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L'Europa e gli altri: dall'accoglienza alla solidarietà


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/03


L’EUROPA E GLI ALTRI: DALL’ACCOGLIENZA ALLA SOLIDARIETÀ
di Stefano Zamagni
Immigrati: richiesti e indesiderati1. Che il fenomeno migratorio sia un tema ad alto potenziale di conflittualità che tende a dividere, in modo spesso radicale, l’opinione pubblica, e di conseguenza le forze politiche, è cosa nota ormai da tempo. In particolare, è noto che quella degli immigrati rappresenta oggi, nelle nostre società occidentali, l’unica categoria di soggetti richiesti e indesiderati, ad un tempo. L’Eurobarometro, da almeno quattro/cinque anni, segnala con precisione questo contraddittorio atteggiamento degli europei nei confronti dell’immigrazione. Per un verso, vi sono segmenti di popolazione che chiedono di ampliare i flussi in arrivo di lavoratori migranti, consapevoli come sono dei benefici che ne deriverebbero alla flessibilità del mercato europeo del lavoro e alla gestione delle finanze pubbliche. (Invero, l’invecchiamento delle popolazioni europee ha ormai reso la struttura attuale delle entrate e uscite dei nostri sistemi di sicurezza sociale non più sostenibile). Per l’altro verso, vi sono altri segmenti della popolazione che nutrono timori vari; tre in modo specifico, e cioè che gli immigrati: a) causano disoccupazione a carico dei lavoratori dei paesi ospitanti; b) abusano dei trasferimenti assicurati dai nostri sistemi di welfare. (In effetti, l’evidenza disponibile conferma che gli immigrati ricevono servizi di welfare in misura proporzionalmente maggiore rispetto alle popolazioni native. Come già J.S. Mill, aveva scritto attorno alla metà dell’Ottocento: “è vano pensare che tutte le bocche che l’aumento della popolazione fa venire in esistenza trascinino con sé braccia. Le nuove bocche chiedono altrettanto cibo delle vecchie, ma le loro mani non producono gli stessi ammontari delle vecchie”; c) hanno già superato il punto di saturazione, così da mettere a repentaglio la coesione sociale dei paesi ospitanti per l’impossibilità di attuare equilibrate politiche di integrazione culturale. I recenti esiti elettorali in Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Olanda è il lungo dibattito che ha portato all’approvazione della legge Bossi-Fini sembrano indicare che la seconda tipologia di cittadini sia oggi quella in maggioranza numerica.
Opinione pubblica e scelte politicheCome Tito Boeri ha scritto (Immigrazione e Stato Sociale in Europa, Milano, Egea, 2002), si è consolidato nell’Unione Europea un vero e proprio circolo vizioso: la gente manifesta un atteggiamento ostile nei confronti degli immigrati; ciò induce i governanti, sempre alla ricerca del consenso politico, a restringere gli ingressi o a renderli inutilmente difficoltosi; a loro volta, politiche di questo genere vanno ad accrescere l’immigrazione illegale - si stima che vi sia uno stock di 11 milioni di migranti irregolari nel mondo, gran parte dei quali si affida a trafficanti il cui giro d’affari ha già superato quello delle droghe - ; infine, il senso di insicurezza che l’illegalità va diffondendo pare confermare quelle percezioni di ostilità, le quali tendono così ad autoalimentarsi. Come spezzare un tale circolo vizioso, i cui effetti devastanti mettono a repentaglio la causa sia della pace civile sia del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo?Cosa è stato fatto dall’Unione Europea, nel corso del 2001, in vista di una politica europea dell’immigrazione e dell’asilo? 2. Per rispondere, consideriamo dapprima, in grande sintesi, le principali tappe di questo faticoso cammino verso una politica migratoria europea capace di gestire, in modo unitario le pressioni provenienti dai paesi terzi, anziché limitarsi - come è finora avvenuto - ad affidare ai singoli paesi la lotta di ultima istanza contro i clandestini.
Convenzione di DublinoI primi passi recano la data del 1995, quando con la Convenzione di Dublino, gli Stati membri si accordano sul riconoscimento dello status di rifugiato politico. L’accordo avrebbe dovuto portare una certa armonizzazione delle legislazioni nazionali, il che non è accaduto, anche se è rimasto acquisito il principio base secondo cui chi chiede asilo non deve essere autorizzato ad andare alla ricerca del migliore “offerente”. La ragione principale di tale insuccesso è che, in conseguenza del Trattato di Maastricht (1992), è prevalso l’approccio intergovernativo, dal momento che la politica riguardante l’asilo e l’immigrazione è rimasta tra le “materie di interesse comune”. Un decisivo balzo in avanti si realizza con il Trattato di Amsterdam (1997): la materia di cui ci occupiamo viene demandata alle istituzioni europea: è il Consiglio a decidere all’unanimità, “dopo aver consultato il Parlamento europeo”. Ma è solo con il Vertice di Tampere (1999) che si giunge all’accoglimento del principio in base al quale è necessario giungere, in tempi rapidi, ad una politica comune dell’UE sull’immigrazione e l’asilo, attraverso la definizione del cosiddetto “spazio europeo”. Il Trattato di Nizza (2000) recepisce tale indirizzo strategico, estendendo la procedura di codecisione oltre gli accordi per i visti, per includervi talune questioni giuridiche transfrontaliere, escludendo tuttavia gli aspetti relativi al diritto familiare.
Dopo l’11 settembre ‘01Nel corso del 2001, i momenti più significativi ai fini del nostro discorso sono stati i seguenti. Nei giorni 27-28 settembre si riunisce a Bruxelles il Consiglio per gli Affari Interni e della Giustizia per affrontare specificamente il tema dei ricongiungimenti familiari. Nonostante le forti aspettative, le delegazioni restano più che mai divise sia sulla questione delle coppie non sposate sia su quella dei limiti di età. In particolare, è la Germania a porre, di fatto, il veto: nessuna regola europea dovrà essere resa esecutiva prima che i singoli paesi abbiano approvato le rispettive leggi nazionali. Nel mese successivo, nei giorni 16 e 17, si tiene sempre a Bruxelles la Conferenza della Presidenza di turno (belga) per preparare il summit di Laeken. Il ricordo, ancora fresco, dei tragici fatti dell’11 settembre distoglie l’attenzione dei partecipanti dalla problematica complessiva per concentrarla sui modi di combattere la criminalità e il terrorismo associati al fenomeno migratorio. Ovviamente, viene ribadita l’intenzione comune di non voler assolutamente arrivare alla “fortezza Europea”, una dichiarazione che sa tanto di “excusatio non petita”. Di un certo interesse, invece, è la Conferenza dei Ministri a Bruxelles, nei giorni 5 e 6 novembre dedicata al problema Euro-Mediterraneo. L’idea che viene discussa e, alla fine, sottoscritta è quella di co-sviluppo: si tratta di valorizzare il ruolo degli stessi migranti nel processo di integrazione nel paese ospitante, chiamando a concorrere, per la realizzazione di tale obiettivo, le varie espressioni della società civile. Infine, il Summit di Laeken, del dicembre 2001, si chiude con la richiesta formale, avanzata alla Commissione Europea, di presentare, entro la fine di aprile 2002, una proposta globale di riforma dell’intera materia migratoria e ciò in vista della riforma del Trattato prevista per il 2004.
Attuali politiche inefficaciQuesta è la situazione al momento in cui scriviamo. Cosa c’è alla base delle incertezze e delle incongruenze che tuttora ritardano l’avvio definitivo di una politica europea dell’immigrazione? C’è che, nonostante le apparenze, il processo legislativo non è affatto mutato dal 1995 ad oggi. Sono ancora i governi degli stati membri a detenere il controllo: la Commissione redige le direttive che poi il Parlamento esamina, ma è quasi sempre il Consiglio a decidere. Ora, non c’è bisogno di essere esperti di questioni giuridico-istituzionali per comprendere che la cooperazione fra gli Stati membri, per quanto utile e significativa, non potrà mai surrogare una politica, con la relativa legislazione, in grado di rispecchiare le esigenze reali dell’Unione in materia di immigrazione - una politica cioè soggetta alla procedura di codecisione - e in grado di coinvolgere entrambi i rami del legislativo, il Parlamento e il Consiglio. Resta il fatto che le attuali politiche migratorie sono, per la gran parte, inefficaci e controporducenti. Sono inefficaci perché si limitano a correggere gli effetti indesiderati delle migrazioni, senza intaccare le cause. Un solo esempio per chiarire il punto. è noto che i grandi progetti di sviluppo finanziati dagli organismi internazionali (Banca Mondiale, in primis) causano una sistematica espulsione di popolazione rurale dalla terra dove i progetti medesimi (dighe; oleodotti; autostrade; canali; ecc.) vengono realizzati. Si tratta dei cosiddetti Project Affected People (PAP): per la sola India, si è stimato che per il 1997 i Pap siano stati circa 21 milioni. è dunque evidente che quando si vanno a finanziare progetti del genere non è possibile non tener conto dell’impatto sui flussi migratori che la realizzazione di quei progetti determina.Le attuali politiche migratorie sono anche controproducenti e ciò nella misura in cui esse aumentano le situazioni di iniquità. Le pratiche in atto sono infatti discriminatorie: le restrizioni di vario tipo fanno sì che solamente coloro che sono in possesso di risorse adeguate possono sperare di lasciare il proprio paese. (è stato stimato che occorrono 15.000 dollari perché un afgano possa arrivare in Australia). Non solo, ma le politiche oggi in atto stanno provocando una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti della capacità dei pubblici poteri di governare il fenomeno. Perché spendere tanto denaro se poi coloro che non ottengono i permessi di asilo restano egualmente nel paese come irregolari?
Ostacoli3. Sorge spontanea la domanda: quali ostacoli si frappongono all’attuazione di una tale politica? Ne indico tre, quelli che giudico più seri.
Allargamento all’Est dell’UEIl primo chiama in causa il processo di allargamento ad Est della frontiera dell’Unione: si tratta dei 10 paesi del Centro-Est Europa (PECO-10) candidati all’inclusione nell’Unione. Le stime del potenziale migratorio connesso con l’allargamento ad Est appaiono in un recente studio svolto per conto della Commissione e coordinato da T. Boeri e H. Brucker (2000). Le simulazioni dello studio indicano che il numero delle persone provenienti dai PECO-10 passerebbe dagli attuali 0,85 milioni a 3,9 milioni dopo l’allargamento. Un tale ammontare corrisponde all’1% della popolazione dei 15 paesi dell’UE. I flussi migratori nell’UE aumenterebbero, inizialmente, di 335.000 persone all’anno per poi stabilizzarsi intorno alle 150.000 unità annue. Come si nota, non si tratta certo di cifre preoccupanti, contrariamente a quanto non pochi addetti ai lavori da tempo temevano. C’è però un particolare che mette conto evidenziare: si stima che circa l’80% degli immigrati provenienti dai PECO-10 interesserà Germania e Austria. Questo spiega perché questi due paesi abbiano chiesto l’introduzione di un periodo tran-sitorio di 5 o 7 anni, durante il quale i nuovi arrivati non potranno accedere al mercato del lavoro dell’UE. E spiega anche perché la Germania stia chiedendo che tale decisione venga riservata ai governi nazionali, mentre la Commissione ritiene che essa sia di sua propria competenza.
“Effetto calamita” del WelfareIl secondo ostacolo ha a che vedere con le conseguenze, temutissime nei paesi occidentali, del cosiddetto “effetto calamita” dei programmi di welfare. Si tratta della tendenza, più che comprensibile, da parte dei migranti ad emigrare verso Stati che offrono una più generosa copertura in termini di servizi di welfare - appunto, gli Stati calamita. Una indagine recente condotta dall’economista tedesco H. Sinn ha stimato in 2.300 dollari all’anno e per persona il costo medio per la inclusione degli immigrati nei programmi di welfare della Germania. Non è difficile cogliere le implicazioni di tale circostanza ai fini della attuazione di una politica comune europea dell’immigrazione e dell’asilo. Infatti, poiché i sistemi di welfare dei 15 paesi dell’UE sono ancora tra loro alquanto differenziati - soprattutto per ciò che concerne il segmento sanitario e quello pensionistico - si ha che l’inserimento di un immigrato comporta costi diversi a seconda del paese ospitante e a seconda del grado di copertura. Di qui la richiesta da parte degli Stati membri di gestirsi in proprio questo tipo di decisioni. Accade così che, in Germania, gli immigrati senza residenza permanente perdono il diritto a restare nel paese se dipendono dall’assistenza sociale. (Negli USA, la legge del 1996 nega ai non cittadini arrivati dopo il 1996, il diritto a ricevere la più parte delle prestazioni dell’assistenza pubblica). D’altro canto, vi sono paesi, come la Svezia, che non differenziano tra immigrati e nativi. La conseguenza è che in tale paese la spesa sociale per gli immigrati è, oggi, pari a circa il 50% dell’intera spesa sociale: eppure, gli immigrati rappresentano solamente l’11% della popolazione autoctona. Non ci vuole molto a capire come un simile stato di cose ponga un serio problema di sostenibilità finanziaria.
Diversi modelli d’integrazione4. Infine, il terzo ostacolo di cui sopra si diceva concerne la diversità delle concezioni che i 15 paesi dell’UE mantengono a proposito del modello di integrazione degli immigrati nelle società ospitanti. C’è chi interpreta la nozione di integrazione nel senso di “piena eguaglianza”, cioè come condizione nella quale a tutti indistintamente siano riconosciuti, e da subito, i diritti di piena cittadinanza. E c’è chi, all’opposto, interpreta l’integrazione in termini esclusivamente economici, considerando integrabile solamente l’immigrato che risulti economicamente utile: il cosiddetto modello “usa e getta” che giunge a suggerire, a livello pratico l’adozione di forme di immigrazione temporanea. Si riesce dunque a capire perché, in una situazione del genere, il progetto di una politica europea dell’immigrazione incontri difficoltà a spiccare il volo.