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Quei fantasmi che non ci lasciano in pace   versione testuale
Articolo di Vincenzo La Monica - Migrantes Ragusa

(16 ottobre 2015) - I fantasmi esistono e si chiamano Cadavere M, CT 30, CT 31, Obada Taktak, Ignoto N.25, Helen Kebede. I fantasmi esistono e sono tali perché non riposano in pace e non lascerebbero in pace nemmeno i vivi, se non si stesse parlando dei fantasmi dei migranti morti sulle coste della Sicilia, pianti per un  giorno (e a volte nemmeno per quello) e poi dimenticati o, peggio, utilizzati nelle interminabili discussioni che portano alle mezze soluzioni di un intero continente.
Ma quale destino attende questi corpi entrati nell’ombra dopo aver attraversato traiettorie geografiche ed esistenziali diversissime? Che cosa avviene di questi naufragati giunti per morire a pochi chilometri, a volte metri, dalle nostre coste?
Se lo è chiesto il fotografo Max Hirzel in un commovente reportage costruito su un itinerario per i cimiteri di tutta la Sicilia sud orientale. Un viaggio che onora per tutti noi un debito e, forse, contemporaneamente, libera quegli spettri dalla maledizione di un percorso in cui l’ignoto si accumula disperatamente e senza fine su se stesso.
“Il significato di questo lavoro – dice Max Hirzel che vive e lavora a Biella – sta nel concetto di memoria. L’idea originale mi è venuta durante un viaggio in Mali in cui ho incontrato un giovane migrante che mi ha descritto la paura di terminare i suoi giorni nel deserto. Lo accompagnava il pensiero angosciante di una morte anonima, senza un luogo in cui i genitori potessero piangerlo. Questa suggestione è ritornata più volte in occasione delle notizie tragiche di sbarchi, fino a questa estate, quando si è concretizzata l’occasione di andare a capire dove fossero i corpi dei morti in mare. Ho cominciato a raccogliere informazioni e ho scoperto che si trovavano sparsi in moltissimi cimiteri della Sicilia, alcuni molto piccoli, anche lontani dalla costa e ho deciso che il mio sarebbe stato un reportage, ma anche un modo di restituire una dignità.”
Inevitabilmente il viaggio ha comportato incontri con oggetti, uomini e storie in una matassa di pietà e pauroso non senso difficile da sbrogliare: Hirzel  ha conosciuto addetti ai cimiteri, necrofori, funzionari della procura, semplici cittadini, gli stessi migranti ritratti da vivi nelle foto sui passaporti o nei selfie scattati durante il viaggio, prima di essere presi dall’abisso. C’è il funzionario della procura che ha perso intere nottate per restituire una identità ai morti di un solo naufragio, c’è il padre che ha regalato una lapide a un giovane gambiano sepolto accanto al figlio, c’è la barca che cola a picco sbilanciata dal movimento dei migranti accorsi a vedere un bambino appena nato, ci sono i tasbeeh (i rosari usati dai musulmani), le fotografie anonime, i bracciali, i cartellini identificativi.
“Mi interessava – prosegue il fotografo – anche tutta l’architettura che sta intorno a queste morti: i container al porto che accolgono i cadaveri, i fascicoli che riportano le loro caratteristiche fisiche, le cause della morte, gli oggetti ritrovati con il corpo, la data del naufragio e così via. Per la prima volta nella mia carriera mi sono reso conto che la didascalia dell’immagine è a volte più forte dell’immagine stessa. Quando dico che il senso ultimo di questo reportage è una sorta di pendolo fra la memoria e la documentazione penso certamente ai defunti, ma ancora di più ai vivi, per quando qualcuno ci chiederà conto di queste morti. Perché sono tutte morti evitabili e vanno avanti da almeno venti anni. È un tentativo di spaccare il fronte nel dibattito fra favorevoli o contrari alle migrazioni, perché di fronte alla morte non c’è discussione”.
(Vincenzo La Monica - Migrantes Ragusa)