Sussidio Quaresima-Pasqua 2014 - Ecumenismo - 8 giugno - Pentecoste 
8 giugno - Pentecoste   versione testuale
Cercare lingue nuove per raccontare il Vangelo di Gesù


Piccinni Donato, Pentecoste, ultimo quarto sec. XX.
Inventario informatizzato delle Diocesi italiane
Diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca
 
 
«Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?» (At 2,7b-8).
È affascinante la descrizione con la quale l’autore degli Atti degli Apostoli ci riporta al giorno di Pentecoste e che la liturgia della Chiesa ci fa rivivere in questo giorno che corona il tempo di Pasqua. Affascinante, perché segna un momento di svolta per la Chiesa delle origini, e quindi implicitamente per la Chiesa di tutti i tempi. Se la sera del primo giorno dopo il sabato Giovanni ci presenta i discepoli chiusi in casa «per timore dei Giudei» (Gv 20,19), oggi quegli stessi discepoli li ritroviamo «colmati di Spirito Santo» (At 2,4) e con le porte spalancate, aperte su un modo nuovo di vivere la loro fede in Gesù: un modo sicuramente più convinto e convincente, più coraggioso e, per così dire, più esposto. E se il fatto della Pentecoste ha indubbiamente segnato il cammino della prima Chiesa, aprendola al mondo di allora, la stessa Pentecoste, lo stesso «vento che si abbatte impetuoso» (At 2,2) spinge anche la Chiesa di oggi ad uscire, a mettersi in gioco, a cercare lingue nuove per raccontare il messaggio di salvezza, quello del Vangelo di Gesù. In un contesto che non è poi così lontano da quello di 2000 anni fa.
«Siamo Parti, Medi, Elamiti…», affermano stupefatti tutti i presenti. Il che ci riporta di fronte agli occhi tutta la diversità anche della società della Gerusalemme di allora: diversità di lingua, di cultura e di tradizioni, di stili di vita e di abitudini. Ma ciò nonostante, riconoscono quegli uomini, «li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (At 2,11b); quindi pur nella diversità c’è qualcosa che unisce, una lingua nuova che a tutti è possibile intendere. Qual è questa lingua nuova? Possiamo pensare che si tratti di un corso accelerato di lingua straniera? Chissà a quanti farebbe comodo una possibilità di questo genere! Ma non è così, lo sappiamo.
No, nel racconto di Pentecoste si può intravedere il fatto che i discepoli del Risorto sono chiamati a costruire unità tra di loro e con tutti, per quanto possibile. In germe, cioè, la Pentecoste ci ricorda la vocazione all’unità, l’urgenza e la sfida di un ecumenismo concreto e riconoscibile. Quel che emerge e stupisce è la capacità dei discepoli di parlare a tutti e con tutti. Le diversità rimangono, i Parti non si trasformano in Medi, i Cretesi non diventano Arabi: ciascuno cioè mantiene la propria identità, ma queste diversità, queste distinzioni vengono in qualche modo superate in un’unità più grande. Non vengono scavalcate o semplicemente ignorate, nessuno viene omologato ad altri, in una sorta di appiattimento impersonale; le distinzioni vengono piuttosto integrate, perché ciascuna di esse sia di arricchimento e di stimolo per le altre.

L’immagine del puzzle, forse banale e scontata, può aiutare però a pensare concretamente quello che il testo degli Atti ci presenta con l’immagine dei discepoli che parlano nelle lingue diverse: molti pezzi, tutti molto diversi l’uno dall’altro, ma va sottolineato che i pezzi di un puzzle sono per forza diversi, devono esserlo; e allo stesso tempo è chiaro che soltanto insieme possono dar corpo all’immagine. Ecco la Chiesa! Non omologazione, non appiattimento su un unico profilo, ma integrazione, quasi esaltazione delle diversità di ciascuno, rivisitate dentro l’unità del corpo.
La Chiesa cattolica in realtà già è così: basti pensare alle diversità di riti, di abitudini, di modi di esprimere la fede che si incontrano nei vari continenti. E analogamente anche le Chiese ortodosse, o le comunità anglicane e quelle nate dalla Riforma di Lutero conoscono una varietà al loro interno, una pluralità di stili. E allora cosa resta da fare? Resta l’impegno a trovare una comunione che sia il più ampia possibile tra tutti i credenti in Cristo.
Nell’ultimo secolo, e soprattutto dal Concilio Vaticano II in poi sono stati fatti molti passi avanti nella reciproca comprensione, nell’accoglienza, nella conoscenza e nello scambio tra i cristiani delle varie tradizioni. Il linguaggio dell’amore, del rispetto fraterno e della riconciliazione è quella lingua che tutti i discepoli di Gesù devono continuamente imparare e tener allenata: perché un gesto di riconciliazione, di servizio, di accoglienza, di amore non ha bisogno di traduzione, viene compreso invece in modo assolutamente naturale da quei «Parti, Medi, Elamiti…» che possono essere identificati con i credenti delle varie tradizioni cristiane.
Il cammino che ci porta tutti verso un’unità più piena, che ci permetta un giorno anche di celebrare insieme l’Eucaristia, memoriale della Pasqua di Gesù, è un cammino fatto di passi piccoli ma costanti; è fatto di una continua attenzione e di un continuo sforzo a imparare e a parlare ciascuno la lingua dell’altro. Per scovare tutti gli elementi comuni, per accorgerci che l’inflessione e i termini delle nostre lingue cristiane sono diversi, ma provengono tutti dalla stessa radice, come si nota accostando lingue come il francese, lo spagnolo e l’italiano, per esempio. Gli elementi che uniscono i cristiani, cioè, sono molto più numerosi di tutti quelli che ancora li dividono, e questo non lo possiamo dimenticare: anzi, l’“elemento” più grande attorno al quale tutti ci ritroviamo è il fondamento stesso della nostra fede cristiana: Dio Trinità.
Non è un caso infatti che il Concilio Vaticano II sia partito proprio dalla Trinità di Dio per affermare con forza la vocazione all’unità che coinvolge i credenti in Cristo.

Unitatis Redintegratio, il documento che il Concilio dedica all’ecumenismo, parlando del «sacro mistero dell’unità della Chiesa, in Cristo e per mezzo di Cristo», afferma infatti:
«Il supremo modello e principio di questo mistero è l’unità nella Trinità delle persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo» (UR 2).
Il «sacro mistero dell’unità della Chiesa, in Cristo e per mezzo di Cristo»: il fatto che in Dio convivano l’unità (chi di noi non affermerebbe di credere in un solo Dio e non in una serie di divinità?) e la diversità (dal momento che il Padre non è il Figlio, il Figlio non è lo Spirito, lo Spirito non è il Padre), il fatto quindi che Dio sia una cosa sola ma in tre Persone, questo è più che sufficiente (o dovrebbe esserlo…) per costruire unità, pur rispettando la diversità di ciascuno.
Una diversità in qualche modo necessaria, cosicché ciascuno, guardando all’altro, possa capire meglio se stesso. Unità e trinità di Dio non costituiscono un principio numerico-matematico, parlare di Dio uno e trino non è riducibile ad una unità numerica: Dio è unità di vita, è vita che accoglie la diversità, conosce la distinzione, ma non sa cosa siano frattura e divisione. Penso non sia un caso che la celebrazione di domenica prossima sia proprio la Solennità della SS.ma Trinità.
Quasi a “coronamento” del Tempo di Pasqua, la Chiesa ci invita a immergerci in qualche modo in questa unità nella diversità che è il Dio di Gesù Cristo: per riprendere così il cammino ordinario, per cercare di tradurre nella ferialità ciò che celebriamo nella solennità; per cercare di testimoniare nei fatti la nostra fede in un Dio che è sì uno, ma che è contemporaneamente trino: in un Dio che continuamente ci spinge a cercare tutte le possibili vie di unità tra noi e con tutti coloro che sono creati a immagine e somiglianza (cfr. Gen 1,26) di un Dio così: uno e trino.

 

Tironi Emiliano (1988-1992), Trinità.
Inventario informatizzato delle Diocesi italiane
Diocesi di Bergamo