In attesa che i volenterosi gnomi della genetica ci provvedano di cloni da inviare qua e là alloccorrenza come nostri ambasciatori plenipotenziari (e magari, grazie ai cloni dei cloni, ci illudano di unasintotica immortalità), gli informatici ci hanno regalato l«avatar», nostro simulacro digitale che, introdotto nellinfospazio di Internet, si muove e parla come un essere umano, seguendo i dettami e imitando lo stile del titolare. Avatar è parola sanscrita, che significa «disceso», e nella religione induista designa lincarnazione di un dio (di solito Vishnu) in un corpo umano o animale al fine, per esempio, di opporsi alle forze demoniache e al declino della giustizia: gli avatar sono intermediari tra lessere supremo e i mortali. Di recente il termine è divenuto popolare grazie allomonimo film di James Cameron, in cui lavatar è un corpo sintetico, prodotto da una manipolazione che mescola il patrimonio genetico di un uomo con quello del popolo alieno dei Navi. Nel suo avatar luomo può «discendere», cioè incarnarsi, quando il suo corpo originale è preda di un coma profondo: è un trapianto non di corpo, bensì di mente, o di spirito. Tornando dal fantastico cinematografico al reale, o meglio al virtuale, è ormai dalla fine degli anni Ottanta che gli avatar si aggirano in Internet e il loro uso è sempre più comune nei videogiochi, nelle chat, in «Second Life» e così via. Ma il cammino verso la perfezione di questi speciosi alter-ego è ancora lungo: il difetto più cospicuo è la loro goffaggine, la rozzezza del linguaggio corporeo, che negli umani è invece raffinatissimo e accompagna sempre leloquio, tanto che, per un bravo osservatore, gestualità, postura, espressione del volto, tono della voce e così via sono spesso più significativi delle parole. Gli avatar, insomma, sono ancora maldestri pupazzi che tentano unimpacciata imitazione degli uomini, un po come accade per i robot, che ne sono, in un certo senso, la controparte materiale. È dal confronto tra noi e i robot o gli avatar, tra le nostre e le loro capacità che ci rendiamo meglio conto, per somiglianza e differenza, di quello che noi siamo e di ciò che riusciamo a fare. Ora Sergey Levine e Vladen Koltun delluniversità di Stanford in California, sono ricorsi a tecniche cinematografiche per tradurre in immagini digitali i movimenti compiuti da un attore mentre parla, creando un software che associa il linguaggio del corpo alle parole, o meglio alla prosodia: intonazione, ritmo, durata, accento, tono, lunghezza delle sillabe (non si tratta dunque del significato delle parole). Le immagini sono usate per addestrare lavatar, insegnandogli ad associare la prosodia dellattore con la velocità, lampiezza e la direzione dei suoi gesti. Lintento è quello di rendere più naturale la gestualità dellavatar, ma cè da chiedersi se, sfruttando la gestualità esperta ma forsanche stereotipata di un attore, non si corra il rischio di allontanarsi dal linguaggio corporeo medio delle persone ordinarie non più per difetto ma per eccesso.