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Migrazioni: svelano la consistenza della fede


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/03


MIGRAZIONI: SVELANO LA CONSISTENZA DELLA FEDE
UNO SGUARDO A MONTE DELLE ODIERNE PAURE E CONFLITTUALITÀ VERSO GLI IMMIGRATI E ALCUNE RIFLESSIONI SUL CHE FARE PER SUPERARLE (ALMENO NELLA COMUNITÀ CRISTIANA)
di Piersandro Vanzan
Chi non ricorda la bagarre massmediale e le strumentalizzazioni degli opposti schieramenti partitici quando, a fine maggio 2003, l’operazione «Alto impatto» -condotta dalle forze dell’ordine nella provincia di Caserta, in particolare sul Litorale Domitio, per colpire spacciatori e trafficanti di prostitute imperversanti su quel territorio - di fatto infierì su molti africani che, estranei al giro della malavita, erano però colpevoli di non avere ancora ottenuto il permesso di soggiorno? Un illecito amministrativo, quello della tardata regolarizzazione (spesso dovuto alla macchina burocratica), diventava così un reato penale, con tutte le conseguenze sul piano della repressione e della sanzione che ciò comporta1. Di fronte a questo stato di cose, i missionari comboniani di Castel Volturno, dove hanno la cura della Parrocchia S. Maria dell’Aiuto e gestiscono un Centro di accoglienza per immigrati, caduti nel vuoto altri tentativi, hanno protestato clamorosamente: incatenandosi all’inferriata del Palazzo sede della Prefettura e della Questura di Caserta (4 giugno 2003).Fu un’azione ecclesiale non violenta che, da iniziale protesta, si andò evolvendo in una serie di incontri, analisi e proposte, non solo tra realtà ecclesiali ma anche tra queste e le Istituzioni pubbliche, di cui ora troviamo eco autorevole nel XIII Rapporto sull’Immigrazione2, dove vengono indicate alcune serie questioni che anche il Governo non può disattendere - quali, per esempio, il non facile coniugare solidarietà e legalità, o le procedure di ricongiungimento familiare, o il diritto d’asilo, le politiche d’integrazione, ecc. -, né pretendere di risolvere con operazioni di polizia. Se infatti è chiaro che l’illegalità è incompatibile con una ordinata vita civile, e che vanno perseguite le forme di criminalità organizzata, è altrettanto vero che la legislazione è sempre in fieri e perfezionabile, stante il continuo mutare del fenomeno qui a tema; e che, inoltre, nel caso particolare sarebbe di grande giovamento una più stretta collaborazione tra il Governo e le Istituzioni ecclesiali quali Caritas, Migrantes e altre. Merita infatti ricordare che i 3.000 centri di ascolto della Caritas e i mille altri punti d’incontro ecclesiali - specializzati nel dare informazioni circa la normativa italiana ai loro assistiti e nel cercare di far loro recepire le possibilità ivi contenute - non solo coniugano «legalità e solidarietà» ma anche, disponendo di informazioni che sovente gli Enti pubblici non hanno, favoriscono sia maggiori sinergie tra pubblico e privato, sia un migliore aggiustamento della legislazione esistente.In questo articolo però vorremmo riflettere sull’entroterra psicosociologico, culturale e religioso della gente e, scandagliandone gli opposti atteggiamenti (talvolta di paura e rigetto, talaltra di accoglienza e fraternità), cogliervi i lati positivi da sviluppare e quelli negativi da contrastare. Infatti, nell’esperienza quotidiana troviamo fittamente intrecciati sia vaghi ma complessivi e forti sentimenti di paura verso l’altro/il diverso, sia generose ma altrettanto vaghe spinte a non respingere e magari accogliere l’altro/il diverso. Abbiamo così da una parte i vari fenomeni o episodi d’intolleranza, che sfociano poi in manifestazioni di piazza e aggregazioni partitiche xenofobe; dall’altra i sopra ricordati 3.000 centri di ascolto della Caritas e i mille altri punti d’incontro ecclesiali, specializzati nell’aiutare gli immigrati. Spinte e controspinte ben intercettabili sia nelle relazioni interpersonali e di gruppo, sia in quelle tra culture e nazioni, sicché bisogna intervenire con molta acribìa (fatta di scienza e coscienza) e altrettanta tenacia (senza pretendere di vedere i frutti a breve) per evitare il peggio.Un peggio che, a livello di relazioni interpersonali, significa le accennate conflittualità e tensioni, propedeutiche (nel caso in esame) alla xenofobia che ostracizza l’altro, il diverso, mentre a livello socioculturale e degli interessi commerciali, o delle supremazie nazionali, abbiamo le intriganti contese affinché il forte/ricco prevalga sul debole/povero, come vediamo nella triste parabola del colonialismo (in tutti i sensi) e nel frequente suo culminare in guerre vere e proprie. Fatte le debite proporzioni, in filigrana ai due livelli suddetti trapela qualcosa che è simul profondamente umano (l’anelito della pace) e gravemente malato (il cupio dissolvi della guerra). Concretamente, è umanissimo e normale cercare propri spazi - familiari, etnici, socioculturali - e costruirsi un proprio mondo, a tutela della propria identità, dato che non si può vivere sempre in piazza o da nomadi assoluti. E in quel mondo protetto attecchisce la pace: familiare e di gruppo. Ogni clan, tribù, popolo ha quindi bisogno di affermare il proprio «io» nei propri spazi, e lì costruirà la sua pace; ma ciò avviene necessariamente delimitando l’«io» degli altri clan e popoli, i quali peraltro hanno costruito analoga pace nel loro spazio (territorio o nazione).Sono fenomeni e distinzioni naturali, quindi, e comunemente si indicano con la formula: «noi e gli altri». Ma qui s’innesta la patologia e l’umano si rivela molto inquinato. La naturale, umana distinzione «noi e gli altri» trascolora in divisione/contrapposizione e gli «altri» diventano i «barbari», nonostante talvolta ci superino in qualità (valori umani e fede in Dio). L’intolleranza (patologica), quindi, è inscritta nel fondo d’ogni identità (fisiologica) o nell’antropologia tout court, e solo dopo prende forma negli ambiti tanto socio-culturali quanto etnico-religiosi3. Ne risulta che l’identità fontale buona degeneri malamente e, in forza di quella patologia, si contrapponga e attacchi, invece di cercare il dialogo e le mutue relazioni pacifiche con gli «altri». Ciò riguarda tutti gli ambiti: dell’io personale, della società e cultura, delle stesse religioni. E il mysterium iniquitatis, che avvelena tutto: lo ha ricordato anche il Papa, nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace 2001.Dopo aver ribadito che le diversità culturali e religiose vanno comprese «nella fondamentale prospettiva dell’unità del genere umano, dato storico e ontologico primario, alla luce del quale è possibile cogliere il significato profondo delle stesse diversità» (n. 7), il Papa esprimeva apprensione per il crescente affermarsi di alcune identità, socioculturali e religiose, contro altre. «Questo fenomeno può sfociare in tensioni e scontri disastrosi, e quanto meno rende penosa la condizione di alcune minoranze che si trovano a vivere nel contesto di maggioranze diverse, inclini a comportamenti ostili e razzisti». Di qui l’affondo: sia le culture e le religioni, sia l’uomo che in esse vive (anche modificandole), tutto «è attraversato dal mistero d’iniquità operante nella storia umana (cfr 2 Ts 2, 7) e tutti hanno bisogno di purificazione e salvezza» (n. 8). Una purificazione e salvezza che si verificherà nella misura in cui le religioni, culture e singole persone mostreranno di essere veramente «per l’uomo e per la promozione della sua dignità a ogni livello e in ogni contesto» (ivi).Ciò non sembra proprio darsi nell’ethos o «nei modelli culturali del mondo occidentale che, ormai disancorati dal loro retroterra cristiano, sono ispirati a una concezione secolarizzata praticamente atea della vita e a forme di radicale individualismo. Si tratta di un fenomeno di vaste proporzioni, sostenuto da potenti campagne massmediali, tese a veicolare stili di vita, progetti socioeconomici e, in definitiva, una complessiva visione della realtà che erode dall’interno assetti culturali e religiosi diversi e civiltà nobilissime» (n. 9).Ciò postula un «supplemento d’anima» nella coscienza di tutti, ma principiando dai cristiani, ai quali - nelle molteplici realtà in cui vivono e operano (socioculturali, politiche ecc.) - si richiede di favorire la pace non solo come assenza di tensioni (interpersonali) e guerre (tra le nazioni), bensì nel senso globale del messianico «personalismo comunitario» (E. Mounier) o «umanesimo integrale» (J. Maritain), dove la «fraternità solidarista» genera l’auspicata «pace nella giustizia e salvaguardando il creato». Almeno quanti si dicono cristiani, infatti, dovrebbero sapere - illuminati dalla Parola di Dio e dal Magistero della Chiesa - che nel binomio guerra e pace (ai vari livelli) è sempre presente qualcosa di non meramente socioeconomico, filosofico e neanche meramente religioso, bensì di radicalmente antropologico. E l’egoismo di singoli, gruppi e nazioni - frutto del peccato personale (Gen 3) che diventa struttura di peccato (Gen 11) -, sicché almeno i cristiani dovrebbero sapere che il vero pericolo non sta nelle armi sempre più micidiali (questo è un mezzo), ma nella prepotenza dei ricchi e forti, che scatena la rabbia dei poveri e oppressi: questa è la vera causa scatenante delle guerre (e il fine ultimo del mysterium iniquitatis)4.Concretamente, le attuali tensioni e querelles scatenate dal macrofenomeno immigratorio, cui non eravamo sufficientemente preparati, altro non sono che la punta dell’iceberg rispetto alla complessiva tematica della «pace nella giustizia e salvaguardando il creato» o, detto altrimenti, l’intrigante questione della solidarietà verso questi fratelli altro non è che la cartina di tornasole rispetto alla consistenza della nostra fede. Non a caso Giovanni Paolo II, nella Sollecitudo rei socialis - uno dei vertici della Dottrina sociale cristiana -, ricordava esplicitamente: «opus iustitiae solidaritas». Vale a dire che una società incapace di solidarietà non può avere la pretesa di essere giusta. E benché sarebbe ingenuo ritenere che il problema solidarietà riguardi unicamente l’immigrazione, non vi è dubbio che quest’ultima evidenzia in modo particolarmente eclatante il deficit di una società occidentale (non solo italiana, quindi) che - trascurando le sue radici cristiane e le potenzialità del Vangelo - ha la pretesa di fondarsi sui valori laici della ragione illuminista, ma che quanto a fraternità di passi avanti ne sta facendo ben pochi e, in ogni caso, assai meno di quanto i teorici liberal-massoni del Settecento auspicavano.Di qui l’urgenza di rilanciare alla grande la «civiltà dell’amore», invocata da Paolo VI, nella quale il tema «guerra e pace» va strettamente correlato a quello della giustizia e, concretamente, allo sviluppo dei Paesi poveri: anche condonando o riducendo il debito estero che li soffoca.E quanto ripetutamente ha invocato Giovanni Paolo II, specialmente durante il Giubileo 2000, proprio sviluppando l’intuizione profetica di Paolo VI che, nella Populorum progressio, affermò: «Lo sviluppo è il nome nuovo della pace». Altrimenti i disperati flussi migratori non faranno che aumentare tensioni e, strumentalizzati da integralisti fanatici, organizzeranno il peggio. Consola tuttavia rilevare che intorno a queste valutazioni, conturbanti ma realiste, stia prendendo forma una nuova coscienza nei singoli e nelle Istituzioni - con quelle ecclesiali in testa - sicché, per concludere, vorremmo dare alcuni orientamenti pratici: semplici ma che riteniamo efficaci.Nel riflettere e confrontarsi a proposito d’immigrazioni e relative conflittualità, anzitutto bisogna procedere distinguendo, cioè non fare d’ogni erba un fascio, né spaventarsi di fronte alle difficoltà, bensì coraggiosamente prodigarsi tanto nello sviluppare i semina Verbi che lo Spirito dissemina ovunque, quanto nel contrastare le tossine dell’anticristo (la zizzania del satana, cui accenna il Vangelo). Soltanto così si realizzeranno gli «esperimenti d’avanguardia del Regno», cui allude la Dottrina sociale cristiana: ossia progettare e costruire, nonostante tutto, nel «qui e ora» (il frattempo della storia), una polis o città dell’uomo più giusta e solidale, a misura della Gerusalemme celeste.In questa avventura, poi, i cristiani espliciti sono affiancati dalle tante persone di retto sentire e buona volontà che magari anonimamente, in quanto non pensano esplicitamente al veniente Regnum Dei, si prodigano tuttavia generosamente nel realizzare l’utopia che lo esprime: un mondo migliore, più giusto e fraterno.
1 Infatti la nuova procedura di allontanamento nei confronti di immigrati «clandestini» prevede l’espulsione con accompagnamento immediato; e qualora non sia possibile trattenere lo straniero presso un centro di permanenza o siano decorsi i termini, la Questura ordina di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni. La mancata ottemperanza dell’ordine comporta l’arresto da sei mesi a un anno. Si è introdotto, così, un infallibile meccanismo di «criminalizzazione»: se la condizione di clandestinità non costituisce, di per sé, reato, il mancato allontanamento spontaneo dallo Stato fa scattare l’ipotesi di reato2 Dossier statistico 2003 che, realizzato dagli organismi ecclesiali Caritas e Migrantes, fu presentato a Roma, il 28 ottobre scorso, da mons. A. Garsia, presidente emerito della Fondazione Migrantes, in dialogo col Ministro degli Interni G. Pisanu3 Come ha osservato acutamente mons. L. Sartori, in M. Cassese (ed.), Religioni per la pace, Roma, ASAL, 1985, 13, lo stesso avviene tra le religioni, contrapponendo il «popolo di Dio» a «i popoli» senza etichetta. Sul problema dell’egocentrismo e dell’etnocentrismo, studiato dal punto di vista teologico, egli rinvia a W. Buehlmann, I popoli eletti, Roma, Città Nuova, 1982, che definisce «il più originale ripensamento del rapporto tra le religioni»4 In ogni caso senza dimenticare - benché qui possiamo solo accennarvi - che, per bloccare la follia della guerra, bisogna analizzare non solo i perversi meccanismi che la scatenano, ma anche i soggetti e le modalità migliori o nuove che possono disinnescarla, proprio affermando una nuova coscienza e strategia, personale e collettiva5 Tra l’altro, questo è oggi il criterio discriminante tra «pacifisti» - benintenzionati ma talvolta velleitari - e «operatori di pace», che affrontano realisticamente il problema. Se ai primi basta affermare la pace, col rischio d’esaurirsi negli slogan più o meno demagogici, gli operatori di pace, invece, cercano di tagliare le radici della guerra, cioè le ingiustizie di qualunque genere, perché «la pace è opera della giustizia».