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Protezione dei diritti dei rifugiati e politiche migratorie (S. Zamagni)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/04


PROTEZIONE DEI DIRITTI DEI RIFUGIATI E POLITICHE MIGRATORIE
di Stefano Zamagni
Una delle più intricate “vexatae quaestiones” di questi tempi relative alle politiche di asilo è stata l’accusa che i richiedenti asilo sono, in realtà, migranti economici che abusano delle norme vigenti. In conseguenza di ciò parecchie e crescenti sono le voci di coloro che propongono di considerare superata la classica distinzione tra rifugiati e migranti per lavoro. Il caso dell’Albania è interessante a tale riguardo, perché è il caso di un paese che ha generato flussi sia di genuini richiedenti asilo sia di migranti lavoratori e la cui recente esperienza è in grado di suggerire come la distinzione fra rifugiati e migranti abbia ancora senso e dunque vada conservata a livello di policy-making. Invero, è errata l’assimilazione di povertà e di insicurezza: la fuga dalla fame è cosa diversa dalla fuga dalla persecuzione. La confusione tra le due tipologie ha avuto l’effetto che è sotto gli occhi di tutti: il rifiuto dei governi del Nord di accogliere le richieste di asilo, con la giustificazione che trattasi di richieste provenienti da persone che scappano dal loro paese per cercare la bella vita a spese di altri, ha condotto alla crisi dell’istituto dell’asilo politico che - come si sa - è un’invenzione tipicamente europea avvenuta agli inizi degli anni ’50. Al tempo stesso, però, occorre resistere alla tentazione di considerare i rifugiati come caso separato e a sè, solo per via dello speciale status legale di cui godono ovvero della natura particolare dei problemi di cui i rifugiati sono afflitti. La tesi qui difesa è che rifugiati e richiedenti asilo devono essere considerati parte integrante delle nuove diaspore di migranti, una parte, tuttavia, dotata di una sua propria specificità e dunque meritevole di speciale attenzione.A partire dagli anni ‘80, si può osservare l’emergenza di un nuovo modello nel modo di considerare le varie categorie di migranti: mentre i migranti lavoratori hanno visto un’estensione dei loro diritti sociali e politici, i richiedenti asilo sono astati oggetto di politiche sempre più restrittive. Certamente, ciò è in parte conseguenza della crescita ragguardevole del numero di richiedenti asilo. Ma la ragione principale è un’altra: per un verso, i rifugiati non sono funzionali al mercato del lavoro dei paesi ospitanti; per l’altro verso, i richiedenti asilo, non avendo la possibilità di organizzarsi a livello collettivo, non sono in grado di esercitare quella pressione politica e quel ruolo di advocacy che è invece possibile alle altre tipologie di migranti. La tendenza ad abbassare progressivamente i diritti e i benefici dei richiedenti asilo è stata favorita dalla retorica della figura di costoro come abusivi o falsi migranti lavoratori. Questa concettualizzazione del problema dell’asilo ha prodotto due conseguenze. Primo, quella di legittimare l’erosione degli impegni nei confronti dei richiedenti asilo. Se la più parte di costoro non sono veri rifugiati ma migranti economici, tanto vale abolire le leggi per i rifugiati e i sistemi di asilo, dal momento che questi non servono più allo scopo per il quale vennero creati. La seconda conseguenza è stata quella di dipingere le politiche restrittive come non discriminatorie sotto il profilo razziale, così da non cadere nella critica del politicamente non corretto. In tal modo, si sono potuti “chiudere” i problemi delle relazioni inter-etniche senza passare per coloro che discriminano in base alla razza. Ciò posto, come conciliare i controlli dell’immigrazione e la protezione dei rifugiati? Come fare a tenere assieme il principio della sovranità dello Stato-principio che si estrinseca nella capacità di questo di controllare i suoi confini e il rispetto dei diritti umani dei richiedenti asilo? Quali sono i principali obiettivi che una politica dei controlli ai confini persegue in generale? Certamente quello del mantenimento dell’ordine pubblico e della prevenzione del crimine; ma anche quello della protezione dei mercati nazionali del lavoro e delle abitazioni. Vi è poi la grossa questione riguardante la difesa del sistema di welfare dal rischio della non sostenibilità finanziaria. Per conseguire questi obiettivi, in sé leciti, sono stati introdotti criteri di ammissibilità sempre più stringenti. Con quale esito? Per un verso, di vanificare, annullandolo di fatto, l’esercizio del diritto di movimento delle persone; per l’altro verso, di alimentare una vera e propria industria specializzata nel traffico di persone. è così accaduto che la richiesta di per sé legittima degli stati di conservare una giurisdizione sovrana sui propri cittadini ha finito con il mettere a repentaglio la protezione internazionale del diritto delle persone di lasciare il proprio paese.Ora, mentre è andata aumentando, nel corso dell’ultimo ventennio, la consapevolezza da parte delle varie espressioni della società civile, e in special modo delle organizzazioni non governative, dell’importanza di assicurare a tutti i cittadini il diritto di uscire da e di rientrare al proprio paese, gli stati hanno accresciuto le difficoltà per rendere fruibile tale diritto, innalzando barriere di vario tipo e natura per scoraggiare le richieste di asilo. Questa posizione prevalse fermamente alla Conferenza delle NU sull’asilo territoriale del 1977, nel corso della quale venne affermato il diritto sovrano degli Stati di concedere o rifiutare l’asilo (Goodwin-Gill, 1996). Eppure, gli obblighi internazionali, derivanti dal diritto internazionale, pongono limiti all’esercizio del potere di uno Stato di escludere i non cittadini. Se così non fosse, quale il senso di una Convenzione come quella di Ginevra del 1951 la quale sancisce che lo status di rifugiato non deriva, nè dipende, da un qualche riconoscimento formale da parte di uno Stato, quanto piuttosto dal fatto che una persona ricada nell’ambito di applicabilità dell’art. 1?Recita, infatti, l’art. 1: “[Rifugiato è chi] a causa di un fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova al di fuori del paese di cui ha cittadinanza e non può o non vuole avvalersi della protezione di tale paese”. Si noti come tale definizione restringa alquanto la portata del concetto di rifugiato che, nel linguaggio comune, è sinonimo di profugo, di chi cioè è costretto ad abbandonare la propria residenza a prescindere dalla causa specifica dell’esodo. Neppure il Protocollo Aggiuntivo di New York del 1967 ha modificato la situazione, anche se esso è valso a rimuovere la cosiddetta riserva geografica, la quale limitava l’applicazione della Convenzione di Ginevra ai soli rifugiati provenienti dall’Est europeo. L’OUA (Organizzazione Unità Africana) nel 1969 ad Addis Abeba accoglie una definizione più estensiva di rifugiato, proprio per tener conto della realtà dei paesi africani. Anche il Colloquio di Cartagena (Colombia) del 1984 finirà con l’includere, tra le cause dell’esodo, “la massiccia violazione dei diritti dell’uomo”. Ma tali innovazioni mai sono state recepite dai paesi del Nord (Iovino G., “Rifugiati e politiche d’asilo in Europa Occidentale”, Bollettino della Società Geografica Italiana, XII, 1999). Ed ancora, quale portata riconoscere all’art.1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che espressamente riconosce il diritto di ciascun essere umano di chiedere asilo?Come si può comprendere non è agevole sciogliere il dilemma ora illustrato; ma è altrettanto ovvio che non è possibile continuare a restare in questa sorta di limbo normativo. La via di uscita è quella di giungere, possibilmente in tempi brevi, al disegno di procedure di asilo che assurgano al ruolo di vere e proprie specifiche norme internazionali. Come l’UNHCR ha più volte ribadito, poiché la Convenzione di Ginevra non indica quale tipo di procedure seguire per la determinazione dello status di rifugiato, il risultato è stato che ogni Stato si è dato quelle procedure che considerava maggiormente appropriate alla sua struttura amministrativa e costituzionale. Di qui l’anarchia che ancora oggi contraddistingue questo settore, con le conseguenze di cui le cronache puntualmente ci danno conto. Un esempio interessante che bene descrive lo stato dell’arte è, per un verso, l’approvazione di standard da parte dell’Unione Europea per accelerare le procedure di asilo e per l’altro verso l’affermazione che le restrizioni nazionali da parte degli Stati membri sono pienamente compatibili con tali standard!Andando al concreto, quali misure adottare al fine di conciliare i controlli sull’immigrazione con l’esigenza improcrastinabile di proteggere i diritti dei rifugiati?Un primo punto da fissare è che l’introduzione dei visti di ingresso, se può servire alle esigenze di controllo dei flussi dei migranti per lavoro oppure per le riunificazioni familiari, certamente genera effetti negativi sui potenziali rifugiati dal momento che nessuno Stato ha mai introdotto un sistema di visti per rifugiato.Secondo, occorre procedere ad una valutazione dei costi diretti e indiretti causati dall’inasprimento delle misure di controllo e ciò al fine di prevenire effetti perversi. Nella misura in cui i controlli all’immigrazione bloccano di fatto l’accesso alla procedura di asilo, occorre predisporre misure ad hoc per i richiedenti asilo.Terzo, nella revisione delle procedure di asilo, occorre bilanciare le ragioni dell’efficienza e quella dell’equità. In particolare, va evitato l’uso di metodiche di accertamento che violano la sfera di autonomia personale del richiedente asilo e soprattutto la sua dignità umana. Ad esempio, le linee guida e i protocolli di azione devono tener conto della sensibilità di genere e della specifica matrice culturale delle persone coinvolte.Quarto, i benefici del regime della protezione sussidiaria devono includere tutti coloro che, pur non rientrando nei criteri fissati dalla Convezione di Ginevra del 1951, necessitano comunque di protezione internazionale. Si tratta di coloro che fuggono dagli effetti indiscriminati della violenza e dei disordini sociali che ne derivano, anche se violenza e disordini provengono da agenti non statali. Gli standard da riconoscere ai beneficiari della protezione sussidiaria devono essere gli stessi di quelli riconosciuti a coloro che godono dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra. (UNHCR, Recommendations for the Danish Presidency of the EU, Ginevra, 2002).Quinto, una procedura formale per la determinazione dello status di rifugiato è lo strumento migliore per distinguere i rifugiati dagli altri migranti. In tal modo, si rende giustizia a chi realmente ha titolo per ricevere lo status di rifugiato e, al tempo stesso, gli Stati si pongono al riparo da arrivi non desiderati, né programmati.Sesto, va affrontata la questione del ritorno di coloro che si sono visti respingere la richiesta di asilo. Il problema principale è che alcuni paesi di origine non cooperano affatto per facilitare il ritorno dei loro connazionali. In casi del genere, chi si è visto rifiutare lo status di rifugiato finisce con il cadere nella rete di coloro che si dedicano al traffico di esseri umani. Occorre dunque rendere operativo il principio del “non refoulement” (non respingimento): i richiedenti asilo, durante il periodo nel corso del quale avvengono gli accertamenti per definire il loro status giuridico, devono essere considerati presunti rifugiati, con tutto ciò che questo comporta.Settimo, allo scopo di impedire il cosiddetto “asylum shopping”, che è causa di ingiustizie, oltre che di inefficienze, è necessario definire regole per l’allocazione di responsabilità allo Stato che è tenuto a decidere in merito all’attribuzione dello status di rifugiato. Relativamente all’Europa, la Convenzione di Dublino del 1990 (entrata in vigore il 1/9/1997) ha adottato il principio della responsabilità esclusiva: per ogni singola richiesta di asilo, proveniente da persona residente in un paese non dell’UE, vi deve essere un solo Stato responsabile cui spetta di esaminare la domanda.