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 Home GMCS2016 - Per agire - “Il negro artificiale” 
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“Il negro artificiale”   versione testuale

La scrittrice statunitense Flannery O’Connor (1925-1964) era spesso contestata dai suoi lettori. Se davvero è credente, le dicevano, come mai racconta storie tanto cupe? Come mai i personaggi dei suoi libri sono persone tanto poco raccomandabili? Lei non si scomponeva e rispondeva che il compito di ogni scrittore, e dello scrittore cristiano in particolare, è di spingersi “nel territorio del diavolo”: solo scendendo nell’abisso, dove l’umanità mostra il volto più terribile e oscuro, si può sperare di riconoscere la luce, per quanto fievole, della grazia divina. Un ragionamento che vale per romanzi come La saggezza nel sangue (1952) e Il cielo è dei violenti (1960), nei quali, oltretutto, le nevrosi e le ossessioni religiose giocano un ruolo determinante. Ma è nei racconti, tutti bellissimi e insieme strazianti, che Flannery O’Connor persegue in maniera straordinariamente lucida il suo programma letterario. Cattolica convinta a dispetto del contesto protestante in cui era nata e cresciuta (il Sud degli Stati Uniti, la cosiddetta Bible Belt, la “cintura della Bibbia” percorsa dai predicatori più estremisti e bizzarri), di solito la scrittrice preferisce che sia il lettore a intuire, se ne è capace, la dimensione spirituale della trama.
Fa eccezione, almeno in parte, un racconto come “Il negro artificiale”, pubblicato originariamente nel 1955 e incentrato sul tema della misericordia e del perdono. Il protagonista è un vecchio contadino, il signor Head, che sta crescendo in solitudine il nipotino, Nelson, abbandonato dalla madre poco dopo il parto. Non fosse che per questo, Head tiene in gran sospetto il mondo al di fuori della sua fattoria, è razzista come ci si aspetta da un uomo della sua condizione e non sopporta l’idea di vivere in città. Per far passare la voglia anche a Nelson ha organizzato una gita nel capoluogo più vicino, Atlanta, ma la spedizione si trasforma presto in un disastro. Appena usciti dalla stazione nonno e nipote si smarriscono, camminano per ore con il solo risultato di allontanarsi sempre più dal centro, sono stanchi e affamati. Head, non contento, fa a Nelson uno scherzo crudele, con l’unico risultato di spaventare il bambino, che nella sua fuga disperata travolge una passante. È il momento più drammatico: nel timore di dover risarcire i danni, il vecchio nega di conoscere il nipote, lo tradisce così come Pietro aveva tradito Cristo nel cortile di Caifa. I due continuano a vagare divisi da ostilità e amarezza, fino a quando l’apparizione grottesca del “negro artificiale” (una brutta statua che rappresenta la caricatura di un afroamericano) non strappa loro un sorriso.
Parte da qui il viaggio di ritorno, che porterà Head e Nelson nella loro piccola casa illuminata dalla luna. Solo in quel momento l’uomo sente di essere stato «perdonato di tutti i suoi peccati dal principio del tempo, quando aveva concepito nel suo cuore il peccato di Adamo, fino al presente, quando aveva rinnegato il povero Nelson», perché «Dio ama in misura di quanto perdona». Non diversamente l’uomo è destinato a riconoscere la misericordia di Dio in misura di quanto cerca di cerca di allontanarsene.
 
 
I racconti di Flannery O’Connor sono editi in Italia da Bompiani
 
Alessandro Zaccuri