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Malattia mentale: le parole per dirla


«Impazzire si può, perché guarire si può», si sostiene al forum sulla sofferenza mentale in corso a Trieste. Ma basta­no poche parole usate male per far ri­piombare pazienti e familiari nella disperazione. È proprio necessario, ad esempio, scrivere o parlare di “donna depressa”, di “schizofrenico”, di “psicopatico”, di ‘malati di men­te‘, di “matti“ e finanche di “mostri”? Perché, invece, non essere più sobri nella scrittura e nel linguaggio, par­lando di “donna che soffre di depres­sione”, di “uomo affetto da schizofre­nia”, di persona con “disturbi psico­logici” o “psichiatrici”? Ecco l’obiet­tivo della “Carta di Trieste”, varata ie­ri, al fine di «educare» gli operatori dell’informazione a non usare a spro­posito o abusare di termini specifici di patologie mentali. Come spesso accade con l’aggettivo “schizofreni­co”, riferito perfino a comportamen­ti politici e sociali. Quando si sa che chi ha parenti in condizione di disa­gio psichico sobbalza al solo sentire un politico pronunciare quella paro­la. La ‘Carta‘, sul modello di quella di Treviso per i minori, arriva a trent’an­ni dal varo della legge 180 del triesti­no Franco Basaglia e porta la firma dell’Ordine dei giornalisti e della Fe­derazione della stampa, che hanno accolto l’invito dell’Oms a sostenere la lotta ai pregiudizi. Ed ecco la pri­ma raccomandazione del protocollo (che verrà ulteriormente perfeziona­to): «Usare termini appropriati, non lesivi della dignità umana, o stigma­tizzanti, o pregiudizievoli, per defi­nire sia il cittadino con disturbo men­tale qualora oggetto di cronaca, sia il disturbo di cui è affetto, sia il com­portamento che gli si attribuisce, on­de non alimentare il già forte carico di tensione e preoccupazione che il disturbo mentale comporta, o in­durre forme di identificazione, sen­timenti o reazioni che potrebbero ri­sultare destabilizzanti o dannosi per la persona, i suoi familiari e la co­munità nell’insieme». E ancora: «Usare termini giuridici pertinenti, non approssimativi o al­lusivi a luoghi comuni di sorta nel ca­so il cittadino con disturbo mentale si fosse reso autore di un reato di qualsivoglia entità, tenendo presen­te che è un cittadino come gli altri, uguale di fronte alla legge». Ma anche «non interpretare il fatto in un’ottica pietistica, decolpevolizzando il citta­dino per il solo motivo che soffre di un disturbo mentale né, al contrario, attribuire le cause e/o l’eventuale ef­feratezza del reato al disturbo men­tale ». E, in ogni caso, è meglio «con­siderare sempre che il cittadino con disturbo mentale è un potenziale in­terlocutore in grado di esprimersi e raccontarsi, tenendo presente che può non conoscere le dinamiche me­diatiche e non essere quindi in gra­do di valutare tutte le conseguenze e gli eventuali rischi dell’esposizione attraverso i media». La ‘Carta‘, inoltre, mentre invita a «promuovere la diffusione di storie di guarigione e/o di esempi di espe­rienze positive improntate alla spe­ranza e alla possibilità di guarigione», sollecita una particolare attenzione quando si tratta di raccontare un sui­cidio. «Benché in oltre il 75% dei ca­si il suicidio non sia connesso al di­sturbo mentale, è luogo comune molto frequente associare a que­st’ultimo le sue cause. In questo mo­do non solo si fornisce un’informa­zione non corretta, ma si rischia di indurre comportamenti emulativi nelle persone più fragili».


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 24-GIU-10
 

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