(7 novembre 2012) - Parole tragicamente vere, che sembrano ripetersi con insistenza in quel tratto di mare che separa l’Europa dal Continente africano; richieste d’aiuto sempre più frequenti, accolte da chi ha fatto con il mare un patto di vita, un’alleanza che impone di soccorrere chi si trova in balia delle onde di un mare tempestoso o alla deriva di un mare calmo e silenzioso.
È quello che, in questi giorni, stanno facendo Guardia Costiera e Marina Militare, soccorrendo i migranti naufragati a largo delle coste libiche: 70 persone sono già state salvate, ma purtroppo, oltre ai superstiti, sono stati recuperati anche diversi cadaveri e le ricerche continuano.
Sono urla di vite, scatenate dal bisogno di un’esistenza degna di essere chiamata con tale nome e che risponde all’esigenza primaria dell’uomo, che è quella di essere libero da ogni coercizione sociale. I loro nomi sono sconosciuti (ci si limita troppo spesso a considerarli numeri: ne sono arrivati 200, 300, 400…), le loro storie nessuno le ha mai raccontate, nessuno ha mai ascoltato i loro desideri più intimi. Eppure ognuno di loro ha una storia, fatta di passato, intessuta nel presente e proiettata nel futuro. Pagine di esistenza, diverse ma comuni, che si intrecciano con le righe di un vissuto quotidiano sull’Isola, che rimane quella culla di protezione per chiunque ne abbia bisogno, sia esso vacanziero, sia esso migrante in cerca di supporto.
Sono venuto a Lampedusa nel 2009, - racconta Moustaphà - per raggiungere mio padre. Non nascondo che all’inizio del mio arrivo a Lampedusa tutto non è stato così semplice. Non parlavo neppure l’italiano: ma mi è bastato qualche mese per cominciare a prendere familiarità con una lingua molto simile al francese che già parlavo. Arrivato tre anni fa dal Senegal, oggi il 21enne è pienamente integrato nella comunità isolana e la sua storia è simile a quella di numerosi altri migranti che non hanno attraversato il mare in barca, ma che hanno scelto Lampedusa come punto di partenza per costruire il proprio domani.
Anche Sana Sarr è un senegalese e lavora con tre marinai italiani sul peschereccio di Antonino Di Maggio da circa quattro anni. Promotore dell’incontro è stato un altro lampedusano, Salvatore Bono, che per 25 anni ha comandato i pescherecci atlantici da 400 tonnellate, solcando le acque di Guinea Conakry, Mauritania, Sierra Leone e Guinea Bissau. I due sono legati da un`amicizia di vecchia data. Infatti Sana lavorava in Africa con il comandante Bono già dal 1982. Prima come mozzo, poi come marinaio, nostromo e infine ufficiale timoniere. Nel 2007 entrambi hanno perso il lavoro a causa della dismissione dei pescherecci per le dinamiche di mercato e il caro petrolio. Così nel marzo 2007 Bono e Di Maggio hanno fatto domanda per Sana con il decreto flussi. Una faticosa e dispendiosa trafila burocratica e gli infiniti documenti da presentare hanno fatto aspettare Antonino Di Maggio ben un anno e mezzo prima di avere il suo marinaio, che oggi è un valido membro dell’equipaggio. Sana è riuscito a portare con sé a Lampedusa sua moglie e uno dei suoi figli e sta cercando di ricongiungere il nucleo familiare facendo arrivare anche l’altro.
È stato un miracolo trovare lavoro qua – dice Sana – in Senegal una persona lavora e dieci stanno a casa, quella stessa casa che in tanti sono stati, invece, costretti a lasciare per affidare al mare il proprio destino: quello di vivere o quello di morire.
Questa è la storia di Karim, giovane marocchino, anche lui migrante, musulmano, che il 29 giugno 2005 raggiunse la tanto bramata meta Lampedusa dopo un viaggio (costato 3000 €) su un’imbarcazione, portando con sé solo due bottiglie d’acqua e le cose da mangiare; queste erano state infatti le indicazioni dello scafista che annunciava una durata del percorso via mare di sole 24 ore:
Dopo quattro giorni chiusi in alcune case in Libia, siamo partiti il 23 giugno 2005, di notte, e siamo arrivati a Lampedusa il 29 giugno, dopo 6 giorni di navigazione. Prima di partire ci hanno detto di uscire dalla casa ad uno ad uno, con i sacchetti del cibo e dell'acqua in mano, ma la barca era molto lontana e io ho nuotato per tanti, tanti metri prima di arrivarci. Con me c'era pure un uomo che non vedeva bene ed è stato molto male. All'inizio, sulla barca, abbiamo parlato di chi aveva moglie o figli, di chi aveva lasciato qualcuno da qualche parte. Il secondo giorno di viaggio già è finito il mangiare e pure l'acqua. Si moriva di fame e di sete. Alcuni bevevano l'acqua del mare ma poi avevano ancora più sete. C'erano ragazzi che erano buttati in un angolo e non si potevamo muovere perché per la fame erano stati male, non avevano forza nemmeno di muovere le mani. Di notte si dormiva solo due o tre ore per paura che succedesse qualcosa. L'ultimo giorno, prima di arrivare a Lampedusa lo scafista ha perso la rotta per giungere in Italia. Lui non sapeva dove andava. Eravamo affamati e assetati. Abbiamo iniziato a capire che c'era veramente il rischio di morire in mare. Poi di mattina abbiamo visto un aereo che volava sopra di noi, forse per fare le fotografie alla barca.
La metà di noi era felice perché, anche se ci prendevano, eravamo salvi. Poi è arrivata la Guardia Costiera. Hanno chiesto se qualcuno parlava in francese e ho risposto alle loro domande. Tanto ormai ci avevano trovato e dovevi rispondere. Mi hanno detto di dire a quelli che erano sulla barca di stare calmi e che dovevano solo portarci in un posto tranquillo e darci da mangiare, da bere e curare chi stava male. Intanto, quello che guidava la barca ha buttato il telefono e tutte le sue cose in mare e si è messo insieme a noi. Ci hanno chiesto chi era quello che guidava ma noi non abbiamo risposto. La Guardia Costiera ci ha trattato bene, io ricordo tutto, anche la loro faccia. Prima hanno curato quello che stava morendo di fame e di sete perché aveva bevuto troppa acqua di mare. Poi mi hanno dato cibo e acqua e io li ho divisi ai miei compagni. La barca l'hanno portata via con una corda e noi siamo andati con loro. Siamo arrivati a Lampedusa dopo circa 5 ore. Ci hanno fatto salire su un pulmino e ci hanno portato al centro di accoglienza. Oggi Karim vive a Palermo, lavora come elettricista ed ha un regolare permesso di soggiorno. Ma quando gli chiediamo di raccontarci di quel viaggio i suoi occhi brillano... e leggiamo chiaramente quanto Lampedusa gli sia rimasta nel cuore… È il luogo della mia rinascita, ci dice ed è cosi profondo il suo legame con l’Isola che tra i suoi tanti scritti, uno lo ha dedicato proprio a quella stessa terra che lo ha salvato, a quello stesso luogo che gli fece scendere una lacrima, quando nel 2011 riuscì a ritornare da uomo libero, arrivando in nave da Porto Empedocle, per contribuire con la sua testimonianza alla realizzazione di un film documentario.
Ricordami,
sei stata la mia seconda terra
dopo tutta la fatica
dopo il lungo viaggio.
Rimani sempre nel mio pensiero,
tu sei stata la mia finestra
per vedere il futuro.
Per te, io sono rimasto solo,
senza famiglia.
Io mi addoloro ogni giorno.
Sopporto la sofferenza
Per il tuo amore.
Aspetto ogni tramonto del sole
Per rivederti di nuovo.
Ricordami e arrivederci
al giorno in cui tu vorrai.
Forse il sole tramonterà
e sorgerà di nuovo più volte
ed io continuerò ad amarti
o forse tramonterà senza più risorgere
ma lo stesso farò uscire dal mio cuore
tutto l’amore per te.
C’è qualcosa da raccontare dietro ogni uomo, ogni donna, ogni bambino. Ognuno di loro è una ricchezza da ascoltare. Lo sono anche i migranti che ancora oggi continuano ad approdare sulle nostre coste e che vengono poi ospitati poi nelle strutture di accoglienza. Sono somali, eritrei, tunisini… sono uomini e donne che fuggono dall’incertezza di una società poco umana. Lampedusa è solo la punta di un grosso iceberg denominato “immigrazione” e da qui parte il grido di speranza che non può mettere a tacere le numerose morti nel Mediterraneo. Non possiamo permetterlo. Ogni storia va protetta perché il Domani è fatto di esperienze: il Domani è quel presente che va lasciato diventare Futuro.
(Antonino Maggiore, Referente locale del Progetto “Lampedusa e Linosa 365 giorni in rete)