16 marzo - II Domenica
Il fascino di Gesù
Da quando Gesù era stato nel deserto erano passati molti mesi, egli aveva predicato per le strade della Palestina l’amore del Padre e la venuta del suo Regno. Intorno a lui si erano radunati degli uomini e delle donne che lo seguivano ovunque egli andasse e tra questi, Gesù aveva scelto i dodici apostoli, coloro che gli sarebbero stati più vicini durante la sua missione.
Un giorno Gesù disse ai dodici che il suo destino sarebbe stato quello di morire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. I discepoli rimasero stupiti e anche spaventati da questa notizia: non riuscivano a capire perché Gesù dovesse morire e se questo doveva succedere a Gerusalemme, che se ne stesse alla larga! Ma Gesù era guidato dallo Spirito del Padre e sapeva che era giusto proseguire; cercò di spiegare ai discepoli il senso della sua morte e continuò sulla sua strada. Questa strada lo portò alle pendici di un alto monte, il monte Tabor, qui chiese ai discepoli di aspettarlo e salì solo con Pietro, Giacomo e Giovanni, i suoi più cari amici.
Sul monte, lontani da tutte le preoccupazioni, i discepoli videro Gesù trasfigurato. Era splendente e bellissimo, tutta quella luce era la gioia che il Padre gli donava con il suo amore ed era proprio questa gioia profonda e senza eguali a non fargli temere la morte. I discepoli dovevano capire che anche per loro ci sarebbe stata questa gioia se lo avessero seguito sulla sua strada, anche se portava a Gerusalemme. Accanto a Gesù apparvero Mosè ed Elia, i due più grandi profeti di Israele, volevano significare che in Gesù aveva compimento tutta la storia del suo popolo: Gesù era il Messia da sempre atteso. Questo significavano le parole del Padre: Gesù era il Figlio tanto amato, tutti gli uomini avrebbero dovuto ascoltarlo se volevano essere veramente felici. Pietro, Giacomo e Giovanni erano veramente felici di stare sul monte, si sentivano finalmente sicuri, avrebbero voluto fare tre tende per Gesù, Mosè ed Elia, ma bisognava andare avanti, lo Spirito guidava
Certo Gesù fu un grande ammaliatore. Le sue parole, così intendiamo dai vangeli, avevano il potere di commuovere, ferire e guarire, esaltare, portare alle lacrime, trascinare. Le sue parole erano pane per le folle. E per un certo tempo del suo ministero pubblico la popolarità lo ha accompagnato in maniera vistosa. Ma Gesù non fu mai uno sprovveduto. Né un ingenuo.
Sapeva che il gradimento della folla è cosa tanto ambigua quanto malcerta: oggi c’è, domani chissà. Sapeva che nella folla ogni uomo diventa sì più permeabile, ma anche più umorale, irrequieto e superficiale.
La folla pretende di fare come Dio: che abbassa ed esalta. Solo che Dio lo fa col criterio della misericordia, la folla per capriccio, e con una rozzezza che è sempre violenta. Così Gesù della folla ha solitamente compassione: sente che tutta quella gente è insieme perché infiniti bisogni inespressi hanno la necessità di cementarsi per sentirsi meno inascoltati. Allora Gesù più che altro usa per la folla parole di consolazione e di speranza. E anche quando si spinge a dire qualcosa di più del Regno e del suo Padre lo fa in parabole, la cui spiegazione però viene riservata solo a qualcuno:
Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere. Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava loro ogni cosa. (Mc 4,33-34)
Solo a qualcuno Gesù spiega tutto. Egli sa che immerso nella folla un uomo non è capace di intendere: finisce per credere quello che tutti credono, col dire quello che tutti dicono, per dire di ogni cosa come tutti la dicono. Sicché sempre la folla (oggi noi diremmo la gente) impone una figura della realtà decisamente viziata dalla sommarietà del suo vocabolario e dall’inconcludenza di dibattiti tanto superficiali quanto emotivamente appaganti.
La folla guarda ma non vede, ascolta ma non intende.
Così Gesù fin dall’inizio prende qualcuno in disparte. In disparte significa in generale con lui. Sottratti all’anonimo brusio dei tanti, solo da singoli alcuni possono diventare i destinatari diretti delle istruzioni di Gesù. Soltanto se personalmente ciascuno di loro non semplicemente ne ascolta le parole ma addirittura ne condivide la compagnia. Anzi, perché le parole vengano intese occorre che esse vengano pronunciate nella compagnia. E solo dal gruppo di persone che Gesù si sceglie Egli spera la comprensione della sua identità: chi Egli veramente sia, di che e di chi veramente parli.
Sei giorni dopo prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte su di un alto monte.
Anche questo episodio è solo un frangente di una prassi consolidata di Gesù di destinare le cose migliori che ha da dire alla personale compagnia dei suoi discepoli. I quali diversamente dagli altri, da tutti gli altri, ricevono in questo privilegio la ragione del loro futuro ministero di testimoni. Essi saranno testimoni di Gesù perché hanno capito che Egli è il detentore di una parentela assoluta col Padre. E hanno saputo di questa parentela perché a lungo sono stati soli con Lui.
Così essi per i tre anni della vita pubblica di Gesù vivranno con Lui respirandone ogni umore, ascoltandone ogni parola, apprezzandone ogni gesto, affascinati dalla eccezionale personalità, e inquietati dalla sempre più evidente discontinuità con ogni pur grande figura di Profeta. Fino a presentire della sua eccezionalità: anche come Maestro, anche come Sapiente.
Lentamente agli occhi dei discepoli, costantemente in disparte con Lui, proprio di Lui affiora e appare una figura nuova, differente dalle primissime impressioni e dalle primissime attese. Una figura che certo la folla mai sarà in grado di apprezzare, e che appunto la loro separatezza con il maestro ha il compito di lasciar presentire. Giorno dopo giorno, stando con Lui, la sua figura prende connotati sempre diversi e sempre più sorprendenti. Tanto che la loro storia di discepoli acquista tutta intera i caratteri di una trasfigurazione: dell’esperienza cioè per la quale ai loro occhi lentamente è apparsa la vera identità di Gesù, occultata spesso dalla banalità del loro sguardo e dalla polverosa ordinarietà dei luoghi comuni. Pensavano bene di Gesù, fin dall’inizio. Pensavano di lui come di un grande profeta. Col tempo si è rivelato molto di più. Presentimento dopo presentimento. Diciamo presentimento: perché la comprensione è cosa di molto dopo; almeno dopo la sua morte e la sua risurrezione. Allora sì, la sua figura apparirà loro in tutta verità.
Qualsiasi cosa sia successa su quel monte, è solo il decantato dell’esperienza di tutta intera la storia dei discepoli col loro Maestro. È scritto qui ed ora quello che sempre accadeva ai discepoli.
Il volto brillante come il sole e le vesti candide come la luce, sono parole d’uomo per dire quello che non ha più figura solo di uomo. Come dire il di più, se non attraverso una temeraria alchimia delle parole?
In questo racconto, dunque, è drammatizzato in un’unica scena un lungo cammino, durante il quale Gesù si trasfigura ai suoi, apparendo a loro sempre di più come il punto d’intersezione di ogni profezia, di ogni legge e di ogni sapienza: e di essere Lui stesso tutto questo, il Profeta, la Legge e la Sapienza. Nella vicenda umana del loro maestro fa capolino per chi sa vedere la profezia più vera, la legge più perfetta e la sapienza più penetrante: in una parola, Gesù è ciò che tutti attendono da sempre, che il Padre venga di persona, e non più solo mediante la voce di un profeta, o la fragilità di una legge, o la opacità di ogni sapienza (sia pure quella di Salomone).
Questo hanno imparato ad intendere e a vedere i discepoli: presentimento dopo presentimento. Ma anche fraintendimento dopo fraintendimento. Perché frequentemente gli stessi discepoli subiscono il fascino delle sempre nuove figure con le quali il Maestro si presenta senza comprenderne fino in fondo il senso: e tradendo i loro grossolani fraintendimenti con parole intempestive. Di cui Pietro è spesso il campione.
Il fraintendimento cresce soprattutto nutrito dal fascino che i discepoli subiscono e che alimenta in loro un pericoloso entusiasmo: il fascino di Gesù li fa spesso sognare ad occhi aperti. E li fa parlare a vanvera. Non appena Pietro apre bocca, una nuvola si addensa attorno a quella fascinosa figura di Gesù rendendola oramai oscurata. Oscurata non dalla sua indisponibilità: piuttosto dall’indocilità dell’occhio dei discepoli.
Appena le loro parole pretendono di dire senza aver capito, il mistero di Gesù torna a farsi oscuro. Non appena una istintiva euforia fa scordare loro di essere discepoli sotto istruzione, col dovere dunque di guardare e ascoltare, e non appena si sentiranno autorizzati a prendere parola nel cuore di un mistero ancora lontano, proprio quel mistero ripiomba tra le nuvole.
Come dire: intende solo chi guarda e ascolta, non chi parla precocemente, chi intende dettare condizioni, o anche semplicemente dare consigli. Il desiderio, infantilmente chiacchierato, di restare nell’entusiasmo condanna all’incomprensione. Accade loro tante volte. Occorrerà loro vedere l’estrema figura di Gesù, quella di Lui solitario e muto sulla croce, per correggere e provare l’amaro di un entusiasmo precocemente desiderato. Per intendere che l’entusiasmo e l’euforia sono fumo negli occhi: occorre imparare la lingua della responsabilità e della dedizione. Occorrerà vedere quella figura di Gesù che per i tanti non è stata che una figuraccia. Una maschera desolata e terribile: privata di ogni sembianza d’uomo. La voce, che come nel Battesimo al Giordano, dal cielo dice “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!” è stata scritta in questo racconto. È stata però compresa davanti alla croce. O, piuttosto, tre giorni dopo.
Riusciremo mai a fare un'esperienza così entusiasmante dello stare con il Signore da poter esclamare: "È bello stare qui"? Non lo sappiamo, anche se pensare che i tre discepoli l'hanno vissuto ci fa un po' d'invidia. Non si dovrebbe dire perché la trasfigurazione non è altro che il preludio alla salita a Gerusalemme e alla passione, morte di Gesù. Ma pensare che l'intimità con il Signore è qualcosa di incredibilmente bello, solo i discepoli potevano dircelo, solo Pietro, il traditore per tre volte, poteva confessarcelo. E allora gli crediamo, forse siamo noi che stiamo cercando nel posto sbagliato tanta bellezza. Forse Gesù ha già preparato una tenda per ognuno di noi, certamente un posto alla sua mensa.
“Loro soli”, Gesù, Pietro, Giacomo, Giovanni perché c’è bisogno di ridire il fondamento, ricollocare le parole necessarie. E da esse iniziare il racconto del vivere.
Reimpostare le strategie del Regno. Perché anche il Regno conosce le sue strategie. E per esse si può persino dimenticare l’opera concreta.
Da dove partire quando tutto sembra chiaro? E si rischia l’immobilità?
Da dove partire quando tutto non sembra poi così chiaro? E si rischia di rimandare a un ‘poi’, che si confonde con un “mai”?
Parole che dalla nube misteriosa giungono fino a noi. Ascoltatelo, significa incontratelo, seguitelo, mangiate con lui, con lui guarite i malati e liberate gli schiavi, in una parola obbeditegli. Non è un ordine perentorio, ma la proposta di qualcosa che “ne vale la pena”, l’obbedienza che propone Gesù è fatta, innanzitutto, di condivisione, di vita insieme e di intimità, quello che propone ai discepoli mentre attraversa la Palestina, quello che offre ad ognuno di noi. Con lui è possibile ascoltare il battito del cuore del Padre che lo chiama Figlio, Figlio adorato e amato, con lui è impossibile restare soli, anche quando lo si abbandona o si tradisce, la sua fedeltà è infinita e irrevocabile, come la Parola creatrice che ci ha dato la vita.
Gesù mostra ai suoi amici più cari, i tre discepoli che sente più vicini al suo cuore, il volto trasfigurato. È il volto di Dio che si mostra amico agli uomini, che ripete ancora una volta che è venuto per stare con loro per sempre. La voce che viene dalla nube dice cosa bisogna fare: ascoltare Gesù, cioè obbedirgli, imparare da lui cosa è giusto fare. Tutti questi segni, però, non bastano, infatti i discepoli, anche se vedono tutto, non capiscono, non sanno che solo a Gerusalemme si compirà la missione e la vita di Gesù, quando sarà ucciso in croce, quando loro scapperanno tutti impauriti.
Pietro prende un'altra cantonata, una delle tante, per questo è l'apostolo che sentiamo più vicino: come noi fa una grande fatica a capire cosa voglia veramente Gesù da lui. Pietro sul monte si offre di fermare quell'istante di assoluta beatitudine: come si stava bene a guardare Gesù con Elia e Mosè! Ma questo fermo immagine non è nell'ordine delle cose: la storia, la nostra come quella di tutti, è fatta per progredire, nel bene come nel male, Gesù ne sa qualcosa. Niente soste: il tempo non si può possedere!
Sul monte, il luogo della terra più vicina al cielo, è possibile pregare, parlare con Dio. Gesù è la Parola di Dio presente tra noi: parlare con Gesù, ascoltare le sue parole significa parlare con il Padre, significa pregarlo.
Per questo la voce dal cielo raccomanda ai discepoli e a noi di ascoltare il Figlio prediletto. Non sapremmo cosa fare senza ascoltare Gesù, senza la sua parola buona. Cosa ti piace della preghiera? Cosa, invece, non ti piace? Quando ti metti in ascolto delle parole di Gesù?
Il nostro cuore è fatto per il bello e la bellezza, non quella a buon mercato dei corpi sui calendari, ma quell’occasione di assaggiare la vertigine dell’infinito, la maestosità dell’immenso.
Per questo cerchiamo il bello e nella maggior parte delle volte lo sappiamo riconoscere, proprio come Pietro che non sa più cosa dire.
Ma è pericoloso inseguire il bello, soprattutto pretendere che duri senza congiungerlo a ciò che è buono e giusto. Gesù deve proseguire fino a Gerusalemme e morire, questa è la sua missione, Pietro ha paura di questo, vorrebbe rifugiarsi tra le tende, fermarsi, ma la strada deve continuare.
La quaresima non è solo smarrimento, c’è una meta da raggiungere, anche se il tragitto per farlo appare ancora incerto. Di questi tempi c’è il mito del vagabondare: muoversi, sì, ma tralasciando il traguardo. Così senza accorgersi o si fanno due passi avanti e due indietro, essenzialmente per non muoversi affatto, o ci si ritrova d’un tratto dispersi, senza sapere perché e come si è arrivati in quel punto. La trasfigurazione sul monte non determina una meta precisa, immobile, predeterminata, ma permette di individuare una direzione per poterla scegliere, o rifiutare. La strada della croce non è obbligata, anche se è per tutti. C’è un orizzonte verso il quale incamminarsi, un orizzonte di luce lontano, eppure visibile. Anche se non si capisce si può intravedere il mistero e muoversi. Oppure si chiudono gli occhi e non si potrà contemplare né stelle, né aurora.