(8 luglio 2014) - Nour, 30 anni, ha messo radici a Catania. Dal 2006 vive nel capoluogo etneo e rappresenta un punto di riferimento per la popolazione somala. Residente presso il dormitorio comunale “Il Faro” di via Acquicella Porto a due passi dal litorale balneare, dopo aver ottenuto lo status di rifugiato, è diventato una delle figure portanti nel processo di mediazione tra le varie associazioni che si occupano di integrazione e accoglienza per i migranti in arrivo. Interpellato all’occorrenza anche dalla Migrantes e dalla Caritas diocesana di Catania. Ci racconta la sua storia con grande fierezza, senza dimenticare le difficoltà dell’approdo e il dolore per aver lasciato una terra densa di violenza.
“In Somalia non puoi stare tranquillo per strada, non esagero in questo, ma la vita umana vale ben poco. Ho rischiato persino di finire in prigione per l’appartenenza ad un gruppo religioso (Nour per paura, non cita il nome ndr). Cosi ho deciso di partire”. Del resto, la situazione politica dello Stato africano balzato agli onori delle cronaca, 20 anni fa, per l’omicidio della giornalista italiana Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, non è migliorata nell’ultimo ventennio.
Il Paese è in mano a gruppi armati di matrice islamica e per le minoranze religiose non c’è spazio. Se non si scappa, si rischia la morte, o la pena capitale per essere accusati di apostasia. “Sono partito nel pieno di una guerra civile, in un paese in cui c'è sempre violenza, con la povertà che aumenta di giorno in giorno”. E poco importa se la via di fuga passa attraverso un lungo tragitto nel deserto, su mezzi obsoleti come camion e autobus da rottamare. Ogni sacrificio pur di arrivare in uno dei tanti approdi in Libia, è valido. “Grazie a Dio sono sopravvissuto, sono rimasto bloccato lì per cinque mesi, i libici ti derubano di tutto, dei tuoi beni, dei tuoi soldi. E spesso ti lasciano in carcere a marcire per mesi e mesi. E senza documenti, poi, non si è nessuno”. Poi, la svolta, grazie alle compiacenze delle organizzazioni criminali, che decidono come e quando partire. Lampedusa, la prima tappa, del viaggio della speranza, prima dell’arrivo in Sicilia: “Quando qualcuno decide che si può partire... allora comincia il viaggio”.
Chiare le sue parole, e che non hanno bisogno di molte spiegazioni. Specie alla luce della recente indagine della Procura di Palermo che ha sgominato una rete criminale attiva anche a Catania, formata da eritrei, etiopi e sudanesi, dedita all’organizzazione dei viaggi della speranza dal Nord Africa al Nord Europa. Nour, però, si è fermato a Catania. A distanza di otto anni, può ritenersi fortunato ad aver ottenuto in tempi brevi lo status di rifugiato. Ma in Somalia ha lasciato, però, un grosso pezzo di cuore: la famiglia. La moglie e i figli si augurano di riabbracciarlo presto. “Spero di ottenere il ricongiungimento con la mia famiglia, ci sentiamo una volta al mese, è triste non poter fare niente per loro. A Catania continuo a fare il muratore e quando posso metto qualcosa da parte per loro”. Questo uno degli aspetti che gli danno la forza e la speranza di continuare a credere in un sogno chiamato Italia. “Sono fortunato, sono riuscito a salvare la vita, mentre molti migranti continuano a morire, e questo mi riempie di tristezza e dolore. Penso solo che quando sarà l’ora del ricongiungimento tutto procederà per il meglio. Intanto mi metto a disposizione di quanti sono partiti con lo stesso mio obiettivo e si trovano in difficoltà”.
(Filippo Cannizzo - Migrantes Catania)