(16 febbraio 2012) - L’anno che si è appena concluso ha cambiato per sempre Lampedusa, ogni cosa da ora in poi dovrà essere guardata con altri occhi e bisognerà lavorare per creare una maggiore coscienza sociale e politica negli isolani. Tutto quello che abbiamo vissuto si può esaminare sotto molti punti di vista, ma un’analisi seria non può prescindere dalle questioni politiche che hanno portato alla situazione venutasi a creare nell’Isola e assolutamente bisogna inserire la vicenda “lampedusana” in un contesto globale. Ormai è chiaro che il problema vissuto è stato provocato da una mala gestione dei flussi migratori, tutti abbiamo detto che bastava trasferire i migranti in maniera veloce e nulla sarebbe successo.
Non reggono più le giustificazioni di chi dice e ha detto: “Erano troppi”. Per un Paese come l’Italia i numeri del 2011 sarebbero dovuti essere poca cosa, in fondo da Lampedusa sono passate all’incirca cinquantamila persone. Allora perché chiamarla invasione? Perché “costringere” in una situazione esplosiva un’intera popolazione, quella lampedusana, e migliaia di migranti? Perché non aprire subito il Centro e avviare immediatamente i trasferimenti? Le scelte del governo Berlusconi hanno portato a due conseguenze: la paura el’emergenza.
La paura è un sentimento su cui costruire comportamenti sociali e culturali, perché dopo la paura si propone “la sicurezza” e le politiche repressive e tutti, a quel punto, sono disposti a perdere qualche diritto. L’emergenza, invece, scatena meccanismi economici incontrollabili, nell’emergenza tutto è concesso, se un fatto è gestito in maniera ordinaria, senza fare scoppiare clamori o peggio catastrofi, l’Europa giustamente non ha da intervenire: nell’emergenza, invece, l’Europa diventa un soggetto a cui chiedere, sia in termini politici che economici. Fortunatamente nei lampedusani è prevalso lo spirito di accoglienza e di solidarietà, ma questo non basta e non è bastato.
Quando, infatti, l’allora Presidente del Consiglio venne sull’Isola a fare il suo numero di “magia” e dopo pochi giorni la situazione a Lampedusa tornò alla normalità, gli altri migranti che arrivarono furono rinchiusi nella struttura di Contrada Imbriacola e pochi si chiesero cosa accadeva li dentro; molti sapevano delle tante proteste dei tunisini, degli scioperi della fame, dell’autolesionismo, ma si faceva finta di niente, l’importante era solo che i migranti non venissero visti in giro. A settembre però la rabbia è nuovamente esplosa, alcuni tunisini hanno dato fuoco al Centro: davanti ad una pompa di benzina è avvenuto lo scontro tra un piccolo gruppo di lampedusani e i migranti scappati dal Centro.
Ora però tutto sembra lontano, ora non si parla più della situazione del Nord Africa, eppure è proprio ora che le famiglie dei giovani tunisini scappati dal loro Paese ormai da quasi un anno, sperano di avere notizie sui loro figli. E lo fanno rivolgendosi ai governi d’Italia e Tunisia, affinché ci sia collaborazione tra le istituzioni. E nell’attesa si trovano a Palermo e dormono in una moschea, abbandonati da tutti, alcune madri sono in sciopero della fame e hanno organizzato sit-in davanti al Consolato tunisino insieme alle associazioni che le sostengono.
Ecco, è adesso di fronte a tutto questo, che dobbiamo ritrovare la serenità di guardarci negli occhi, cercando di decidere cosa Lampedusa debba rappresentare rispetto al fenomeno delle migrazioni nel Mediterraneo, nella speranza di scongiurare ogni possibile nuova emergenza e permettere all’Isola di svolgere quella funzione di salvezza a cui è naturalmente predisposta. (Associazione “Askavusa”)