(2 luglio 2014) - Ancora una sconfitta. L’ennesima. Impossibile contare quante sono state e quanta ancora saranno le battaglie perse su un “terreno” che non c’è. Non c’è perché davanti agli occhi c’è solo una distesa d’acqua. Acqua che porta con sé morte. Morte che porta con sé dolore. Tra quei quarantacinque corpi schiacciati all’inverosimile, soffocati dall’indifferenza del mondo, prima ancora che dal monossido di carbonio respirato per chissà quanti interminabili minuti, anche dei bambini. Per quegli uomini di buona volontà con la tuta bianca che li hanno tirati fuori uno per uno, rompendo pezzo dopo pezzo i legni che hanno coperto il “ventre” dell’orrore, difficilmente la vita sarà la stessa di prima. E non dovrebbe esserlo neanche per chi quell’imbarcazione di colore azzurro, lunga poco più dim 30 metri, la vedrà solo sulle rassegne stampa dei giornali di questa mattina. Non dovrebbe, ma sarà così, perché superata l’onda di sdegno e dolore, non rimarrà che archiviare l’ennesima tragedia del Mediterraneo. Una delle tante.
Gli uomini della scientifica della polizia hanno avuto l’onere di svolgere le penose operazioni per estrarre i cadaveri in avanzato stato di decomposizione dalla stiva, trasformatasi in una sorta di camera a gas da cui fuoriuscivano miasmi micidiali. Circa sei operatori attrezzati con tuta protettiva e maschera antigas hanno utilizzato una motosega per praticare dei fori nella plancia dell’imbarcazione al fine di scongiurarne l’affondamento. Tuttavia il barcone ha subìto un cedimento strutturale che ha reso ancora più complicato estrarre i corpi, poi inseriti fino a quattro alla volta nei sacchi mortuari per essere trasportati in una maxi cella frigorifera ubicata in un’area dell’ex Provincia regionale di Ragusa nella zona industriale Asi Modica - Pozzallo. Il penoso stato dei corpi, ammassati l’uno sull’altro nella stiva adibita a ghiacciaia e che ha riportato alla mente le fosse comuni di Auschwitz, non ha consentito nemmeno la collocazione nelle bare. Le salme hanno comunque ricevuto la benedizione di un sacerdote mentre i vigili del fuoco hanno decontaminato il barcone. Gli altri 566 migranti giunti a bordo della nave «Grecale» della Marina militare, di cui 45 minori e 28 donne, stanno relativamente bene. Parecchie le autorità che hanno assistito alle operazioni tra cui il prefetto di Ragusa e il sindaco di Pozzallo che hanno parlato di una triste pagina per la comunità iblea. Il barcone carico di morte ha raggiunto il porto di Pozzallo ieri pomeriggio: agghiaccianti, nella loro essenziale verità, le testimonianze fornite con lacerante dolore da coloro che ce l’hanno fatto e che per diverse ore hanno attesa di essere individuati e salvati, inconsapevoli di avere sotto i loro piedi i cadaveri di trenta fratelli.
“Ci hanno costretti a salire anche se non c’era più posto – ha raccontato uno dei sopravvissuti – Abbiamo chiesto di scendere perché sapevamo che in quelle condizioni non ce l’avremmo fatta, ma ci hanno detto che adesso che eravamo lì non si poteva tornare più indietro”. Nessun arretramento di fronte ad un viaggio che potrebbe non conoscere una sola fine: quella terrena. Nessuna possibilità pentimento di fronte alla paura. Nessuna seconda chance: vivere o morire. C’è chi di questo, al momento della partenza, è ben conscio, e chi invece intraprende il primo e ultimo viaggio senza avere ancora la capacità anagrafica di intendere e di volere. Esattamente come i piccoli rimasti “imprigionati” dal veleno. “Trattati come bestie dai libici” che hanno compiuto “violenze inaudite nei confronti di tutti, ma in particolare degli uomini del Centro Africa”. Questa la ricostruzione concorde dei diversi testimoni ascoltati dalla squadra mobile, tra cui anche amici e lontani parenti delle vittime. “Abbiamo provato a salvarli appena ci siamo resi conto di quello che stava accadendo – ricorda uno di loro – abbiamo fatto di tutto ma purtroppo era tardi, sembrava dormissero, non pensavamo fossero morti...”.
Tutti accusano i trafficanti libici: “è stata tutta colpa loro – ricostruisce un migrante testimone dell'accaduto – ci hanno messo li dentro come le bestie e non potevamo neanche uscire perché sopra era tutto pieno, non ci potevamo muovere”. Il dramma del Mare Nostrum torna a prendere possesso della scena in tutta la sua tragicità, e lo fa a poco meno di un anno di distanza dalla storia visita di papa Francesco dell’isola di Lampedusa. Oggi più che mai le parole pronunciate dal pontefice “Mai più tragedie che sono spine nel cuore”, si scontrano con le testimonianze, taglienti come lame che affondano nella carne, dei sopravvissuti. Un altro tassello si aggiunge al corridoio di vite umana ben scolpito sul fondo del mare, o meglio sul fondo delle tante imbarcazioni colate a picco.
Accarezzato dal sole, sospinto dal silenzio, il barcone è stato pian piano trainato al molo per poi, sempre lentamente, quasi a passo di morte, essere “liberato” da quel carico di umanità ormai senza vita. (Graziana Trischitta - Migrantes Messina)