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Convegno Rom e Sinti: desiderio di comunicare


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 4/04


CONVEGNO ROM E SINTI: DESIDERIO DI COMUNICARE
di Laura Caffagnini
Ad Assisi, dal 4 al 6 giugno, si è svolto il convegno nazionale promosso dall’Ufficio nazionale per la pastorale tra i Rom e Sinti (Unpres) sul tema “Comunicazione: tra Babele e Pentecoste”. Nella sessione introduttiva i saluti del vescovo di Assisi monsignor Sergio Goretti e del direttore dell’Unpres don Piero Gabella -anche a nome del direttore della Migrantes don Luigi Petris-, a cui sono seguiti quelli del cardinale Stephen Fumio Hamao. Il presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, che ha partecipato ai lavori e concluso il convegno con la celebrazione dell’Eucarestia in cui si è ricordato il Vescovo emerito di Caltanissetta Alfredo Garsia, si è augurato che il convegno «possa costituire un passo avanti nella realizzazione di un incontro interculturale nell’attuale società civile e ecclesiale». Nel messaggio inviato ai partecipanti, il Segretario Generale della Cei, Mons. Giuseppe Betori, ha ringraziato «a nome della Chiesa italiana, per la vicinanza a questo popolo ed in particolare per la condivisione di vita che alcuni di voi fanno con i Rom o con i Sinti: è una forma significativa di testimonianza evangelica» e ha sottolineato l’importanza di un «costante dialogo con le comunità ecclesiali. Si tratta di un impegno capace, a sua volta, di generare comprensione con le diversità che andate ad incontrare». Della comunicazione, tema a cui era dedicato il convegno, il Segretario della Cei ha detto che «necessita di una costante interpretazione, anche come fenomeno umano, alla luce della Scrittura e dell’esperienza ecclesiale». Capacità di ascolto, preparazione, rispetto, attenzione al disegno di Dio sulle persone in mezzo alle quali si è mandati, questo, secondo Betori, ciò che si richiede agli operatori pastorali: «solo così sarà possibile promuovere una efficace e costruttiva comunicazione. Dovrebbe essere preoccupazione di tutte le diocesi far sì che quanti sentono la chiamata ad essere missionari, a nome della Chiesa, in tale ambito, vengano accompagnati in modo adeguato nell’approfondimento della loro vocazione». In conclusione l’auspicio che «Sinti e Rom cattolici coscienti della loro fede partecipino, con la loro originalità, alla vita della Chiesa, entrando a pieno titolo nelle associazioni e negli spazi dell’impegno laicale».Queste le premesse a un raduno che ha fatto incontrare e narrare diversi stili di presenza e problematiche, dal sud al nord dell’Italia non escluso il centro: Milano, Torino, Bolzano, Bologna, Verona, Vicenza, Reggio Emilia, Lucca, Pisa, Roma, Cosenza, Agrigento, Sardegna. Operatori delle parrocchie che frequentano periodicamente i campi in servizi particolari; amici e amiche delle famiglie rom e sinte; laici e religiosi, che, singolarmente o in comunità, da decenni -i primi iniziarono negli anni ‘60- condividono la vita nei campi sosta.Nella tre giorni, che si è aperta con cinque interventi di altrettanti operatori pastorali - Pinuccia Scaramuzzetti della Comunità veronese tra i sinti, don Mario Riboldi (Milano), il padre salesiano Federico Schiavon (Udine), Daniele Todesco (Verona), il padre saveriano Agostino Rota Martir (Coltano) - ed ha proseguito con le relazioni del dehoniano Rinaldo Paganelli e della teologa Lidia Sebastiani, hanno convissuto con pari dignità diversi momenti: preghiera comunitaria, relazioni, lavori di gruppo e, al termine, una serata di convivialità con lo scambio dei sapori e dei saperi delle regioni italiane: dal lardo di Colonnata al salame di Felino, al vino friulano e toscano, alla bruschetta toscana, alla soppressata veronese, al parmigiano reggiano e pecorino, ai dolci torinesi. E dopo il cibo storie e danze del mondo.Non è facile sintetizzare la disseminazione di luoghi teologici (Sebastiani), indirizzi pedagogici (Paganelli), idee ed esperienze, che ha caratterizzato il convegno. Proviamo a riprendere alcuni spunti offerti dagli operatori.* La comunicazione come difficoltà, anzitutto. Non è emersa tanto quella tra rom/sinti e gage (i non zingari), quanto tra operatori e comunità ecclesiali che li mandano. Per chi fa parte da più tempo di questa “chiesa tra le carovane”, o comunque ne condivide lo spirito anche in altri ambiti, si crea uno scollamento tra attese di chi invia e obiettivi di chi è inviato. «Noi - come ci ha detto monsignor Gabella, una ricca esperienza, oltre che nella Migrantes, nelle carovane - si comincia a diventare un po’ diversi, ad assumere un linguaggio e un atteggiamento diversi. La chiesa che ci invia attende risultati, conversioni, mentre noi tendiamo a comunicare le meraviglie che Dio ha compiuto in Rom e Sinti. Occorre che ci convertiamo entrambi». Anche nei gruppi di lavoro è emerso il disagio per una relazione mancata tra i laici che vanno nei campi a conoscere e accompagnare, e la chiesa, da alcuni di loro definita “struttura”; una solitudine pastorale che ha delle conseguenze, come ha sottolineato Gabella già in apertura: «di fronte alla mancanza di confronto spesso gli operatori si arrendono e vanno avanti da soli ma così gli zingari rimangono emarginati, non sono accolti da tutta la Chiesa».* Conoscersi. L’importanza e la mancanza di conoscenza come elemento fondamentale per comunicare, è emersa in diversi interventi. Don Gabella: «è importante conoscere da chi andiamo, conoscere non solo la Bibbia ma saperla condividere con persone che hanno altri strumenti di comunicazione». Non si conosce quando - gli esempi riportati sono di Daniele Todesco - si ingabbia l’altro in una etichetta - il Rom come persona speciale, nel bene e nel male -; si chiedono spiegazioni su di lui ad esperti, invece che instaurare un approccio diretto; si cerca di entrare in relazione attraverso la chiave dei bisogni, ma la persona non sono i suoi bisogni; si confezionano di lui immagini “accettabili”: pittore, musicista, ballerino. Pinuccia Scaramuzzetti ha utilizzato la chiave delle parole - parole leggere, quelle dei gagi, parole-azione, quelle dei rom - per dire che la conoscenza delle nostre distanze non deve farci rinunciare alla reciproca comprensione ma «il conoscere qualcosa, pochissimo, gli uni del mondo degli altri può servire ad assumere un atteggiamento di ascolto: si ascoltano le parole ma anche quello che vogliono dire… Prendere coscienza delle distanze per rispettarsi, darsi spazio, avvicinarsi nella sfera emotiva senza volersi omologare, mi sembra una regola di vita che non vale solo per i nostri rapporti con i rom, ma anche per tutti gli altri rapporti, per tutti gli uomini e donne che vogliono fare strada insieme. Ci conosciamo non per conoscere ciò che è uguale, ma per conoscere ciò che è diverso e quindi accostarci gli uni agli altri con la dovuta attenzione».* Fare del male credendo di fare del bene. Un esito che si riscontra spesso, nel volontariato anche cattolico, in nome della famosa parola magica “integrazione”. Ne ha parlato nella sua relazione Agostino Rota Martir, da otto anni nel campo di Coltano (PI): «Lo scopo del volontario s’identifica nel favorire l’integrazione e difficilmente si rende conto dei disagi, a volte veri e propri danni, che crea all’interno della comunità. Il volontario si renderà utile se si lascerà provocare dalla normalità di Rom e Sinti, vedere oltre i difetti, le deviazioni, le condizioni dei campi. Sarà possibile una comunicazione quando scoprirà la sua normalità e la saprà apprezzare e valorizzare». La ricerca di risultati e di soluzioni ai problemi è la zavorra che impedisce di «ascoltare intensamente la vita dell’altro, rimanere, non calcolare il tempo “sprecato”. Si rischia sempre di mettere in primo piano la nostra bravura e generosità e di far emergere i loro difetti».è sempre tempo di partire, dentro e fuori di sé, perché, anche se oggi la presenza ecclesiale tra gli zingari non è più vista come un fatto eccezionale, ma normale, la strada è ancora lunga perché si realizzino profondamente le parole di Paolo VI: «Voi zingari siete nel cuore della Chiesa».