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Protagonismo: implicazioni profonde di un significato


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/03


PROTAGONISMO: IMPLICAZIONI PROFONDE DI UN SIGNIFICATO
di Pinuccia Scaramuzzetti
Una cultura “primaria”Ricordo di aver letto in uno studio di antropologia culturale che la società zingara viene considerata “primaria” o “semplice”, insieme a molte altre dei cosiddetti paesi del terzo mondo. Nello studio in questione si dimostrava, ad esempio, che la scuola, aveva in queste società una funzione secondaria perché non le toccava la trasmissione dei valori culturali e non era il mezzo per una promozione sociale, per una elevazione di classe come invece succede nelle società complesse, nelle quali può essere trampolino di lancio, oltre che luogo di confronto e di supporto all’educazione familiare Anche se in base alla mia esperienza lo ritenevo abbastanza vero, questa considerazione mi aveva molto rattristata. Non mi piaceva che Rom e Sinti, cioè le persone con cui condivido la maggior parte della mia vita, fossero escluse da ogni possibilità di dialogo e avessero un destino di eterni “secondi” rispetto alle culture, molto diverso del resto dall’immagine che all’interno loro hanno di se stessi. D’altra parte, le istituzioni che avvicinano il mondo zingaro si chinano “verso”, si preoccupano di innalzare, di promuovere ed anche la Chiesa in quanto istituzione non sfugge a questi atteggiamenti. In un aspetto però differisce realmente e cioè in quanto luogo comunitario di vita di fede. Infatti la fede è un affidarsi a Dio in una relazione personale con Gesù Cristo e la relazione di un rom con il suo Dio non può avere minor dignità, valere meno di quella di ogni altro uomo. Come possiamo reciprocamente dimenticarci noi cristiani (ma credo che il discorso si estenda in altre modalità anche alle altre religioni) che ci rivolgiamo ad uno stesso Dio perché siamo ciascuno e tutti insieme chiamati alla sequela di un’unica persona: Gesù Cristo? La Chiesa può essere l’ambito in cui questa relazione viene condivisa, in cui viene custodito il messaggio cui ciascuno e tutti insieme possiamo attingere. La Chiesa è il luogo in cui si cerca la conoscenza di ogni altro essere umano, ma non fine a se stessa: non si conosce per conoscere, ma per condividere, per compartecipare, per capire qual è il punto in cui l’altro accetta di amarti, di incontrarti, di compiere un tratto di quel cammino con te. Muove da questo presupposto la Chiesa che è in Italia e si esprime attraverso l’UNPRES (Ufficio Nazionale per la Pastorale tra i Rom e i Sinti), quella che è in Europa e si esprime attraverso quell’organizzazione internazionale che è il CCIT (Comitée Catholique Internationale Tzigane), il Vaticano attraverso le sue iniziative di carattere mondiale.Consideriamo le ultime iniziative intraprese da questi organismi in questa prospettiva.Esperienza UNPReSNel giugno 2002 ha avuto luogo a Verona il convegno nazionale UNPRES dal titolo: “Quello che lo Spirito dice alle Chiese”. Diversi partecipanti hanno portato la loro testimonianza sul loro incontro con i “Vangelisti”, come i Sinti pentecostali evangelici aderenti al movimento evangelico pentecostale tzigano si auto-denominano. Non c’era nessun Sinto né Rom presente, eppure essi erano i veri protagonisti di questo convegno perché chi ha preso la parola metteva seriamente in discussione se stesso confrontando il proprio cammino di fede con quello delle persone che aveva incontrato, considerando spesso questo incontro come motivo di crescita. I presbiteri, che hanno messo a nudo la loro difficoltà ad accettare un confronto paritario con i loro “colleghi” pastori evangelici sinti, le suore e gli altri operatori, che hanno descritto la sofferenza dell’allontanamento e la gioia della luce in una riscoperta reciproca del cammino cristiano che ciascuno aveva compiuto nel suo versante, ponevano se stessi né sopra né sotto, ma di fronte ad altre persone che camminavano anche loro nella sequela di Gesù Cristo e si interrogavano sul significato e sulle modalità di questa lontananza-vicinanza. Allo stesso modo ci siamo chiesti se il cammino personale di fede di alcuni gruppi di rom cattolici poteva diventare un cammino partecipato e condiviso, se saremmo stati in grado di vincere le nostre resistenze culturali.Il Convegno di BrugesA marzo del 2003 si è svolto a Bruges l’annuale convegno del CCIT. L’argomento era la festa, come gli zingari (indicando con questo termine Rom, Sinti, Manush, Kalé e quanti altri in Europa si identificano in questi gruppi) vivono la festa. Questa indagine su un vissuto, come altre, è la ricerca di punti d’incontro, esprime un desiderio: noi vogliamo conoscerci per camminare fianco a fianco ed essere né traino, né seguaci, ma solo amici.e di BudapestE un tema reso esplicito dal titolo del 5° congresso mondiale della pastorale per gli zingari: “Chiesa e zingari: per una spiritualità di comunione” che si terrà a Budapest i primi giorni di luglio. Esso, pur provenendo da un altro organismo, il Vaticano, dà spazio alla riflessione su quanto è implicito e sotteso all’argomento. Rappresenta la meta, il punto di vista che orienta il percorso dei vari operatori pastorali che accettano il criterio della condivisione come metodo di una presenza.Sembra contraddittorio il fatto che non si consideri indispensabile la presenza di Rom o Sinti ai convegni, alle revisioni di vita e talvolta anche alle comunicazioni che vengono fatte alle comunità cristiane o ad un ambito più allargato attraverso i media. I testimoni della vita quotidiana sono testimoni delle scelte, di quanto viene comunicato attraverso la stampa o attraverso le risonanze esposte durante i convegni. Si parla davanti a loro nell’autenticità del loro essere, indipendentemente dal limite dei vissuti individuali, loro e nostri. Anche se non sono presenti fisicamente, è nel vissuto, nella vita quotidiana che le riflessioni verranno poi verificate.Per assurdo può capitare che proprio la presenza di un rom “addomesticato” sia strumentale. Il partecipare per far piacere, per assecondare; il non perfetto possesso del linguaggio, la non chiara percezione dei sottintesi, dei meccanismi occulti che la cultura della nostra società mette in moto, potrebbe farne dei succubi piuttosto che dei protagonisti. Sentire le diffidenze, i giudizi e i pregiudizi può essere un peso eccessivo e sgradevole che non si può porre sulle spalle altrui solo per far noi bella figura, per poter dire: parliamo davanti a loro.“Traduciamo in vita” in mezzo a loro, piuttosto, ciò che abbiamo elaborato in teoria anche se non escludiamo nei nostri incontri la presenza di chi si sente a suo agio, per un suo proprio percorso, col nostro modo di esprimerci e di pensare.