenti comunitarie, o quelle che trasmettono in dialetto o addirittura nelle lingue locali, sareb­be una perdita incalcolabile.
Queste emittenti, le più vicine al cittadino, sono seguitissime, fanno parte ormai della vita co­munitaria. Spegnendole, spegneremmo una fet­ta di vita dei cittadini italiani. Non scordiamo che dal 1978 a oggi queste tivù, insieme ai fogli di informazione territoriale, scandiscono la vita quotidiana di città e paesi, conservano culture e identità, informano su ciò che accade accanto alla propria casa. Hanno maturato un sistema di comunicazione e informazione non solo plura­­lista, ma ricco di punti di vista. Sono l’unico an­tidoto agli esiti negativi prodotti dal tripolio te­levisivo nazionale.
 
Spieghiamo bene ancora una volta: che cosa ri­schia di strangolarle?
Il riordino era necessario, alcune frequenze cioè andavano liberate per dare spazio alla comuni­cazione civile, ovvero all’uso dei telefoni. Per que­sto si sono dovute riassegnare le frequenze se­condo un nuovo assetto, ma ciò è avvenuto au­mentando ulteriormente gli spazi dei ‘pesci grandi‘, Rai, Mediaset, Sky e Telecom, che non ne avevano bisogno, a scapito dei piccoli. I qua­li ora, per continuare a trasmettere, dovranno af­fittare tali spazi dai grandi colossi. Così i soliti no­ti potranno fare ulteriori budget sulle spalle di chi fa vera informazione. E le piccole emittenti ci rimettono triplamente: non solo hanno appe­na dovuto reggere i costi del passaggio al digita­le, ma ora da una parte dovranno pagare l’affit­to ai grandi per poter restare nell’etere, e dall’al­tra perderanno a loro volta i ricavi che prima a­vevano essendo a loro volta vettori di altre emit­tenti. È un vero collasso, e si badi bene che non è un tema da specialisti, questo, ma una politica che ha riflessi sulla vita concreta della gente nor­male.
 
Basti vedere, appunto, i posti di lavoro a rischio.
Queste emittenti vengono azzoppate proprio nel momento in cui facevano il massimo sforzo per creare progressivamente una realtà di relazioni ben organizzate, con contratti di lavoro che fino a qualche anno fa erano disparati, mentre ora a­vevano dato vita a una nuova generazione di ve­ri giornalisti, solidamente impiegati. La mattan­za è doppia, dunque, per imprese e lavoratori.
 
Ma, a parte Avvenire, qualcuno si è accorto di quanto sta accadendo?
I giornali locali sono attenti, perché vivono con­dizioni simili e spesso sono loro stessi gli edito­ri delle piccole televisioni. Invece temo che la grande stampa nazionale, a parte voi, in questo momento sia presa da altri temi che ‘bucano‘ di più nel dibattito politico, ovvero dalle chiacchiere. Evidentemente chi è portatore di un sistema di valori avverte di più i problemi veri. Eppure que­sto è un tema centralissimo, che va a toccare la qualità della vita pubblica, ma anche il sistema dell’informazione, oltre che del lavoro.
 
 
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Ultimo aggiornamento di questa pagina: 03-AGO-11
 

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