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Il villaggio di cartone   versione testuale
Il regista Olmi racconta l'accoglienza: in ginocchio davanti ai migranti

(7 settembre 2011) - Il regista a Venezia con "Il villaggio di cartone", storia di una chiesa che diventa rifugio per i clandestini. "I cattolici si ricordino di essere cristiani, non ci si può genuflettere davanti a un crocifisso e non avere solidarietà per chi soffre".
 
''Non bisogna inginocchiarsi davanti al crocifisso, che è solo un simulacro di cartone, ma verso chi soffre come gli extracomunitari''. È la lezione del maestro Ermanno Olmi, che ha presentato oggi fuori concorso alla mostra del cinema di Venezia “Il villaggio di cartone”.
Il film racconta la storia di un anziano prete e della sua chiesa dismessa, dal quale viene portato via ogni addobbo, persino il crocifisso. Quell’edificio ormai vuoto si riempirà però di migranti in cerca di un rifugio, nascendo a nuova vita, darà così un senso alla missione del sacerdote e diventerà un’efficace metafora dell’accoglienza.
"Più la Chiesa, la casa e noi tutti ci liberiamo degli orpelli, meglio è. Sennò siamo maschere, uomini di cartone”ha detto Olmi in conferenza stampa, dopo che il suo film è stato accolto da lunghi applausi. “Vorrei suggerire ai cattolici - e io sono tra questi - di ricordarsi più spesso di essere anche cristiani. Il vero tempio è la comunità umana" - ha aggiunto il regista-.
A un giornalista che gli chiedeva se in questo modo il cattolicesimo si ridurrebbe ad esser solo accoglienza, Olmi ha ribattuto: "Sia così cortese da dirmi cos'è più importante dell'accoglienza? Cosa? La sacralita' dei simboli? Il simbolo deve rimandare ad una realta' di carne per avere valore. Non è possibile che ci genuflettiamo davanti ad un Cristo di cartone o di legno e poi non abbiamo solidarietà per chi soffre. E' troppo comodo”.
Nella chiesa del Villaggio di Cartone convivono il bene il male, come dimostra la presenza, tra i migranti, di una terrorista, che convincerà un giovane a indossare una cintura esplosiva. "Il mio non è un film realistico – ha spiegato il regista  - ed ogni presenza è simbolica. Il ragazzo, suggestionato dalle parole della terrorista, decide di accettare l'atto violento come un dovere per non dialogare con l'altro.
Esattamente come il sacrestano denuncia i clandestini per paura di aprire la porta della sua casa senza chiedere a tutti: chi sei? Da dove vieni? Solo nel confronto e nel dialogo con gli altri possiamo capire chi siamo".