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La pastorale migratoria ha un limite di tempo? (L.Petris) p.119
Riflessione su una lettera del Vescovo di Brooklyn

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/04


LA PASTORALE MIGRATORIA HA UN LIMITE DI TEMPO?
RIFLESSIONE SU UNA LETTERA DEL VESCOVO DI BROOKLYN
di Luigi Petris
La lettera che Mons. Nicholas DiMarzio, Vescovo di Brooklyn, ha inviato nel novembre u.s. alla Migrantes (cfr. questo numero di Servizio Migranti 2/04, pagg. 111-118) riteniamo meriti un attento esame da parte di tutti gli operatori pastorali ed in particolare di quelli impegnati direttamente con le persone a vario modo coinvolte nella mobilità umana. La Migrantes inoltre è chiamata a rispondere a proposte puntuali cui è impossibile sottrarsi senza venir meno ai suoi fondamentali fini istituzionali. Qui presentiamo solo alcuni punti di riflessione.Necessità di una pastorale specificaTutta la lettera fa toccare con mano la profonda convinzione del Vescovo DiMarzio sulla necessità di una pastorale specifica per gli immigrati e nel nostro caso per gli emigrati italiani. Egli scrive che “la mancanza di una pastorale estesa, fatta specificamente per gli italo-americani, rappresenta per la Chiesa una nuova sfida di evangelizzazione”. Trattasi però di una affermazione, se pur importante, generica che in fondo può trovare quasi tutti d’accordo.Lo scandalo di questo scritto, che dovrebbe scuotere e mettere in crisi non pochi operatori pastorali, è quando il vescovo fa ben intendere che da questa pastorale specifica non sono escluse la 6e-7e generazione: “la situazione attuale dell’esperienza italo-americana si focalizza sulla 6a-7a generazione di persone che sono titolari di doppia etnicità”, e sostiene che “l’ostacolo principale che si estende dalla seconda fino alla sesta generazione di italiani, è la loro mancanza di una giusta valutazione della loro ricchezza culturale, che rappresenta la loro eredità. Uno sforzo concertato deve essere fatto per ri-educarli nella loro cultura. Questo indubbiamente potrà indirizzarli verso la nostra fede cattolica”.Esagerato? No, coraggioso nel dire quello che pensa ed in cui crede. Inoltre la sua esperienza di vita incarnata nella storia della sua stessa persona gli permette anche di poter sostenere che “maggiore integrazione non significa necessariamente minore etnicità. Molti gruppi di immigrati, inclusi gli italiani, hanno potuto mantenere la loro etnicità pur diventando nello stesso tempo parte integrante della grande cultura americana”.Problema complessoBen sappiamo che il rapporto tra integrazione ed identità etnica è difficile, complesso, spesso strumentalizzato ed espresso con termini che relatori ed ascoltatori riempiono di contenuti contraddittori. Forse anche per questo motivo, e cioè per fare un po’ di chiarezza, il primo messaggio steso direttamente da Giovanni Paolo II in occasione della Giornata Mondiale delle Migrazioni nel 1986 ha affrontato questo tema esprimendosi in questi termini: “Il diritto dei fedeli migranti alla libera integrazione ecclesiale”.Libera integrazioneIspirandosi ad un passo della Costituzione pastorale Gaudium et Spes (nr. 58) che invita le Chiese particolari di accoglienza a prendere nella debita considerazione l’integrazione ecclesiale degli stranieri “nel rispetto dell’esercizio del diritto di libertà”, il Messaggio ripete quasi con ossessionante insistenza il concetto della libera integrazione dei migranti.In altre parole non spetta ad alcuno fissare date e tempi di scadenza per l’integrazione di una persona o di un gruppo etnico. è diritto fondamentale del singolo e del gruppo decidere con libertà il momento della sua integrazione. Parola questa, lo ripetiamo, ambigua, che può significare un concetto accettabile di inserimento originale nella società, ma che il più delle volte equivale all’assimilazione, all’omologazione, al livellamento. Chi non ha detto o sentito dire “Sono ospiti, si devono adattare, devono accettare le nostre tradizioni!”. Per questo motivo la maggioranza degli operatori pastorali italiani tra i nostri emigrati se non hanno bandito il termine integrazione, lo usano a malavoglia preferendo ad esso quello di comunione, che riporta alla comunione trinitaria, ove sussiste la più perfetta unità ed identità delle tre Persone divine.Compito dell’operatore pastoraleTradotto in prassi pastorale questo concetto di libera integrazione dovrebbe far comprendere all’operatore pastorale che non spetta a lui determinare i tempi dell’integrazione. Suo impegno è quello di far compiere una autentica esperienza cristiana al migrante ed alla comunità che l’accoglie. Questa è innanzitutto un’esperienza di vera fraternità e di profonda comunione. Quando uno straniero o un intero gruppo etnico si sentirà accolto, stimato, valorizzato, allora l’integrazione sarà una logica conseguenza, si realizzerà spontaneamente. Se invece si è costretti ad accettare un’ospitalità che tiene le distanze, che fa ben intendere chi è superiore e chi deve adattarsi, non parliamo poi se si respira l’aria di imposizione di chi si ritiene padrone a casa sua, allora si assisterà - di ben che vada - ad una integrazione forzata, cioè superficiale, labile. In verità si tratterà di nessuna integrazione se questa va intesa come la partecipazione ad un progetto comune di vita.E stato dato un giudizio inequivocabile al riguardo da parte del Papa sempre nello stesso Messaggio del 1986: “Nell’ambito dell’emigrazione, ogni tentativo inteso ad accelerare o ritardare l’integrazione o comunque l’inserimento, specie se ispirato da una supremazia nazionalistica, politica, sociale, non può che soffocare o pregiudicare quella auspicabile pluralità di voci, la quale scaturisce dal diritto alla libertà d’integrazione che i fedeli migranti hanno in ogni Chiesa particolare,... l’ecclesialità specifica che i migranti portano... non diviene motivo di alienazione e di estraniamento... ma pone in evidenza, in concreto, la cattolicità della Chiesa...”.Quale ghetto condannare?Certamente c’è il pericolo dell’isolamento, dell’isolazione, del ghetto. Ma questo pericolo non deve tranquillizzare la coscienza a chi impedisce il libero esercizio dei diritti fondamentali delle singole persone e dei gruppi etnici. E poi perché ricordare sempre e solo il piccolo ghetto dei deboli talvolta costretti a ciò per difendersi e sopravvivere, e dimenticare il grande ghetto delle maggioranze, dei potenti, che democraticamente creano muri divisori ed ergono steccati che rendono ardua se non impossibile un’integrazione libera ed originale?La mia lunga esperienza di lavoro tra gli emigrati in Germania - nazione che pure ha costruito un’esemplare rete di assistenza e di promozione religiosa (con le Missioni Cattoliche Italiane e straniere) e sociale (con la Caritas) - mi aveva fatto pensare che forse il carattere dei suoi cittadini e la sua tradizione, che tutto vuole preciso ed ordinato, erano determinanti nel voler cercare un’integrazione “a tutti i costi”. La mia era un’ingenuità. Col tempo conoscendo altre realtà - come quella della Francia, della Svizzera, del Belgio, della Gran Bretagna, ecc. - mi sono convinto che questo è un problema di rapporto tra maggioranza o minoranza. In tutte le nazioni la maggioranza si crede autorizzata - in fondo si decide democraticamente, a maggioranza - ad agire se pur con modalità diverse ad una integrazione il più celere possibile, soprattutto per le seconde ed altre generazioni. In Italia c’è il rischio di percorrere la stessa strada, senza tener conto dei diritti delle minoranze che non vanno viste come un male da sopportare il più breve tempo possibile, ma come un valore che arricchisce la nuova cultura che va formandosi nel paese di accoglienza. Da noi si lavora con grande buona volontà in questo ambito pastorale ma spesso come si fosse i primi ad affrontare questi problemi che la Chiesa ormai da oltre un secolo vive, sbagliando, correggendo, migliorando la sua prassi pastorale.è lungimirante e da tener presente come la Chiesa abbia saputo modificare la sua indicazione pastorale su questo punto. Nella Exsul familia del 1952 si dice che la pastorale specifica vale solo per la prima generazione. è singolare, e certamente non casuale, che nel primo documento post-conciliare la De pastorali Migratorum Cura (1969) si affermi: “Appare quindi evidente e risulta confermata l’opportunità di affidare la cura dei migranti a sacerdoti della stessa lingua e ciò per tutto il tempo richiesto che dia vera utilità” (DPMC, nr. 11). In teoria quindi non c’è limite di tempo per una pastorale specifica: saranno coloro che si integrano già nella prima generazione e coloro che vorranno mantenersi legati alla loro identità culturale anche dopo varie generazioni. Le singole persone e un gruppo sono i portatori ultimi di questa decisione, ben sapendo - come già detto - che questa identità va vissuta nel nuovo contesto con l’inserimento nella nuova società e nella nuova Chiesa di cui si fa parte.Sono consapevole che molte affermazioni qui fatte andrebbero riprese ed approfondite. In parte è già stato fatto anche da altri servizi apparsi sulla nostra rivista. Continueremo a porci questo impegno di approfondimento come prioritario, consapevoli che ogni problema pastorale va affrontato con il supporto biblico, teologico e della scienze umane.Chiudo con le parole con cui il Card. Carlo Maria Martini, allora Arcivescovo di Milano, ha esordito nel suo intervento durante il Consiglio Episcopale Permanente della CEI del marzo 2002, che aveva all’ordine del giorno anche gli “Orientamenti per l’istituzione di strutture pastorali a servizio di cattolici immigrati in Italia”: “Nell’affrontare questo tema-problema dobbiamo innanzitutto essere coscienti che ancora come Chiesa non siamo coscienti dell’importanza che il fenomeno migratorio ha per la nostra Chiesa”. Un invito all’umiltà, a voler sapere di più in profondità anche dell’esperienza secolare di questa Chiesa di cui facciamo parte, esperienza che può essere molto utile alla nostra buona, ma limitata, volontà di ben operare”.