(28 febbraio 2013) - Margaret Aguti ha solcato la sofferenza di interi popoli come si attraversa un mare inesplorato. E come il mare, il suo viaggio è da tempo di andata e ritorno, un metronomo che ha scandito i bisogni di uomini dalla pelle troppo scura per essere visti al di là da un mare, che dismemora e scolora le coscienze. Un bagaglio sempre pronto a imbarcare lacrime, sorrisi e canti che hanno il suono di echi di una gioia primordiale. Per amore, solo per amore.
“Ho conosciuto mio marito, un medico romano, in Uganda. L’amore è nato così, lavorando insieme in una missione dei Comboniani”, ricorda Margaret, con quella soavità che contraddistingue l’incedere delle sue parole. Il loro viaggio li ha portati a toccare la sofferenza di un’umanità sommersa, a dare sollievo alle piaghe di sconfinate genti.
L’amore l’ha condotta dove non avrebbe mai sospettato di andare. A Linosa, un vulcano spento, popolato da poco più di quattrocento anime. Un’isola laboriosa, colorata, bagnata dai marosi della speranza di quanti vi approdano in cerca di un destino più gentile. Qui, dove il marito faceva il medico di base, arriva nel 1987. Ma i venti che giungono dall’Africa non smettono di bussare alla loro porta. Lo studio convenzionato è un elastico troppo esile per restare. Il loro cuore è rimasto in Africa ed è lì che i due fanno ritorno in un tour che li porta in Guinea, Burkina Faso, Rwanda e Mozambico. E poi ancora Uganda, Etiopia, Afghanistan e Sudan. Un arcipelago di ricordi, di emozioni, in una storia che per questa donna coraggiosa ha inizio con una chiamata chiara, precisa, diretta. Dalla sua risposta, senza tentennamenti, sono fiorite meraviglie, autentici miracoli di cui Margaret è stata testimone e talvolta anche strumento.
“Quando venivano a casa mia bambini con la malaria, li mandavo in ospedale e andavo a controllare che ricevessero quanto avevano bisogno – rievoca –. Tutto è partito con una capanna; ho iniziato a organizzare la vaccinazione per i piccoli della zona e con i primi soldi ho acquistato i farmaci. Andare nelle case delle donne mi ha permesso di capirle e di aiutarle. Se vedo che la donna non ha l’acqua non posso dirle di lavarsi le mani. Prima devo darle l’acqua”. È in Uganda, teatro di una guerra sanguinosa e terra di povertà estrema, che il marito ha messo le radici dell’assistenza. Qui, negli anni Ottanta, ha realizzato un programma di recupero con la cooperazione internazionale, grazie al quale ha avviato al lavoro un migliaio di ragazzi, rendendoli così autosufficienti. “Io – sottolinea la missionaria – ho messo in piedi una clinica comunitaria ed un asilo che ospita cento bambini. Riceviamo aiuti internazionali, ma la popolazione è affamata e non è preparata a gestirli. Devono essere le Ong a tenere in mano l’organizzazione”.
Ma è il Sud Sudan che Margaret elegge come luogo di missione, lavorando come ostetrica a Rumbek. Una terra poverissima, difficile anche dal punto di vista climatico, dilaniata da interminabili guerre intestine e con un pesante deficit sanitario. Basti pensare che l’area dispone di un solo ospedale ogni 400mila abitanti e che soltanto il 25% della popolazione ha accesso ai servizi sanitari. “Il mio lavoro si è concentrato in particolare sulla riduzione della mortalità delle donne durante il parto, una percentuale altissima. Ora – spiega – le cose stanno cambiando, ma all’inizio è stato molto difficile, anche per le difficoltà linguistiche. Allora ho messo in piedi una scuola di inglese, con un insegnante sud-sudanese tornato apposta dagli Stati Uniti.
Stiamo anche rinnovando l’ospedale: la maternità funziona e la sala operatoria è in ristrutturazione. Resta il grosso problema della mancanza di auto e di strade, senza le quali le donne impiegano anche quattro giorni per andare in ospedale, dove spesso giungono in fin di vita. Nel 2009 abbiamo attivato una radio, che ci consente di fare formazione. L’attività di prevenzione per le donne in gravidanza ha fatto un salto di qualità e le levatrici che abbiamo formato sono in grado di lavorare da sole”.
E l’Italia? Il nostro paese è la sua seconda casa, anche questa terra di missione. “In Uganda – ricorda – nel 1982, ho avuto il ‘risveglio’ ed ho iniziato il cammino, poi proseguito a Lampedusa nel gruppo del Rinnovamento nello Spirito. Sentivo qualcosa dentro, una chiamata. Facevo mille domande sulla Bibbia al nostro parroco. Il Signore mi diceva che sarei dovuta andare molto lontano. E così è stato. Mi sono trovata a pregare in italiano senza conoscere una sola parola di questa lingua. Il Signore mi stava preparando per venire in Italia. Quando sono arrivata mi chiedevo perché la gente fosse infelice, nonostante avesse tutto. Ho capito che molte persone erano vuote spiritualmente, che qui avrei dovuto affrontare un’altra forma di povertà”.
Ascoltando Margaret si comprende bene che il “vento soffia dove vuole”. È stato il soffio dello Spirito ad ispirarle una nuova iniziativa in favore dei fratelli africani, stavolta con base a Lampedusa e Linosa. Un nuovo progetto ancora nel segno della solidarietà, del sostegno concreto a quel continente che è parte di lei. Si chiama “I Germogli” la onlus pensata dalla nostra amica per costruire un ponte solidale tra le Pelagie e l’Africa. L’associazione, al momento in fase di registrazione, intende gettare i semi per la realizzazione di un asilo in Uganda, attraverso la vendita di piante coltivate con la cura di cui la sua ideatrice è capace. È un progetto ambizioso, certo, ma questa affabile linosana d’adozione sa bene di potere contare su un fedele alleato: “La mano di Dio mi ha permesso di costruire case, la sua Parola è la mia forza. Sono certa che il Signore aprirà una via, come ha sempre fatto”, afferma sicura. Lasciamo Margaret ai suoi progetti, ad inseguire le rotte suggeritele dal Vento.
(Luca G. Insalaco – Avvocato e giornalista)