Spunti biblici
Nell’Antico Testamento: un segno di speranza
Nella narrazione del libro della Genesi, e nel contesto del Pentateuco, la figura di Noè è principalmente segno di fiducia e di speranza. In una terra corrotta e violenta, destinata alla distruzione del diluvio, un uomo trova grazia presso Dio e fidandosi della sua parola assicura la sopravvivenza della propria famiglia e di tutta l’umanità.
Con Noè Dio stabilisce un’alleanza fondamentale, per la quale il mondo può continuare a sussistere, nonostante la violenza e il peccato introdotti dai discendenti di Caino. Questa alleanza ha anche un carattere universale, non limitato al solo Israele, ed è la base di una possibile convivenza e tensione al dialogo con tutta l’umanità.
Verso la pace
La prima lettura della domenica si riallaccia proprio al progetto globale di Dio per la salvezza e la pacificazione di tutta l’umanità. I popoli sono chiamati a radunarsi sul santo monte di Dio, abbandonando la violenza e la guerra: le spade divengono aratri, le lance diventano falci. La stessa purificazione operata dal diluvio si compie in maniera incruenta, non attraverso la distruzione dei peccatori, ma con l’invito al banchetto di tutti i popoli, sul santo monte di Dio.
Il progetto del Regno di Dio, che il profeta intravede ed espone in forma poetica, trova una realizzazione imprevedibile in Gesù, che dà compimento alla figura di Noè.
Colui che si lascia educare da Dio
Nel contesto del discorso escatologico, la figura di Noè è citata come esempio, con intento chiaramente educativo. Noè è colui che sa discernere i tempi, che si lascia educare da Dio nella concretezza del momento storico. Gesù invita gli interlocutori a non pensare in maniera ideologica, ma a identificare la peculiarità di quel preciso segmento di storia, caratterizzato dall’irruzione del Regno di Dio.
La liturgia introducendo la figura di Noè nella prima domenica di Avvento lo pone chiaramente come tipo di coloro che sanno attendere il Regno, in contrapposizione a coloro che “non si accorsero di nulla”.
Esaminando più attentamente il brano evangelico, notiamo che il nome di Noè è citato due volte; la prima volta abbiamo un’allusione molto generale, un confronto tra i “giorni di Noè” e la “venuta del Figlio dell’Uomo”. La ripresa sviluppa un confronto più particolareggiato e puntuale tra il comportamento dell’umanità ai tempi di Noè e la situazione contemporanea a Gesù (invitando così il lettore a interrogarsi sul suo tempo).
Il termine di riferimento non è lo scarno racconto biblico, ma la tradizione interpretativa giudaica, che già al tempo di Gesù tendeva ad attualizzare il racconto della Genesi. Sorprendente però il fatto che sembra che si parli della nostra situazione, della nostra attualità: anche noi oggi vediamo una generazione intenta a mangiare, bere, soddisfare i suoi appetiti sessuali, senza minimamente preoccuparsi dei segnali allarmanti che si stanno moltiplicando.
Mentre i suoi contemporanei “non si accorgono di nulla”, Noè vive pienamente il suo tempo. E diventa così figura di Cristo, di Paolo, del profeta Isaia che sa vedere un futuro inimmaginabile per gli uomini della sua epoca.
I giorni di Noè: perché non si accetta l’educazione di Dio?
Dei giorni di Noè Gesù non ricorda la violenza, il peccato, la spaventosa escalation di male che conduce alla catastrofe. Si dice unicamente: “non si accorsero di nulla”. Non si presenta il vertice del male, ma la sua diffusione e banalizzazione: si tratta di un problema educativo globale, non di condannare picchi di straordinaria malvagità. Papa Francesco ha parlato al proposito di “globalizzazione dell’indifferenza”. Ciò che è più insidioso non è il vertice del peccato, ma il suo instillarsi, quasi insensibilmente, in sempre più larghi strati di umanità, a cui vengono a mancare la consapevolezza, il discernimento, l’ascolto dei segnali che vengono da Dio, le forme elementari del commuoversi, del cercare il bene, del porre segnali di umanità e rispetto.
Al posto del discernimento, subentra l’istinto: mangiare, bere, soddisfare gli appetiti sessuali, limitarsi a progetti ad orizzonte limitato.
La catastrofe incombente
Il diluvio “travolse tutti”: richiamandosi a quella antica situazione, Gesù allude ad una grande responsabilità, che si lega alla venuta del Figlio dell’Uomo. Abbiamo così due affermazioni contrastanti: nella prima lettura, la profezia di Isaia annuncia un futuro felice, di pace; ugualmente Paolo sembra delineare una “salvezza vicina”. La parola di Gesù sembra invece lasciare meno spazio alla speranza: “uno verrà portato via, e l’altro lasciato”: però non è come il diluvio, in cui “tutti” vennero travolti: si prospetta invece una alternativa alla pari, un bivio.
È evidente un richiamo alla responsabilità personale, nell’ottica dell’antica immagine delle “due vie”. La parola forte di Gesù non annuncia una pura e semplice catastrofe, perché è ancora possibile prendere una decisione, mettersi dalla parte di coloro che attendono la sua venuta.
Anche le parole di Gesù sono dunque parole di speranza: non però quel genere di ottimismo che sottrae la persona alla sua responsabilità e all’urgenza di risvegliarsi dal torpore paralizzante.
Per gli educatori:
la fatica di risvegliare le coscienze
Il sonno della coscienza
La situazione in cui si trova Gesù, è la peggiore per qualunque educatore: trovarsi di fronte a una coscienza addormentata e indifferente. La generazione di Noè diventa il paradigma di chi sta sull’orlo del baratro, ma è sordo ad ogni richiamo che lo avverte del pericolo. L’evangelista riconosce la validità delle parole di Gesù, avendo probabilmente di fronte la catastrofe della distruzione di Gerusalemme. Anche noi oggi abbiamo ugualmente un forte invito alla riflessione, pensando a varie situazioni mondiali e alle vicende del nostro Paese.
La paziente responsabilità
Noè costruisce l’arca, dando un esempio di preveggenza e responsabilità. Occorre credere con forza alla possibilità di educare, anche in contesti che sembrano del tutto sfavorevoli. Lo stile di Dio non prevede eclatanti azioni di massa, ma un lavoro di paziente coscientizzazione, a partire da se stessi. Così Gesù aiuta le persone a recuperare consapevolezza, sia attraverso la memoria storica contenuta nella Scrittura, sia con la parabola del ladro, tratta dall’esperienza quotidiana, sia con la credibilità del suo stile di vita, che accetta di privarsi di ogni sicurezza, perfino di un luogo “dove posare il capo”, per indicare che davvero il Regno sta arrivando. Anche la prima lettura, tratta dal libro di Isaia, ci mostra la capacità di accendere speranze che appaiono incredibili; allo stesso modo Paolo tiene desta la vita nello Spirito in coloro che hanno creduto alla risurrezione di Cristo.
Solitudine e comunicazione
Noè, Gesù, Paolo, il profeta Isaia: tutti si trovano pressoché soli di fronte ad una generazione incredula. Tutti hanno il coraggio di accogliere la loro solitudine, portando un annuncio scomodo a chi sembra non avere intenzione di ascoltare. Non è un isolamento, che sarebbe una fuga dalla comunicazione, ma un mettersi di fronte alla comunità dispersa, perché torni ad ascoltare. L’esigenza di entrare in relazione impone di usare tutte le risorse, dal linguaggio verbale al linguaggio simbolico: Noè costruisce l’arca, il profeta compone un poema ricco di immagini suggestive, Gesù e Paolo fanno ampio ricorso a metafore e parabole. Nessuno si limita alla critica feroce e al catastrofismo sterile, e vengono utilizzate tutte le risorse della fantasia e della bellezza per provocare il risveglio dall’ottusità della coscienza.