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"L’operatore pastorale Migrantes: valori e principi guida nel suo impegno con la gente in cammino" (P. Gabella) p.XV
Relazione del Mons. Piero Gabella

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/04


Relazione del Mons. Piero Gabella
L’OPERATORE PASTORALE MIGRANTES
VALORI E PRINCIPI GUIDA NEL SUO IMPEGNO CON LA GENTE IN CAMMINO

PremesseNel salutarvi voglio anche chiedere scusa della mia incoscienza per aver accettato questo compito.Non sarà una relazione con competenze scientifiche o teologiche, non fanno per me. Metterò a vostra disposizione, sempre cercando di stare al tema assegnatomi, l’esperienza che ho accumulato in più di trent’anni di presenza tra il popolo dei “Nomadi” e di collaborazione prima nell’UCEI e poi nella Migrantes. Una esperienza, questa, che naturalmente ha il carattere della parzialità: una piccola porzione di Chiesa.Dire che un’esperienza si concretizza in una piccola parte di società non vuol dire che i risultati non interessino o non coinvolgano l’intera società e la totalità della Chiesa. Le minoranze, per tutte le loro diversità, hanno posto quesiti e problemi all’interno di tutta la nazione obbligandone i componenti ad interrogarsi e a rispondere alle difficoltà. Se poi, oltre i problemi e le difficoltà, da questo travaglio nasceranno anche dei benefici, magari anche solo di una conoscenza migliore di noi stessi e della fede che ci sostiene, questi saranno per tutta la società intera.Il tentativo che, con questa relazione, mi sono posto è quello di indicare come il nostro impegno pastorale non è limitato a una presa di coscienza di problemi e ad aiutare la società a risolverli. Esso consiste soprattutto nel convincimento che gli spazi che occupiamo sono spazi teologici: esperienze che, viste alla luce della rivelazione e della tradizione, portano ad approfondire la conoscenza di Dio e del Suo Piano di Salvezza. Essi, spazi ed esperienze, ci permettono di rileggere la nostra fede e la sua concretizzazione nella storia e a partire dalla nostra esperienza riannunciare poi al mondo la “Buona Notizia”. 1) Il Tesoro del discepolo del RegnoLeggiamo in Matteo: Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52). Questo tesoro noi dobbiamo pensarlo come il bagaglio in possesso della Chiesa, segno visibile del Regno: un baule dove noi troviamo cose vecchie e cose nuove (Scrittura, Concili, magistero, esperienza, ecc.) tutte utili al cammino di fede e alla nostra missione. Non dobbiamo inventare nulla di nuovo.Questo immenso capitale non può essere utilizzato, incarnandolo, (rendendolo vita concreta) tutto insieme e allo stesso livello di importanza senza distinguere tempi, luoghi e situazioni concrete delle persone. Il fatto stesso che siamo umani e limitati rende evidente la cosa. Pensiamo ad esempio la valenza del concetto di proprietà privata che è presente nella nostra cultura non ha alcun senso se insegnato in una tribù di Indios dell’Amazzonia.Allora, per trovare e far emergere “le cose” adatte alla strada sulla quale Dio ci ha posto bisogna compiere una discernita.Non c’è bisogno di negare nulla di ciò che non si sceglie ma ciò che si sceglie dona fisionomia, diversifica i cammini, le esperienze, le identità pur rimanendo tutti fruitori dell’unico Baule della stessa Chiesa.La presenza, pastoralmente attiva nella migrazione, ha quindi una sua fisionomia che la distingue chiaramente da altre organizzazioni pastorali. Questa peculiarità permette alla Migrantes, mentre compie la sua missione tra i Migranti, la possibilità di arricchire la vita stessa della Chiesa di un proprio specifico.In altre parole: il comune cammino con le persone del viaggio ci permette di identificare nel tesoro ecclesiale quegli elementi che magari erano passati in ombra o caduti in disuso per vicissitudini storiche ed esperienze diverse ma che sono autenticamente appartenenti al tesoro del Regno.Per esemplificare: La Chiesa per secoli ha vissuto la sua esperienza nella sedentarietà adeguando ad essa il suo pensiero, la sua filosofia di vita e il suo credo. A contatto con l’esperienza dei nomadi è chiamata a riscoprire il proprio essere transitorio sulla terra come qualcosa di essenziale al proprio esistere e al proprio agire per riacquisire la giusta dimensione di creatura rispetto al creatore. Le citazioni in questo senso di Vescovi e conferenzieri si sprecano (io ricordo il Card. Poletti Introduz. Convegno internaz. Per la pastorale con gli Zingari /82 che guardando le costruzioni vaticane affermò: “…abbiamo costruito come se fossimo eterni. I Nomadi ci richiamano al nostro essere passeggeri…”).Scrive A. Paoli citando un articolo di Galimberti (Rocca, 1 luglio 2003 pag. 57) “…si moltiplicheranno quelli che alzando gli occhi al cielo vorrebbero incontrare un Dio meno segnato dalle fattezze dell’occidente, della sua storia, della sua cultura e persino della sua tecnica mediatica…”. “La Chiesa Cattolica è tale perché è universale e annunciatrice di Salvezza per tutta l’umanità. Essa deve, attraverso i credenti, saper accogliere tutte le miserie dell’umanità come base di partenza per il Cammino verso Dio che è in tutti e non è proprietà né a immagine di nessuno”. Chi più di noi, credenti in migrazione, può essere stimolo a questo particolare e farci così apportatori di questa sensibilità all’interno della Chiesa?2) Alcune peculiaritàa) Quale immagine di DioPremessa: Siamo tutti d’accordo che, siccome Dio è l’Altro per eccellenza e “Dio nessuno l’ha mai visto”: (Gv 1, 18), noi viviamo la nostra esperienza di Dio e nello stesso tempo Lo trasmettiamo attraverso il limite delle immagini. Lo stesso Gesù è l’Immagine del Padre. L’immagine che l’uomo può concepire e che trasmette nella sua esperienza religiosa, non può mai esaurire la realtà di Dio. Essa sarà sempre parziale sottolineando di volta in volta alcune caratteristiche e lasciandone in ombra delle altre.Elemento importante, direi fondamentale, che si impone con prepotenza in chi opera nella Migrazione è l’immagine di un Dio che chiede a gran voce giustizia: “cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia…” (Mt 6, 33).Giustizia che è la logica conseguenza di un’ altra verità: la sua Paternità universale (per tutta l’umanità, poveri in testa). Sono queste le verità che motivano fino in fondo la nostra presenza e il nostro impegno pastorale: “Lo Spirito è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio…” (Lc 14, 16 ss). Per un povero quale può essere “lieto annuncio”, segno che il Regno sta per cominciare, se non quello che i rapporti fra gli uomini stanno cambiando affinché: “…in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra” (1 Cor 12, 13-14). In un corpo le membra donano quanto hanno ricevuto in beneficio di tutto il corpo e traggono il loro bene dallo stato ottimale del corpo stesso: “Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1 Cor 12, 21-27).Penso che un mio commento sia superfluo. Mi permetto solo una annotazione: a mio modesto parere, e non solo mio, la strada che la nostra società sta percorrendo va in senso contrario alla direzione che la lettera di Paolo ci ha indicato.Arturo Paoli, dei Piccoli Fratelli di Gesù, scrive in un articolo apparso su Rocca 15 ottobre 2003: “ Pensandoci bene, questo occidente…è quel mondo da cui dobbiamo metterci fuori, è quel mondo a cui il nostro Maestro ci ordina di non appartenere. Il paradosso cristiano si trova in questa apparente contraddizione: il figlio dell’uomo viene fra noi con il progetto di salvare il mondo mosso da un amore per il mondo che lo spinge a morire come uno schiavo sulla croce, perché non è del mondo, del mondo del potere, della competizione, della violenza”. Sono parole molto forti ma non si può negare ad esse un fondo di verità.Esemplificazioni:- La Migrantes ha nel bagaglio della sua memoria l’esperienza delle umiliazioni, delle ingiustizie, delle discriminazioni, delle fatiche ecc. che i nostri italiani hanno subito quando per guadagnare il pane sono andati all’estero a compiere lavori che altri non ritenevano più dignitosi e redditizi per loro.- A Striscia la notizia del 04/02/04 un servizio ha mostrato come nella Milano di oggi ci sono persone che si alzano alle quattro del mattino per ottenere una giornata di lavoro, come manovali, attraverso il caporalato senza sapere quanto gli sarà dato di compenso la sera.Potremmo continuare con una litania infinita ed ognuno di noi ne avrebbe da aggiungere tantissimi di questi fatti in lungo e in largo (nazionali ed internazionali) e con gravità ben superiori ai quelli da me citati. Il problema è che oggi non ci si scandalizza più! Si prova compassione con belle parole ma non c’è speranza (qualche volta volontà) di cambiare; magari ci giustifichiamo citando anche il Vangelo: “...i poveri, infatti, li avrete sempre con voi…” (Gv 12, 8).Siccome la porzione di umanità presso la quale siamo chiamati a svolgere il nostro ministero è la parte che vive nella sofferenza di ragguardevoli ingiustizie, è impossibile per noi non ricercare nel volto di Dio e nell’Incarnazione della sua Immagine, Gesù il Cristo, quegli aspetti che rivendicano giustizia come linee fondamentali per una fede vissuta. Nel nostro ambito, se questo elemento viene lasciato in ombra, tutto il vivere di fede diventa vuoto: “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9,36). “Nella Bibbia la figura del Pastore ha sempre un senso politico-religioso; Pastore si potrebbe tradurre oggi come responsabile della società” (A. Paoli Rocca 15/03/03 pag. 54).Certo siamo pienamente coscienti che i problemi non sono né semplici né di facili soluzioni. Sicuramente, e deve essere chiaro, noi non abbiamo e non vogliamo avere il potere politico per imporre le nostre soluzioni, ma la tensione profonda che il Dio della Bibbia crea in noi su queste tematiche deve farci portare in evidenza il senso vero della giustizia e renderla parametro di misura sulla veridicità del nostro credere e dell’agire politico. Questo aspetto non è solo eredità biblica ma è bensì tesoro ecclesiale. Qualche volta, per difficoltà oggettive o per convenienze e connivenze, non lo si è fatto emergere con sufficiente chiarezza.Dobbiamo su questo punto fare ancora una annotazione. Quanto detto, può sembrare la scoperta dell’acqua calda. Le mie, come tante altre parole presenti nei documenti della Chiesa, nelle nostre omelie e nei convegni, sono state spese a iosa. Anche la politica abbonda di buoni progetti e intenzioni tutte ispirate a giustizia ed equità ma i risultati sono contrari alle intenzioni proclamate. La famosa forbice tra chi si può permettere sempre di più e di chi fa fatica a sopravvivere diventa ogni giorno più evidente. E Gesù stesso che ci ammonisce: “Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23, 3-4).b) Riconoscere l’altroPrendiamo come punto di partenza il biglietto di auguri per il S. Natale che la Migrantes ha spedito a tutti i collaboratori e a tutti gli amici: una Madonna con Bambino che ha la fisionomia chiara e indiscutibile di una zingara con bambino e sotto la scritta: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio” (Mt 10, 32).Quando si parla di migranti (in tutti e cinque i settori) i termini che si usano più frequentemente sia dagli operatori sociali che ecclesiali sono: aiuto, accoglienza, tolleranza, sostegno, comprensione, condivisione, integrazione, ecc. Pur non negando la positività degli atteggiamenti che scaturiscono da questi vocaboli (che sono anche indice di apertura e sforzo di essere accanto ai problemi di chi è in necessità) vi è sempre, in essi, un inconscio senso di superiorità di chi è arrivato ed aiuta gli altri ad arrivare, di chi possiede ed è generoso nei confronti dei bisognosi, ecc. Vi è la possibilità di un passo ulteriore che si può compiere e che ci metterebbe in asse con lo spirito del Vangelo.Gesù parla di “essere riconosciuto”: Non credo che Egli intendesse nella sua fisionomia somatica. Le sue parole indicano, di certo, un grado molto più profondo di conoscenza. Egli chiede che lo riconosciamo sul piano della suo “Essere Divino”, con una missione particolare (Messia) e nella verità che è venuto a portare. In seconda istanza però, ma non seconda per importanza, chiede di essere riconosciuto così come Lui ha deciso di presentarsi secondo il disegno del Padre: nasce bambino per una strada umanamente scandalosa, riconosciuto e visitato dai pastori, fuga in Egitto, si fa capofila dei disperati della terra (Beatitudini), contestatore implacabile dei poteri allora vigenti quando diventano violenza e non servizio, condivide nella morte la sorte dei malfattori.Tutto ciò è disegno del Padre, scandalo e vergogna per gli uomini: “Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1 Cor 1, 21-23). Riconoscere allora vuol dire accogliere attraverso un atto di fede.Se fosse toccato a noi decidere la Salvezza, avremmo sicuramente fatto un progetto diverso magari più riconoscibile secondo i canoni della sensibilità religiosa corrente. Un progetto pieno di compromessi nella speranza che il futuro possa portare a maggior fedeltà a Dio, fatto qualche volta di deresponsabilizzazioni personali in favore di osservanze e obbedienze. Il figlio dell’Uomo si è presentato così, a noi spetta semplicemente riconoscerlo senza glosse.Questo atteggiamento o atto di fede è fondamentale, secondo me, ad ogni operatore Migrantes nell’incontro con l’ “altro” portatore di diversità: prima di tutto riconoscere! I popoli, le etnie, i singoli, la loro storia, la loro fede, in una parola, ciò che il loro cammino durante i secoli ha fatto sì che si evolvessero così, tutto questo porta in sé, oltre la debolezza umana, il progetto di Dio. Lui li ha pensati, progettati, voluti e amati e seguendoli li spinge all’incontro con le altre esperienze umane perché si compia la realizzazione del Suo Regno. S. Paolo parla di “doglie del parto”. Essi non sono un nostro progetto! (casomai l’opera umana è stata quella di deturpare il creato e le creature). Innanzitutto, allora, è importante riconoscere per poi poter esigere di essere riconosciuti. Accettarci vicendevolmente nelle nostre diversità, nei nostri peccati e nei nostri diritti di creature, scoprendo e contemplando con rispetto il progetto divino presente in tutti, è l’unica strada che può permettere la convivenza pacifica.Su questa base poi si possono attivare reciproche solidarietà e assistenze che non sono mai un concedere ma bensì un’esigenza profonda dell’esistere (…ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre,… dice Paolo). Ricordiamo, e la storia ce lo insegna, che nel tempo le situazioni possono anche cambiare ribaltando le posizioni: “ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi” (Lc 1, 52-53).E strano come siamo andati in tutto il mondo a portare il Vangelo ed ora che il mondo è venuto da noi abbiamo tanta difficoltà e tante paure. C’è qualcosa che non quadra! Quanto ho detto è un mio primo timido tentativo di cercare una risposta a questa contraddizione, analizzando i nostri atteggiamenti.c) Esperienza dell’essere forestiero:“…perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dei, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dá pane e vestito. Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto” (Dt 10, 17-19).Questo famosissimo testo ci introduce egregiamente all’argomento che vogliamo affrontare con l’intento ancora di privilegiare un valore che è ben presente nello spirito del Vangelo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù ,il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 5-8), valore che deve trovare negli operatori Migrantes una sensibilità attenta, non sempre presente nell’ambito della comune pastorale. A mio parere dovrebbe anche avere una precedenza all’interno della formazione stessa dei credenti e dei piani pastorali diocesani e parrocchiali.Vivere una esperienza vuol dire farci plasmare interiormente dalla vita, dai sui problemi, dalle sue gioie e dalle sue sofferenze. Quando l’esperienza è diversa dalla nostra storia personale ci dona anche la possibilità di portare in noi punti di vista e sentimenti prima sconosciuti. Questa è una delle strade più vere per conoscere e capire le ragioni dell’altro in particolare quando queste si presentano come assolutamente incomprensibili. Essa fa vivere in noi le sofferenze e le ragioni che determinano atteggiamenti altrimenti inspiegabili. Questo fatto ci rende capaci di divenire solidali con l’“altro” nel cammino di liberazione e la spiritualità che ne deriva carica di significato il Piano della Salvezza.Come si caratterizza l’esperienza, del forestiero, del diverso, dell’altro ecc. (campo del nostro impegno pastorale) e che possiamo fare nostra? Innanzitutto egli sperimenta la generosità della nostra società cristiana misurandone la sincerità e la genuinità. Chi ha provato a vivere la carità ricevuta oltre gli aspetti positivi sa anche i limiti e le mortificazioni. Più in generale, egli è colui che è privo di voce, che vive di quanto gli concede la generosità della maggioranza, è il parafulmine sul quale finiscono le scariche di tutti i mali di una società, catalizzatore di ogni diffidenza, in alcuni casi e per alcuni gruppi, è colui sul quale si può ragionare scaricando le nostre paure senza alcun ritegno riguardo alla sua dignità. Ancora, è colui che non si può difendere perché manca di credibilità. L’ “altro” che andiamo ad incontrare, allora, vive con abbondanza queste povertà. Esse sono il suo pane quotidiano che alimenta sentimenti di inferiorità, di sottomissione e spesso fa sorgere rabbia, rancori e ribellioni, furbizie, imbrogli e illegalità.Per il nostro credo, è Dio stesso che interviene, e da sempre, per la difesa di queste categorie. Egli chiede a quelli che credono, come Lui ha fatto con l’Incarnazione, di sentire il sapore amaro della vita per interpretare fino in fondo i sentimenti di quelli che Lui ha liberamente scelto di amare perché, io penso, di questo ci sarà chiesto conto (cfr. Mt 25, 31-46).Vi sono però degli aspetti che portano più in là il discorso e che mi preme sottolineare:a) La presenza: S. Francesco, dopo l’impegno assistenziale con i beni del padre, chiede ai suoi frati di assumere la condivisione con i poveri come stile di vita che permette di sperimentare ed attuare la “Minoritas”: Essere nulla accanto a chi è socialmente nulla. Chi non ha la possibilità di fare, di agire comprende meglio l’importanza dell’essere: Non posso fare niente ma sono qui con la mia vita, mi accompagno a te. Nella nostra cultura dell’efficientismo questo è un concetto molto difficile da comprendere ma nella strategie di Dio è sempre stato presente e fa parte integrante della teologia. A mo di esempio citiamo la storia di Giobbe: Giobbe conosce il Dio dispensatore, per meriti, di beni (Dio tappabuchi, Bonhöfer). Perde tutto e i suoi amici (teologi) presentano un Dio giustizialista che punisce per le colpe commesse. Giobbe si ribella e chiama l’Altissimo in giudizio. Dio dimostra la sua presenza amorosa in tutto il creato. Giobbe comprende di non essere più solo ma, nella sua disgrazia, è sostenuto dall’Amore. Esserci, condividendo, è infinitamente più efficace nell’aiutare a portare una croce che non il fare (pur necessario) anche se è difficile comprenderlo fino a quando non se ne fa l’esperienza.b) Uomini di pace: …Gesù, chiamatili a sé, disse: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20, 25-28). Non credo che la situazione di “servo e schiavo” fosse solo una scelta per una speciale penitenza che porta a perfezione la vita del singolo scontando i peccati con la sofferenza e l’umiliazione. L’umiltà vera, nella creatura umana, rende capaci di rapporti liberi da arrivismo, da soprafazione e da egemonia, favorendo il cammino di pacificazione.c) Comprensione del Vangelo: è diverso leggere il Vangelo immersi nel margine sociale dove la lettura e la comprensione si arricchisce di una vivacità tutta speciale e dona un senso che è in totale alternativa con la logica del mondo: Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!»... «Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» (Gv 13, 6-9 e 12-17).d) Affidarsi a Dio: se non hai appoggi potenti, se non puoi contare sui poteri umani, saranno più evangeliche le strategie e verrà spontaneo l’affidarsi a Dio. Così si prende coscienza che il nostro impegno ha valore solo se lasciamo a Lui la libertà di guidare la storia. “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12, 25).e) La legge del seme: La conversione dell’umanità è opera dello Spirito infuso negli individui ed è efficace secondo un misterioso Piano di Salvezza che il Vangelo ci ha rivelato: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto…” (Gv 12, 24). Yehudah Ha-Lewi, poeta e filosofo ebreo si esprime sulla stessa linea: “Dio ha in noi un mistero e una sapienza simile a quella che vi è nel chicco di semenza, cade a terra, e apparentemente non cambia, e si trasforma in terra, acqua e sterco, per quanto sembra a chi lo guarda; però è il chicco che muta la terra e l’acqua nella sua natura, e di grado in grado converte gli elementi alla somiglianza della sua sostanza, e getta fuori la corteccia e le foglie; e quando il cuore è puro e degno che risieda in esso quel principio e la forma del seme primitivo, quell’albero farà un frutto simile al frutto da cui il seme deriva…”.Sono cosciente che il discorso fatto non può essere generalizzato, sarebbe una grave leggerezza. La mia intenzione è quella di sollecitare affinché non si disperdano queste che sono qualche cosa più che suggestioni. La Migrantes è uno dei luoghi in cui si possono tenere vive e sostenere adeguatamente questo tipo di esperienze riversando poi, all’interno del corpo ecclesiale e sociale, la spiritualità che ne scaturisce.ConclusioneVi sono altre peculiarità che andrebbero richiamate e che il tempo non permette di svolgere in questa occasione:1) Operatori come persone ponte;2) Normalità della missione;3) Essere sentinelle;4) Costruttori di pace.L’ambito della Migrantes è uno spazio privilegiato ed immenso per approfondimenti e aperture di nuove visioni pastorali. A noi spetta percorrere questi cammini verso un futuro di Chiesa annuncio di novità.