(29 marzo 2012) - Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente. È questa una delle frasi che usava ripetere il giornalista e scrittore Indro Montanelli e che ritengo si rispecchi alla perfezione nella quotidianità di Lampedusa. Gli eventi presenti e il futuro sperato sono la prova evidente che questa terra porta con sé, nel suo cammino di ogni giorno, l’importanza di una storia che fa sentire il proprio “peso” sulla comunità civile e religiosa. Pur essendo un’Isola storicamente giovane, infatti, Lampedusa ha sempre manifestato profondo rispetto nella celebrazione delle festività religiose. Ciò emerge anche dai racconti della signora Elisabetta Scudellari, coinvolta nel progetto “I nonni raccontano”, realizzato dall’Istituto Scolastico “Luigi Pirandello”: i ricordi dell’anziana donna fanno chiaramente capire come la Solennità della Pasqua, che la comunità si prepara a vivere, sembra oggi aver smarrito quel valore originario di intensa partecipazione.
La descrive come una festa di famiglia, un incontro tra parenti con i quali si condivideva la preparazione dei tipici dolci pasquali, (a Lampedusa comunemente chiamati “i pupi cu l’ova”), che venivano appositamente impastati e “modellati” secondo il proprio gusto e la propria fantasia (consuetudine, quest’ultima, che si tramanda ancora di generazione in generazione). Con il passare degli anni, però, le tradizioni si sono andate perdendo e quei momenti di condivisione che preparavano al mistero della celebrazione in modo profondo si sono andati smarrendo. “Durante la Settimana Santa – racconta la donna - in Chiesa veniva preparato un letto con una coperta bianca e su di essa veniva sistemata la statua di Gesù con accanto una grande palma. Intorno al letto si posizionavano dei piatti con del frumento, che per l’occasione veniva fatto crescere in casa: i germogli venivano legati con del nastro azzurro. La sera si pregava tutti insieme durante una lunga veglia e quando la gente andava via si inchinava ai piedi del Cristo Morto baciandoli. Il Venerdì Santo, giorno di dolore - continua la signora Scudellari - la statua veniva posta dentro l’urna di vetro e condotta in processione sulle spalle dagli uomini. Le donne vedove, invece, vestite di nero, portavano la statua della Madonna Addolorata dietro l’urna. Ad accompagnare la Via Crucis era la banda musicale che si univa al momento liturgico intonando musiche tristi e malinconiche.
La notte di Pasqua, con la resurrezione di Gesù, era un momento di grande festa, mentre la domenica ci si ritrovava intorno alla stessa tavola ascoltando in sottofondo le melodie che la banda intonava per le vie del paese, rendendo ancor più speciale l’atmosfera”. Parole che raccontano di una Lampedusa lontana, rimasta scritta solo nel libro dei ricordi. Eppure la volontà di non dimenticare e di riportare in vita quelle tradizione, pur se ingiallita dal tempo, c’è ancora e lo conferma il fatto che da qualche anno la comunità si sta impegnando a riattivare quelle forme di pietà popolare che mentre ai più piccoli appaiono solamente come qualcosa di mai vissuto, per i più grandi rappresentato l’occasione per raccontare ai giovani lampedusani ciò che è stato prima di loro. Le celebrazioni della Settimana Santa sono evidenziate, oltre che dalla quotidiana liturgia del periodo, dalla semplice ma molto sentita processione del Venerdì Santo, durante la quale il Simulacro della pietà di Michelangelo viene portato in giro per le vie del paese ripercorrendo le tappe della Via Crucis. Oggi più che mai, Lampedusa ha bisogno di rileggere il proprio passato per proiettarsi verso il futuro. L’Isola ha bisogno di rinnovare ogni istante di quel passaggio dalla “collina della vergogna” dello scorso anno all’Isola della dignità dell’uomo: chiunque esso sia.
L’Isola, dove l’anno scorso i giovani migranti hanno intrecciato le fibre di palma per darle in dono alle donne lampedusane in segno di riconoscenza, ha bisogno di ritrovare le origini, ma per farlo deve conoscere e rileggere la propria storia. E mentre la comunità si prepara a ricordare, tra le strade riecheggiano le parole di Monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, che, lo scorso anno, durante la Veglia pasquale celebrata a Lampedusa, ha augurato a isolani e migranti di poter vivere a pieno i giorni della Passione di Cristo. La Pasqua ha un significato da sperimentare e vivere, non può essere solo un ricordo.
(Giuseppe Fragapane – Azione Cattolica Lampedusa)