(26 giugno 2014) - E le pagine di Vangelo si fanno carne e vivono in mezzo a noi, non troppo reclamizzate, perché il bene a volte spaventa, altre volte è guardato con diffidenza. Siamo nella parrocchia di San Giovanni Maria Vianney, nella borgata di Falsomiele. Ormai da una settimana tutti gli uffici ed i saloni hanno smesso di svolgere le ordinarie funzioni, per trasformarsi in un grande dormitorio, con tanto di mensa e di sala docce. L’ispirato “Hotel Africa” ospita 250 dei 767 migranti arrivati in città lo scorso 15 giugno, a bordo della nave Etna.
No, non si tratta di un sacrilegio, di un’offesa alla sacralità del tempio. Attorno a questo evento, a questa speciale nascita, è arrivato un popolo, attratto da una stella e accorso carico di doni. C’è chi sta dietro ai fornelli, perché non manchi a nessuno la colazione, il pranzo e la cena. C’è chi si sbraccia per sistemare, pulire e rispondere alle necessità dei nuovi ospiti. C’è chi distribuisce indumenti e chi li aiuta a telefonare a casa. Lo spiegamento di forze visto al porto appena una settimana addietro è un lontano ricordo. Non c’è l’Azienda sanitaria, anche se i migranti chiedono medicine e controlli per i più disparati malesseri. Per una visita bisogna affidarsi a qualche medico di buona volontà, che ogni tanto passa a controllare la situazione. Non ci sono le forze dell’ordine ed i rappresentanti delle Ong, tanto che i profughi non sanno cosa sia l’asilo politico e, quindi, ignorano la relativa domanda. È tutto volontariato.
«Stiamo vivendo un’esperienza meravigliosa – racconta Marianna, una delle volontarie, divenuta in breve un punto di riferimento per i giovani – si è creata una comunione vera, un’unica famiglia, nella quale non si vedono differenze. Ognuna di queste persone ha un proprio vissuto, un motivo che l’ha spinta a fuggire dalla propria terra. Ascoltando le loro storie ho pensato che anch’io, al loro posto, sarei partita. La cosa più emozionante – aggiunge – è vedere come si illuminano i loro occhi quanto chiamano i familiari rimasti in patria. Qualcuno ha perso un fratello in mare, altri durante la traversata del deserto. Loro comunicano di essere vivi».
«Vediamo la differenza come un’opportunità – sottolinea Loredana, un’altra parrocchiana – noi li accogliamo perché crediamo in un Dio che non fa differenze. Fuori di qui non troveranno una vera cultura dell’accoglienza». Ecco perché i migranti non vogliono lasciare quest’oasi di fraternità. Piangono al pensiero che, a breve, potrebbero essere trasferiti in centri più strutturati. La tristezza invade anche volontari e residenti. Arriva un uomo corpulento e sanguigno e chiede sconsolato se anche il ragazzo con cui ha diviso la mensa domestica andrà via. All’inizio ha messo a disposizione la propria casa, per consentirgli di fare una doccia; con lo scorrere dei giorni la sua famiglia ha finito con l’affezionarsi. Non ti aspetteresti di vederlo sul punto di piangere. Qui l’integrazione ed il dialogo interreligioso sono pane quotidiano. In questa landa, che sembra tanto distante dal cuore della città, una di quelle periferie dell’umanità tanto care a Papa Bergoglio, riecheggia proprio il monito di Francesco, quando ci ricorda che anche Gesù è stato un rifugiato. In tanti provengono da terre dilaniate dalla guerra. Tutti hanno attraversato il deserto, sofferto la detenzione e le torture inferte in Libia. «Vogliamo andare ovunque ci sia la possibilità di lavorare. Speriamo di avere presto i documenti per potere lavorare e muoverci in Europa», spiega il giovane malese S.M.T.. Altri, come C.M., vorrebbero rimanere in Sicilia. Dalla Guinea si è dovuto trasferire in Mali e infine, a causa della guerra, in Libia. Vorrebbe guadagnarsi da vivere facendo il muratore. C’è chi è pronto a parlare, altri, invece, sono chiusi in un silenzio sordo, schiacciati dal peso di una tragedia che martella la loro anima. «Quando sono arrivati vagavano con lo sguardo vacuo. Dal loro atteggiamento non traspariva nessun sentimento, nessuno stato d’animo. La loro dignità e la loro identità erano state calpestate, annullate. Noi li abbiamo rianimati», ricorda Loredana.
In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, in parrocchia è stata celebrata una messa per i migranti in mare, alla presenza dell’imam. Fino ad allora, in chiesa, al posto dei banchi vi era un’unica distesa di materassi. «Sappiamo che ci troviamo in un tempio cattolico, ma ognuno rispetta la propria religione» ci dice un giovane malese di fede musulmana. Nella parrocchia di via della Capinera le porte sono aperte a tutti. «In tanti, pentecostali, evangelici, non credenti, ci hanno aiutati. C’è stata anche una forte mobilitazione di tutti gli scout – spiega il parroco, Don Sergio Mattaliano – una moltitudine si è chinata verso il bisogno di questi nostri fratelli».
Qualche passo più in là, Antonella confronta la sua Bibbia con quella, in lingua francese, di un ragazzo che arriva dal Benin. È evangelico. In chiesa, nel frattempo, due ragazzi ghanesi sono assorti in preghiera ai piedi del Crocifisso. Sono medotisti. Non è certo un quartiere ricco questo, eppure anche chi non navigava nell’oro ha messo a disposizione il poco che aveva, un vestito, un paio di scarpe, visto che molti ragazzi sono arrivati scalzi. Il povero ha donato al povero, insomma. «La Provvidenza manda sempre qualcuno a darci manforte», dicono i volontari. Neanche il tempo di finire la frase e arriva una ragazza tunisina. È arrivata in Sicilia nel 2011, sull’onda della rivoluzione dei Gelsomini. In Italia ha trovato l’amore e ora si mette a disposizione per tradurre, forte della laurea in lingue conseguita nel suo paese. Loro, i migranti, ringraziano e sorridono. Poi si preparano a seguire la partita dei mondiali di calcio tra Germania e Ghana. Uno di loro porta la maglia numero 5 del Palermo che fu di Corini. Stasera l’Europa resta fuori da questi cancelli. Davanti al megaschermo, all’ombra del crocifisso, Falsomiele si veste d’Africa. (Luca Insalaco - Palermo)