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"Erga migrantes caritas Christi": il nuovo documento della S. Sede sulle migrazioni (L. Petris)
Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/04
“ERGA MIGRANTES CARITAS CHRISTI” IL NUOVO DOCUMENTO DELLA S. SEDE SULLE MIGRAZIONI di Luigi Petris “La carità di Cristo verso i migranti” è il titolo della Istruzione del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, approvata dal Santo Padre in data 1° maggio 2004. Questa Istruzione prende il posto della precedente “De pastorali migratorum cura” (DPMC), pubblicata il 22 agosto 1969, esattamente una settimana dopo che Paolo VI, nel Motu Proprio “Pastoralis migratorum cura”, aveva sintetizzato le indicazioni del Concilio Vaticano II in materia e aveva demandato alla S. Congregazione dei Vescovi “l’incarico di promulgare… una speciale Istruzione”.Dunque la DPMC era un’Istruzione essenzialmente normativa, di tono principalmente giuridico disciplinare, distribuita in sette capitoli di cui soltanto il primo era riservato ai “principi generali” di carattere dottrinale. E già qui rileviamo una notevole differenza dall’attuale Istruzione che rimanda ad una specie di appendice l’Ordinamento giuridico-pastorale costituito da 22 articoli, mentre le quattro parti in cui si sviluppa il documento, con ampia introduzione e conclusione, sono di carattere espositivo e dottrinale: i 104 numeri comprendono la presentazione del quadro generale delle migrazioni (Introduzione), il loro inquadramento nella storia della salvezza (I Parte), la pastorale d’accoglienza (II Parte), gli operatori in una pastorale di comunione (III Parte), le strutture della pastorale migratoria (IV parte), la dimensione missionaria delle migrazioni (Conclusione).Va tenuto presente che fra le due Istruzioni intercorrono 35 anni, un periodo di numerosi e densi interventi da parte della S. Sede sulle migrazioni; basti pensare alle periodiche Congregazioni plenarie del predetto Pontificio Consiglio, ai cinque Convegni mondiali organizzati dal medesimo sulla pastorale migratoria e soprattutto ai messaggi che il Santo Padre invia puntualmente ogni anno da quasi un ventennio in occasione della Giornata Mondiale delle Migrazioni.Non è una voce isolata quella della S. Sede. La Chiesa italiana è tempestivamente intervenuta già nel 1982 (“I nuovi poveri tra noi e il nostro impegno”) quando l’immigrazione come fenomeno di massa era ancora ai suoi inizi, poi nel 1990 (“Uomini di culture diverse: dal conflitto alla solidarietà”) quando stava prendendo forma stabile e strutturale e finalmente nel 1993 (“Ero forestiero e mi avete ospitato - Orientamenti pastorali per l’immigrazione”) per fare un quadro più completo del servizio pastorale della Chiesa verso i migranti. Anche l’Episcopato Francese in un decennio ha emesso tre importanti documenti, l’ultimo dei quali la primavera scorsa: “Quando lo straniero bussa alle nostre porte”; è del marzo 2003 “Orientamenti per i cattolici di altra nazionalità - Una Chiesa, molte lingue e molti popoli” dell’Episcopato Tedesco e del gennaio del medesimo anno il documento congiunto dell’Episcopato Statunitense e Messicano: “Non più stranieri: insieme in un viaggio di speranza”. Sono soltanto alcuni esempi.Perché un nuovo documento pontificio?La nuova Istruzione ci ripresenta in edizione riveduta e aggiornata, in forma organica e sintetica, il ricco patrimonio del magistero di questi ultimi decenni. E di aggiornamento c’è bisogno: infatti il magistero della Chiesa, lungi dall’essere fossilizzato, si sviluppa per un suo dinamismo interno in linea di continuità con la tradizione, deve inoltre costantemente confrontarsi con un fenomeno in continuo cambiamento nelle sue cause, conseguenze, forme e dimensioni ed attende dalla Chiesa risposte il più possibile concrete e puntuali. Interpella la Chiesa già il solo fatto che la mobilità umana oggi interessa direttamente oltre duecento milioni di esseri umani, indirettamente molte altre centinaia di milioni (cf. n. 96), dei quali molti stanno lottando per la sopravvivenza, sono rifugiati o richiedenti asilo, sono vittime della malavita e dello sfruttamento fino alla riduzione in vera e propria schiavitù (nn. 4-5); né la Chiesa può dirsi neutra di fronte a recenti fenomeni, che cambiano volto alle migrazioni, quali la globalizzazione, le nuove rotte del commercio, l’urbanizzazione (cf. n. 30). Altrettanto è una sfida il fatto che le migrazioni, anche se cariche di indicibili prove e sofferenze, hanno un potenziale umano di risorse non solo economiche e demografiche, ma pure culturali e spirituali, che va scoperto e valorizzato in vista di un’umanità nuova (cf. nn. 8, 27). La sfida più impegnativa per la Chiesa è però il fatto che le migrazioni sono areopago di evangelizzazione nel senso più ampio del termine (cf. n. 3 e Conclusione).Protagonismo delle parrocchie nella pastorale migratoriaIl documento della S. Sede come quelli delle Conferenze Episcopali hanno naturalmente per destinatari la Chiesa universale o le rispettive Chiese particolari, però per cogliere i loro messaggi in tutta la loro attualità e concretezza bisogna scendere in basso, a livello di parrocchia, là dove si combatte la buona battaglia vicino alla gente, nella condivisione quotidiana dei loro problemi. Non c’è forzatura nel dire che primi destinatari anche di questo documento sono i parroci e loro collaboratori, come sono i primi destinatari della recentissima Nota pastorale dei Vescovi italiani: “Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia”.Alle parrocchie dunque va in primo luogo il pensiero quando nell’Istruzione si legge con martellante insistenza che le migrazioni sono una “sfida” per la Chiesa (nn. 3,10, 12, 14, 19, 34) o che le migrazioni sono “segno dei tempi” (nn. 12, 14, 18), “kairòs”, (n.34), “appello dello Spirito” (n. 11). Occorre però guardarci attorno e invocare questo Spirito per fare un saggio discernimento di quanto sta già accadendo più o meno lontano da noi.E emblematico l’articolo del teologo gesuita Etienne Grieu “L’Eglise de France prend des couleurs”, apparso su “Etudes” di aprile 2004, che si apre con queste battute: “Le parrocchie dei quartieri popolari stanno vivendo qualcosa che è come una nuova Pentecoste? Nella periferia di Parigi in particolare le assemblee sono spesso molto variopinte: famiglie delle Antille, Africa, Vietnam, Portogallo, India, Sri-Lanka costituiscono spesso la maggioranza. Sono assemblee che contano molto più giovani di quelle del centro città…”. Qualcosa di simile potrà capitare anche in Italia e la consistente presenza di alunni stranieri in certe scuole di periferia, a cominciare da quelle dell’infanzia, ne potrebbe essere il preannuncio.“Prendere il largo” anche per la pastorale migratoriaIn questa situazione (osiamo chiamarla kairòs?) l’atteggiamento più sterile ed autolesionista sarebbe quello dell’allarme e dello schieramento su un fronte di autodifesa che mal si distinguerebbe dal fronte di aggressività su cui sono appostati altri schieramenti di matrice non certamente cristiana. Non illudiamoci, è facile cadere in questa tentazione dello stare in trincea, pronti a rispondere all’avversario; giudizi severi e generalizzati sugli immigrati, barzellette e battute impietose, torbidi umori, “pregiudizi e prevenzioni” (n. 100) serpeggiano ovunque e possono inquinare anche i nostri ambienti. Nessuno intende mettere chissà quale aureola sulla testa dello straniero solo per il fatto che è straniero, né di prendere per partito preso le sue difese, chiudendo gli occhi di fronte a fatti o situazioni scabrose. L’Istruzione è esplicita a riguardo (cf. nn. 40 e 42), ma essa, pur in questo contesto di realismo ben poco idilliaco, ci porta decisamente sull’altra sponda, quella che in linguaggio biblico è detta “Pastorale d’accoglienza” (n. 34ss), “Pastorale di comunione” (n. 70ss) che deve portare a una “cultura dell’accoglienza” (n. 39) e fare dell’operatore pastorale un “diacono della comunione” (n. 98).L’Istruzione non si limita ad affermazioni generali di un certo effetto, che pure non mancano; essa scende nei particolari, avanzando proposte, obiettivi, orientamenti che non sono affatto nuovi, fanno anzi parte di un repertorio che ci è ben noto. Ci fa comunque bene sentirceli ripetere e sentirci confermati da una voce così autorevole sulla linea che già da lungo tempo nella Chiesa italiana si persegue. Non possiamo passare in rivista i singoli punti; scegliamone qualcuno. Al n. 42-43 si parla di accoglienza a un triplice livello:- quello dell’assistenza “piuttosto limitata nel tempo” in casi di urgenza ed emergenza, quasi con interventi di pronto soccorso: “mensa, dormitorio, ambulatorio, aiuti economici, centri di ascolto”;- quello della accoglienza vera e propria: “l’impegno per il ricongiungimento familiare, l’educazione dei figli, l’alloggio, il lavoro, l’associazionismo, la promozione dei diritti civili”;- quello dell’integrazione, che comporta la partecipazione alla vita civile e la promozione nella scala sociale e occupazionale fino a che lo straniero si senta a pieno titolo cittadino fra i cittadini.A questi vari livelli, e particolarmente all’ultimo, si accompagna il confronto e il dialogo, che si ritiene costruttivo e arricchente purché autentico e da ambedue le parti, tra le diverse culture ed anche le diverse religioni (cf. nn. 34-36).Il primato della evangelizzazioneLa Chiesa però, in tutte le sue articolazioni fino a quelle parrocchiali, è cosciente che la forma più alta di accoglienza è quella che risponde al suo compito primario, l’evangelizzazione, intesa anche nel suo senso più originario, quello del primo annuncio ai non cristiani (nn. 59-64), compresi i musulmani (55-58). è via all’evangelizzazione ed ha in sé una forte carica evangelizzatrice anche l’accoglienza al triplice livello sopra enunciato come pure lo sforzo per il dialogo e la comprensione reciproca, ossia tutte le varie forme di promozione umana e di testimonianza della carità nello stile del Vangelo. Talora è necessario o prudente arrestarsi lì, attendendo che lo Spirito di Dio prosegua per vie misteriose la rivelazione del volto di Cristo, altre volte sono i migranti stessi che manifestano curiosità, interesse, desiderio, richiesta esplicita e dicono a loro modo: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12, 21). E doveroso rispondere evangelizzando.Fa piacere che l’Istruzione lo dica con parole quasi identiche a quelle che Orientamenti pastorali della Chiesa Italiana per il primo decennio del 2000 al n. 58 formulava già tre anni fa. Questa la parte centrale del testo: “Nella società contemporanea, che le migrazioni contribuiscono a configurare sempre più come multietnica, interculturale e multireligiosa, i cristiani sono chiamati ad affrontare un capitolo sostanzialmente inedito e fondamentale del compito missionario… quello di “annunciare esplicitamente pure ad essi la Parola di Dio, in modo che li raggiunga la Benedizione del Signore promessa ad Abramo”. Grazie a Dio, non si tratta di lontana prospettiva, ma di felice realtà, come testimoniano le centinaia di battesimi che ogni anno nella veglia pasquale vengono conferiti nelle nostre parrocchie o cattedrali ad immigrati di ogni razza, non esclusi gli islamici. Mi domando quale forte risonanza possa avere nella nostra gente, prima del rinnovo delle promesse battesimali, questo rito dell’iniziazione cristiana conferita ad adulti e per di più stranieri, i cosiddetti “extracomunitari” e quale carica di impegno possa portare nel gruppo missionario o dei catechisti che hanno accompagnato nel cammino di catecumenato questi nuovi fratelli nella fede.Dunque, grazie alle migrazioni, l’evangelizzazione come primo annuncio è a portata di mano delle nostre parrocchie ed altrettanto l’ecumenismo (nn. 56-58): ci fermiamo sul caso degli ortodossi, in particolare dei romeni, ucraini, moldavi che ora a centinaia di migliaia sono presenti nelle nostre città, nei piccoli paesi e perfino dentro a casa nostra: il mettere a loro disposizione le nostre chiese, la cordialità fraterna e solidale dei nostri centri di accoglienza nei loro confronti senza alcuna discriminazione, le caute iniziative di dialogo e di celebrazioni in comune aprono una strada finora inesplorata al cosiddetto ecumenismo di base, che - a quanto già ci risulta - ha una benefica ricaduta anche nel Paese di partenza, dove questo tipo di rapporto è ancora molto acerbo.Esigenza di una pastorale specificaE finalmente accoglienza ai “nostri” immigrati cattolici (49-55), che non sono piccolo gregge, perché stanno portandosi verso la soglia del milione. Sono del gregge di Cristo, ma rischiano di rimanere “pecore sperdute senza pastore”. La precedente Istruzione conteneva un monito che è scomparso dall’attuale: “L’assistenza spirituale di tutti i fedeli, e quindi anche dei migranti,… ricade soprattutto sui parroci, che dovranno un giorno render conto a Dio del mandato eseguito”. Parole di una insolita severità, che potrebbero forse destare una certa inquietudine: come può un parroco italiano conoscere tante lingue, culture e tradizioni da poter dare un’assistenza pastorale adeguata a questa porzione del gregge? Inquietudine tanto sana quanto sarebbe insana la presunzione di un parroco che si sentisse così ben preparato e a capo di una parrocchia così bene attrezzata da poter dare da solo risposta adeguata a chi è tanto diverso. Per fortuna nella Chiesa di Dio sono previsti, anzi sono già all’opera operatori, strutture e cammini pastorali fatti su misura di queste particolari esigenze: è ciò che chiamiamo pastorale specifica per i migranti. Ecco, a sollevare da questa inquietudine, che cosa segue al monito sopra ricordato: “Sappiano perciò (i parroci) condividere un compito tanto grave con il Cappellano o Missionario, quando questi si trova sul posto”. E se non si trova sul posto? Allora scatta l’intesa interparrocchiale o a livello di diocesi, scatta l’intervento del Direttore diocesano della Migrantes d’intesa col Coordinatore nazionale della pastorale per determinati gruppi etnici, scatta un sistema di presenze periodiche o di missioni volanti. Tutte queste possibili collaborazioni si scoprono se c’è l’ardore della missione. Con questo spirito alla sessantina di “cappellanie” o “missioni con cura d’anime” canonicamente istituite dal vescovo diocesano si aggiungono molti altri “centri o comunità pastorali etniche” che hanno ormai raggiunto quota seicento: 80 solo per gli ucraini e 55 per gli albanesi.Siamo grati alla nuova Istruzione che dedica un numero particolare per raccomandare ai Vescovi di incoraggiare la diffusione di questi centri e di dare loro un qualche riconoscimento ufficiale (cf. n. 100). L’Italia, con decine di migliaia di sacerdoti, religiosi e religiose, concentrati a Roma o sparsi sul territorio, si trova in condizione particolarmente favorevole per organizzare questa specie di “volontariato pastorale”, fragile in se stesso, ma estremamente efficace e benefico se sostenuto dall’opera concorde del Coordinatore nazionale, del Direttore diocesano della Migrantes e dei parroci. Non mancano dunque operatori, strutture, percorsi già sperimentati per questa pastorale specifica e l’Istruzione li descrive in dettaglio particolarmente nella II e III Parte, mentre detta le opportune disposizioni nella parte normativa.Per quanto tempo una pastorale specifica?Ora ci domandiamo: quanto durerà questo sostegno della pastorale specifica rispondente alle esigenze del tutto particolari dei cattolici stranieri? Fino alla loro integrazione nelle strutture territoriali della Chiesa locale, nelle nostre parrocchie? La risposta è esatta se viene ben intesa e ci si ricorda che il termine integrazione è tra quelli più equivoci non solo in sociologia ma anche nella pastorale. Può significare, come a noi piace, inserimento originale nella società o nella chiesa, ma anche - purtroppo il più delle volte - esso equivale a livellamento, assimilazione, omologazione (cfr. in Servizio Migranti 2/2004 “La pastorale migratoria ha un limite di tempo?”). Ed allora teniamo presente quanto segue:1. Per molti immigrati il progetto migratorio è, nelle intenzioni e nella realtà, temporaneo, anzi molto provvisorio, ad esempio per la colf dell’Est Europa che ha lasciato in patria due figli minorenni: integrazione ha un certo senso anche per lei, ma molto relativo.2. L’integrazione può essere favorita e sollecitata, ma non imposta e spiace che nella nuova Istruzione non si dica espressamente come nella precedente ( art. 10) che “l’integrazione sarà spontanea e graduale”, senza escludere che diventi “piena”.3. Le esigenze di comunione nell’unica Chiesa locale sono certamente un grande valore ma il “pieno inserimento” (n. 49) nella parrocchia territoriale non è l’unica via per realizzare questa comunione: nella Chiesa, una e cattolica, non va perseguita l’uniformità, ma l’armonizzazione, l’intesa, la collaborazione, ossia l’esaltazione dell’unità nella diversità.4. Certamente è presente il rischio che la comunità o cappellania etnica si chiuda in una specie di autosufficienza e di non comunicazione che la isoli, rischio che si dovrà evitare; ma altrettanto forte è il rischio che la parrocchia territoriale imponga tappe affrettate che porterebbero più a un passivo assorbimento che a una vera integrazione senza il rispetto del “diritto dei fedeli migranti alla libera integrazione ecclesiale” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la GMM del 1986).5. C’è dunque bisogno di tanta attenzione e comunicazione reciproca tra le due parti, di gesti di comunione, di partecipazione a iniziative comuni, di collocazione di queste comunità etniche nelle “unità pastorali” (cf. n. 95) per una “pastorale d’insieme, integrata, organica” (n. 95).Un’ultima annotazione. Nel febbraio 2003 si è celebrato a Castelgandolfo il congresso: “Tutte le genti verranno a te - La missione ad gentes qui nelle nostre terre”; già il titolo ci porta nel vivo delle tematiche che caratterizzano l’Istruzione pontificia e che convergono nel dare risalto al volto missionario delle nostre comunità ecclesiali. Dunque un grande congresso per i suoi contenuti e risultati, ma un altro suo aspetto memorabile è stata la concorde azione che ha fatto convergere diverse Commissioni Episcopali della CEI e relativi Organismi operativi nel programmare e gestire assieme l’evento: questo spirito e stile di collaborazione sono stati colti dall’assemblea ed ha subito preso corpo la proposta di una qualche iniziativa perché simile convergenza si realizzi o si consolidi al di dentro delle singole diocesi fra tutte le forze ecclesiali e di ispirazione cristiana attive nel servizio ai migranti. Dette Commissioni Episcopali e relativi uffici ed organismi stanno muovendosi perché giunga alle diocesi un autorevole impulso a costituire un apposito coordinamento, che può essere chiamato Segretariato o Commissione diocesana per le migrazioni. Con piacere notiamo che l’Istruzione dà un incoraggiamento in questa direzione. Infatti al n. 70 si dice che l’organismo nazionale per la pastorale migratoria “animerà le corrispondenti commissioni diocesane” e all’art. 20, § 1 si fa un passo avanti perché fra i compiti dell’organismo nazionale si pone pure quello di “animare e stimolare le… Commissioni diocesane che a loro volta lo faranno con quelle parrocchiali che si occupano del vasto fenomeno… della mobilità umana”.Per il servizio ai migranti la carità di Cristo ci spinge dunque a organizzarci e ad investire il più possibile in preparazione e forze pastorali, prima ancora ci spinge, ora anche alla luce della nuova Istruzione, a renderci disponibili senza riserve.
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