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Il coraggio di aprirsi alle cappellanie etniche


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/03


IL CORAGGIO DI APRIRSI ALLE CAPPELLANIE ETNICHE
di Luigi Petris
La nota rivista Vita pastorale ha pubblicato recentemente (V.P. 7/2003) un articolo di Andrea Pacini dal titolo “Il rischio delle cappellanie etniche”. Il contenuto di detto articolo potrebbe essere condiviso in pieno, se venissero enunciati, oltre al rischio, anche i vantaggi e le ricchezze di centri pastorali specificamente eretti per i cattolici stranieri presenti in Italia. Dovrebbe anzitutto essere riconosciuta la loro piena legittimità ecclesiale, sia che tali centri assumano una delle forme previste dalla normativa canonica, sia che sorgano sotto la spinta della necessità e dell’urgenza per iniziativa spontanea di operatori pastorali, sacerdoti, religiosi o laici, che agiscono in esplicita intesa con chi in diocesi ha la responsabilità della pastorale migratoria, solitamente il direttore diocesano della Migrantes.
Da 313 a 500 i “Centri pastorali per i cattolici stranieri in Italia”La Fondazione Migrantes, cui la Conferenza Episcopale Italiana ha assegnato questo campo specifico di azione a livello nazionale, nella pubblicazione edita alla fine dell’Anno Giubilare “Centri pastorali per i cattolici stranieri in Italia”, ha catalogato 313 di questi centri, indicandone la sede e il responsabile, distinti secondo nazionalità, etnia o lingua, ed indicando il Direttore Migrantes diocesano cui questi centri più o meno strutturati fanno riferimento nella Chiesa locale. La nuova edizione, consultabile sul sito della Migrantes, ne registra ora circa 500. Siamo dunque in una fase di grande espansione: basti dire che per gli ucraini in tre anni questi centri sono passati da quattro a oltre settanta; per gli albanesi da una ventina ad una cinquantina. Sia detto per inciso, ci troviamo di fronte a questa sorprendente novità che proprio questi albanesi, i più “chiacchierati” fra gli immigrati in questa nuova situazione di esodo dal loro Paese, trovano l’occasione per riscoprire la loro fede cristiana o per accostarvisi per la prima volta. Si noterà infatti che nell’elenco degli adulti, che in questi anni ricevono il battesimo solitamente in cattedrale durante la veglia pasquale, sono più numerosi gli stranieri che gli italiani, e fra gli stranieri gli albanesi sono in testa.
L’Est europeo si apre, i cristiani aumenterannoTra gli immigrati c’è una rappresentanza di tantissimi Paesi di tutti i continenti, ma giustamente l’autore dell’articolo invita a guardare alla vicina Europa dell’Est, che nei recenti flussi migratori, regolari e irregolari, hanno decisamente la precedenza. E questo lascia prevedere che tra gli stranieri in Italia la percentuale dei cristiani, che sono già maggioranza, cattolici compresi, è destinata a fare vistosi passi in avanti. Inoltre la regolarizzazione in corso dice chiaramente che il flusso di lavoratori dall’estero finora, anche in questi ultimissimi anni di declamato rigore e controllo alle frontiere, è avvenuto per via irregolare, ma in prospettiva, date le nuove politiche migratorie italiane ed europee orientate a dare la precedenza ai Paesi candidati ad entrare nell’U.E., ci si può attendere che dall’Est europeo avremo una prevalente migrazione regolare, destinata un po’ alla volta a configurarsi come libera circolazione di manodopera. Secondo un calcolo della Migrantes gli stranieri cattolici, fra regolari e regolarizzandi, si portano già ora oltre il 35% e in cifre assolute si collocano fra gli 800 e 900 mila, pari a una grande diocesi, mentre filippini, latino-americani, polacchi e ucraini contano da soli un numero di fedeli non inferiore a tante piccole diocesi italiane.
Integrazione se ben intesaLa Migrantes può condividere con Pacini anche il primario obiettivo dell’integrazione, quando essa sia ben compresa e ben attuata, di questi immigrati cattolici nella Chiesa locale, ma ritiene altrettanto primario l’obiettivo di consentire e favorire con ogni mezzo la possibilità per questi fratelli cattolici di esprimere la loro fede e la loro vita cristiana, personalmente e comunitariamente, in continuità con la cultura, indole e tradizione della loro terra di origine, radicata in una lingua e in un linguaggio che fanno parte della loro identità profonda. L’inculturazione della fede è una cosa molto seria, è uno dei temi fondamentali continuamente ricorrenti nei Sinodi continentali celebrati a Roma prima dell’Anno Santo. Ora se questa inculturazione vale per l’africano o per l’asiatico quando sono in Africa o in Asia, perché non dovrebbe altrettanto valere quando questa gente, già duramente provata da tanti sradicamenti, giunge tra noi? Perché ai tanti sradicamenti vorremmo aggiungere anche lo sradicamento da quell’humus culturale e linguistico in cui la loro fede è nata e si è sviluppata? I Centri pastorali etnici mirano appunto a dare questa provvida continuità, rispondente a esigenze personalissime radicate nel proprio essere cristiano, in forza del battesimo. L’integrazione è obiettivo importante ma non fino al punto di declassare in secondo ordine questo diritto del cristiano, che ci sembra sia chiaramente affermato e tutelato in quella prima parte del Codice di Diritto Canonico dove si parla dei diritti e doveri di tutti i fedeli ed in particolare dei fedeli laici (cf. can. 208-231).
Armonizzare integrazione ed identità culturaleI due valori dell’integrazione e della tutela della propria identità personale e comunitaria vanno posti allo stesso livello. Tra i medesimi non va cercato un compromesso ma una armonizzazione. Se si volesse dare una precedenza, almeno nell’ordine della trattazione, ci si può riferire al testo classico, che è centrale nel Motu proprio Pastoralis Migratorum Cura di Paolo VI: “Si comprende facilmente che non è possibile svolgere in maniera efficace questa cura pastorale, se non si tengono in debito conto il patrimonio spirituale e la cultura propria dei migranti. A tale riguardo ha grande importanza la lingua nazionale, con la quale essi esprimono i loro pensieri, la loro mentalità, la loro stessa vita religiosa”. Posto in evidenza questo primario valore, Paolo VI avverte che ce n’è un altro altrettanto primario da tutelare: “Naturalmente bisogna evitare che queste diversità e gli adattamenti secondo i vari gruppi etnici, anche se legittimi, non si risolvano in danno di quell’unità, a cui tutti sono chiamati nella Chiesa”. Il documento del Papa è molto breve perché rimanda espressamente alla “Istruzione” De pastorali migratorum cura della S. Congregazione dei Vescovi, nella quale di questa pastorale specifica si parla in dettaglio, in particolare dei cappellani per i migranti (n. 35ss) e delle possibili strutture, quali la parrocchia personale, la missione con cura d’anime, le varie forme di cappellania (n. 33). Per la legittimità degli altri centri pastorali non canonicamente istituiti ci si può riferire anche a quanto nella medesima Istruzione si dice sia dei religiosi (n. 52) che dei laici (n. 58). Poniamo perciò come Migrantes un interrogativo là dove l’articolista stesso pone “l’interrogativo sull’opportunità, spesso sostenuta, di istituire cappellanie etniche con chiesa propria a uso esclusivo del gruppo nazionale”. La nostra esperienza ci dice che queste cappellanie sono una esigenza (per gli stranieri di altra madre lingua) ed un dovere (per le Chiese di accoglienza).
Nella Chiesa ricercare la comunioneLa pastorale specifica ben intesa non fa assolutamente ostacolo al processo di integrazione né concorrenza al diritto e dovere del parroco locale di interessarsi degli immigrati residenti nella sua parrocchia. In verità i “missionari d’emigrazione” preferiscono usare il termine di comunione a quello di integrazione; troppo sovente quest’ultimo termine da tutte le maggioranze viene di fatto equiparato ad omologazione ed assimilazione. Comunione invece, e ci si rifà alla comunione trinitaria modello di ogni vera Chiesa, lascia intatte le originalità dei singoli e dei gruppi ed unisce tutti i diversi nella carità e nella guida di un Pastore. Del resto la già menzionata Istruzione ricorda che questa cura pastorale “ricade soprattutto sui parroci e chiede che “gli Ordinari ammoniscano i parroci del grave loro compito”, perché “dovranno un giorno render conto a Dio del mandato eseguito” (nn. 26 e 30). Essi però, coscienti dei propri limiti, si renderanno conto che da soli non possono dare a questi fedeli così diversi per lingua e cultura un servizio efficace, perciò saranno loro stessi a consentire, anzi ad invocare l’aiuto qualificato di un operatore e di un centro pastorale etnico (cf. n. 27). La questione decisiva dunque è come armonizzare i due valori, come realizzare tra i due operatori, parroco territoriale e operatore pastorale etnico e le rispettive strutture una vera pastorale d’insieme. E questo orientamento deve essere fatto proprio, in pari misura e con pari responsabilità, dal cappellano etnico e dal parroco.
“...per tutto il tempo di vera utilità”Si concorda pienamente che obiettivo importante è la comunione ecclesiale, intesa - specie nella diaspora - anche come inserimento dei migranti cattolici nella parrocchia territoriale e nella Chiesa locale. Di fatto questi centri pastorali, almeno quelli canonicamente istituiti, sono già a pieno titolo parte della Chiesa locale. Molti di questi centri sono connotati da una certa provvisorietà, perché non pochi immigrati e particolarmente i loro discendenti giungono prima o dopo ad una piena integrazione anche ecclesiale, oltre che civile. Ma quando questa avverrà? Pio XII nella Exsul familia (1952) parla di prima e seconda generazione. L’Istruzione (1969), voluta da Paolo VI invece, con sensibilità postconciliare, dice che “appare evidente e risulta confermata l’opportunità di affidare la cura dei migranti a sacerdoti della stessa lingua, e ciò per tutto il tempo richiesto da vera utilità”. In teoria quindi non ci dovrebbe essere un limite di tempo per la loro durata anche se la valutazione va fatta non in base a necessità, ma a “vera utilità”. E sulla vera utilità non dovrebbero decidere solo gli esperti o la maggioranza, ma si dovrebbero ascoltare soprattutto le minoranze, i gruppi etnici che si intende servire. Al riguardo è auspicata una coerenza nell’azione pastorale delle Chiese locali. Non raramente accade che mentre si chiede l’integrazione delle minoranze straniere nella propria nazione, le stesse Chiese sono strenue propugnatrici dell’originalità (anche pastorale) dei loro fedeli quando questi si trovano in minoranza in un contesto pluriculturale, sparsi nel mondo.La Migrantes perciò coglie con riserva l’affermazione contenuta nell’articolo: la comunità pastorale etnica “non è detto che favorisca l’integrazione”, per cui “bisognerà valutare di volta in volta se il numero di appartenenti al gruppo etnico la richieda veramente”. Stando alle parole, ci sembra quasi di trovarci di fronte a una realtà ecclesiale da tollerare come un minor male per il minimo di tempo indispensabile, facendo il conteggio alla rovescia in attesa della sua estinzione. Allora sino ad oggi la Chiesa ha sbagliato nell’esigere la creazione di queste comunità etniche?
Libera integrazione ecclesialeIl Papa ha parole lucidissime e illuminanti in quel primo messaggio per la Giornata Mondiale delle Migrazioni del 1986 (cfr. Quaderno Migrantes n. 27, p. 90), tutto dedicato alla “libera integrazione ecclesiale” dei migranti, un’integrazione che può essere anche promossa, ma deve rimanere spontanea e progressiva: “Nell’ambito della emigrazione, ogni tentativo inteso ad accelerare o ritardare l’integrazione, o comunque l’inserimento, specie se ispirato da una supremazia nazionalistica, politica e sociale, non può che soffocare o pregiudicare quella auspicabile pluralità di voci, la quale scaturisce dal diritto alla libertà d’integrazione che i fedeli migranti hanno in ogni Chiesa particolare”. Parole sagge e sante che io leggo come un frutto di quella Chiesa “esperta in emigrazione” grazie all’impegno di centinaia/migliaia di operatori pastorali che hanno condiviso l’esperienza migratoria con i deboli costretti ad abbandonare la propria terra. Operatori che hanno assaporato con amarezza le imposizioni anche pastorali delle maggioranze ed hanno assistito inermi all’allontanamento dalla Chiesa e dalla fede di chi si sentiva non capito e rispettato.Su tale pensiero il Papa ritorna di frequente nella serie ininterrotta dei suoi messaggi, con grande attenzione a sostenere sia la necessità di una pastorale specifica con strutture specifiche, sia la funzione della parrocchia nel favorire l’integrazione e nel fare dell’accoglienza dei migranti, per così dire, l’apologia della sua unità e cattolicità.Del resto la maggior parte di questi centri pastorali fanno già capo a una chiesa parrocchiale e in tal senso sono già, fin dall’inizio, una via alla comunione ecclesiale. Naturalmente non ogni passo è facile ed irenico: si incontrano difficoltà e resistenze, quelle stesse che sperimentiamo anche in altri settori della pastorale; ma, tutto sommato, si è di fronte a una realtà che merita il nome di pastorale d’insieme, fa onore a tante nostre parrocchie, si presenta come emblema e stimolo per un loro rinnovamento. E questo anche in prospettiva ecumenica e missionaria, come è risultato dal grande convegno di Castelgandolfo del febbraio scorso: “Tutte le genti verranno a te” (25-28.02.2003).
Chiare indicazioni della Chiesa in ItaliaA conclusione è interessante richiamare che lo scorso anno la Migrantes ha redatto e la Commissione Episcopale per le Migrazioni ha approvato un “Pro-memoria per il Vescovo incaricato regionale per le migrazioni”. Nella stesura iniziale al posto di pro-memoria si leggeva “decalogo”, perché in dieci punti sviluppava l’identico pensiero che qui è stato esposto. Ancora più interessanti e più puntuali risultano gli “Orientamenti per l’istituzione di strutture pastorali a servizio di cattolici immigrati in Italia”, stesi anche questi dalla Migrantes, approvati dalla predetta Commissione, fatti propri dal Consiglio Episcopale Permanente nel marzo 2002 e pubblicati dalla Segreteria Generale della CEI. La problematica dunque suscitata da Andrea Pacini non è nuova, merita la massima attenzione. La Migrantes, tuttavia, più che sottolineare il rischio preferisce aprire al “coraggio delle comunità etniche”, è il coraggio del Vangelo di Pentecoste che unisce popoli diversi nella fede e nella carità e forma una Chiesa segno di ciò che il mondo deve essere.