SNEC - Una chiesa al mese
I contesti
cantiere e contesto urbano (da Una chiesa 1991)
cantiere e contesto urbano (da Una chiesa 1991)

Il contesto urbano. Il quartiere di San Giuseppe si trova a sud-ovest del centro di Monza, compreso tra due importanti direttrici viarie tra Milano e la Brianza. La prima urbanizzazione dell‘area è precedente la II Guerra Mondiale, ma la nuova chiesa viene realizzata quarant‘anni dopo come punto di riferimento per una fase di rinnovata espansione edilizia, in un‘area priva di altri elementi identitari: la parrocchia stessa assume dunque la funzione di promuovere la qualificazione di spazi urbani nuovi. Attualmente il quartiere è caratterizzato da un‘edilizia molto eterogenea e frammentaria, che testimonia le stratificazioni storiche a partire dalla prima industrializzazione: il tessuto è rado, costituito da palazzine di pochi piani fuori terra, villini storici e alcuni grossi complessi edilizi.
Il contesto ecclesiale La parrocchia viene istituita in un momento di forte richiesta di nuove opere per la cura pastorale nei quartieri di espansione. Tale sforzo costruttivo trova il suo apogeo proprio nel periodo della prima sperimentazione successiva al Concilio Vaticano II, in cui le urgenze pastorali e sociali si associano all‘esigenza dell‘attuazione della riforma liturgica. L‘opera di infrastrutturazione religiosa delle vaste aree di recente urbanizzazione è occasione di ricerca tipologica, anche attraverso sperimentazioni sul tema della prefabbricazione e della standardizzazione (Brivio 1994). Convivono due atteggiamenti estremi: da un lato il tentativo di avvicinare la Chiesa alla popolazione con scelte legate ai temi della povertà evangelica, condividendo in modo positivo le teologie della secolarizzazione; dall‘altro, non mancano architetture di ambizioni identitarie ed espressive. La chiamata a Milano di Dahinden alimenta un filone di studio innovativo (Crippa 1994) e sensibile ai temi liturgici, pur senza rinunciare a un inserimento significativo nel paesaggio urbano; nelle parole del parroco-committente, l‘aggiornamento funzionale doveva declinarsi con le «idee che si facevano incontro circa la non monumentalità, il non trionfalismo, l‘essere casa di Dio tra le case degli uomini, senza però confondersi o mimetizzarsi» (Arosio 1991, p. 16).
Il contesto progettuale. Justus Dahinden condivide, nei primi anni Settanta, la ricerca progettuale promossa nell‘Europa centrale da Walter Fördorer e da Gottfried Böhm, ossia il tentativo di fare una sintesi tra la liturgia rinnovata, l‘ecclesiologia di comunione e la monumentalità espressiva della cultura architettonica mitteleuropea. Elementi comuni sono il tentativo di "plasmare" uno spazio liturgico al tempo stesso unitario e articolato sui suoi poli fondativi, con superfici inclinate, geometrie asimmetriche, spazi quasi scultorei modellati attorno ad arredi liturgici imponenti, che con la loro presenza catalizzano l‘attenzione dell‘assemblea celebrante. Nella definizione di padre Fréderic Debuyst (2000), tale atteggiamento "lirico" in Dahinden evolve verso una dimensione domestica. Resta tuttavia presente nel pensiero del progettista l‘intuizione che la «sculptural totality» sia uno degli strumenti per ospitare la comunità radunata come una famiglia nell‘azione liturgica, attorno alle tavole della Parola e del banchetto eucaristico (Dahinden 1967, p. 26). L‘articolazione complessa della chiesa, al tempo stesso "luogo" e "percorso", deve rispondere a una visione dinamica della liturgia, fondata sull‘ascolto, sulla comunione e sul raccoglimento (Dahinden 1973, p. 77).
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 07-SET-11
 

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