» Chiesa Cattolica Italiana » Documenti »  Documentazione
I non-cristiani interpellano la comunità parrocchiale


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/03


I NON-CRISTIANI INTERPELLANO LA COMUNITÀ PARROCCHIALE
di Sergio Lanza
«Nella Chiesa nessuno è straniero e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e in nessun luogo» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale delle Migrazioni, 1996).«Sapremmo dir tutto su come abbiamo fatto pastorale di emigrazione o migrazione in Australia, ma come trattare 15 mila albanesi in un giorno non sapremmo cosa dire»1. Questa sguarnitura è conseguenza di una mutazione epocale.Le migrazioni nel territorioI tratti tipici della società moderna, scossi dalla declinazione introversa e debole dell’ultimo trentennio, vengono messi rapidamente in questione da un fenomeno migratorio di proporzioni crescenti. I confini nazionali, resi angusti dalle dimensioni delle relazioni commerciali (mercato comune) e avvertiti sempre più come politicamente inadeguati (Unione Europea), manifestano ben presto la loro radicale insufficienza di fronte all’incremento esponenziale dei fenomeni migratori. D’altro canto, nello stesso tempo in cui si dilata, il confine simmetricamente si ritrae in risposta alla esigenza di un determinato gruppo etnico2 (localizzazione). Al di là del disagio - superficiale ma sensibile - della presenza non solo occasionale e temporanea di persone ‘diverse’ (ospiti) emerge la questione strutturale della presenza di culture diverse, che chiedono di fatto un approccio adeguato.Questo intreccio di problemi, qui solo rapsodicamente evocato, interroga la comunità cristiana: che cosa comporta la fede in Gesù unico Redentore di fronte a una presenza religiosa molteplice?3; come conciliare il comandamento dell’amore senza misure e senza esclusioni con l’esigenza di salvaguardare ed esprimere compiutamente la propria convinzione di fede cristiana?; è sufficiente la soluzione ‘tollerantista’ (sit venia verbo!), che confina la religione nella sfera del privato e dell’irrazionale, secondo la previsione di Weber4?In una societas christiana, sembrava che il contesto in qualche modo fosse capace di assorbire, ricondurre e fors’anche redimere anche le forme diverse. Oggi emerge - qui come in molte altre realtà - l’esigenza di una pastorale che prenda sul serio la realtà interculturale ed interreligiosa. Con le fatiche che tutto ciò comporta. Ma, non di meno, con la consapevolezza dell’arricchimento spirituale che ne deriva: «Per la piena cattolicità, ogni nazione, ogni cultura ha un proprio ruolo da svolgere nell’universale piano di salvezza. Ogni tradizione particolare, ogni Chiesa locale deve rimanere aperta ed attenta alle altre Chiese e tradizioni; se rimanesse chiusa in sé, correrebbe il rischio di impoverirsi anch’essa»5.Una urgenza sociale e pastoraleUna lettura superficiale è quella che considera le migrazioni fenomeno temporaneo e transitorio. A questa interpretazione, molto diffusa nell’opinione pubblica corrente, anche se raramente tematizzata, fa riscontro la convinzione - corretta - che si tratta di un fenomeno non momentaneo, ma strutturale: «Oggi ci si trova di fronte a una situazione religiosa assai diversificata e cangiante: i popoli sono in movimento; realtà sociali e religiose, che un tempo erano chiare e definite, oggi evolvono in situazioni complesse. Basti pensare ad alcuni fenomeni, come l’urbanesimo, le migrazioni di massa, il movimento dei profughi…»6. Non una emergenza, quindi, ma una urgenza sociale e pastorale, che evidenzia la portata dei cambiamenti prodotti dalla modernità: «il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine a una concezione più dinamica ed evolutiva; ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e sintesi nuove»7.L’universalismo procedurale e tollerante svuota l’identità dell’Occidente e lo espone alla decadenza. Ma, come scrive con parole drammatiche A. Touraine, «se non troveremo una soluzione accettabile ai problemi posti, ci condanneremo ad accettare una guerra civile mondiale, sempre più esplosiva, fra coloro che dirigono i circuiti mondiali delle tecnologie, dei flussi finanziari e dell’informazione, e tutti quelli - individui, gruppi, nazioni, comunità - che sentono minacciata la propria identità da questa globalizzazione»8. Lo scontro tra culture - sostiene Huntington9 - determinerà la politica mondiale. I futuri fronti di conflitto saranno rappresentati dalle linee di rottura tra le culture [“cristiana” e “islamica”, “confuciana” e “induista”, “americana” e “giapponese”, “europea” e “africana”]. La prossima guerra mondiale, nel caso ne scoppiasse una, «sarà una guerra tra culture».Anche senza sottoscrivere in toto, il rischio non è in alcun modo retorico. E sollecita la visione pastorale nelle sue responsabilità concrete.Una società multiculturale è positivamente possibile solo se collocata entro un quadro di compatibilità (meglio di congenialità) culturale diffusa, che non si limiti alla definizione della ragione politica, o della regole dell’agire comunicativo, o alla tutela del soggetto, ma identifichi linguaggi sociali (cioè simbolici) realmente condivisi e identità distinte convergenti su valori sostanziali. Per questo la società multiculturale non vive di pensiero debole; deve essere, al contrario, giuridicamente e istituzionalmente forte.Necessaria una identità forteSolo una parola forte é creatrice di identità, quando incontra una libertà autentica. Una parola forte non é una parola chiusa, autoritaria, dispotica. La parola della fede non consegna una identità cristiana prefabbricata: l’identità si definisce nel suo profilo teologico cristiano come processo: «il Vangelo è datore di identità, piuttosto che di consegne etiche»10.In relazione dinamicaL’identità si pone nello spazio della reciprocità relazionale: si costruisce e si manifesta nella relazione, secondo un processo dinamico. Questa relazione non é soltanto quella interpersonale dei contatti intersoggettivi, ma quella radicale della tensione alla verità. Per questo, il dialogo autentico non indebolisce se non le identità deboli. Una evangelizzazione che perdesse il proprio linguaggio, infatti, perderebbe irrimediabilmente se stessa11. Questa non spegne la domanda, perché l’uomo non può cessare di domandare, perché egli è, per definizione, domanda.Come ribadisce il Papa «tutte le forme dell’attività missionaria sono contrassegnate dalla consapevolezza di promuovere la libertà dell’uomo annunciando a lui Gesù Cristo... D’altra parte, la Chiesa si rivolge all’uomo nel pieno rispetto della sua libertà: la missione non coarta la libertà, ma piuttosto la favorisce. La Chiesa propone, non impone nulla: rispetta le persone e le culture, e si ferma davanti al sacrario della coscienza»12.La neutralizzazione pastorale del fenomeno migratorio passa spesso attraverso la scorciatoia dei luoghi comuni e delle soluzioni retoriche e astratte: dal romanticismo (teologico) che vede nelle culture altre solo aspetti interessanti e positivi, all’euforia del multiculturalismo astratto, in cui l’elogio della differenza supplisce surrettiziamente (e maldestramente) al vuoto dei contenuti e delle identità. Questo pluralismo culturale ingenuo si attende magicamente apporti positivi da una realtà che in sé fortemente ambivalente: suscettibile di esiti promettenti, ma anche di cadute verticali; esso rischia di rendere invisibile la complessa dinamica della società moderna»13.Ma l’identità non è una gabbia di ferro, né una polveriera. In questa prospettiva, l’aspirazione non è più tanto a conseguire uno status di uguaglianza, quanto il riconoscimento della propria identità culturale come diritto alla diversità..Di fronte allo straniero l’approccio registra comunemente modulazioni che si possono schematicamente delineare così:- A livello emozionale soggettivo l’altro è sentito come diverso, come estraneo a quanto mi è familiare (estraneità culturale inconscia): sia come pericolo (tremendum), sia come esotico (fascinosum). In ambedue, il rischio tutt’altro che ipotetico di approcci precari, esposti al mutamento e disponibili alla distorsione. - Sul piano oggettivo, l’estraneità si esprime realmente, sotto il profilo culturale, con diversi modelli di comportamento, con altre regole di vita, ecc. Ciò genera insicurezza, che viene affrontata, sul medesimo piano sociale, dalle norme della ospitalitàI due aspetti spesso si incontrano e si condizionano reciprocamente: solo una identità solida è capace di apertura reale. In ogni caso é da respingere come falsamente ingenua la convinzione di una ‘verginità etnica’ del popolo italiano (come, ovviamente, di qualsiasi altro). Al contrario, la dissipazione recente del patrimonio di base cristiano contribuisce non poco a far emergere con maggiore scabrosità quelle tendenze che sono istintive (non naturali!) nell’animo umano, che solo una conversione culturale autentica è in grado di attenuare e correggere, se non di eliminare completamente.Conversione alla mobilità pastoralePiuttosto, «alla mobilità del mondo moderno deve corrispondere la mobilità pastorale della Chiesa»14: conversione pastorale (trasformazioni della pastorale: di mentalità, normative, strutturali, organizzative…). La mobilità non diminuisce il rilievo delle realtà territoriali: il luogo, anche nella mobilità, resta una realtà. Le chiama, piuttosto, a nuove figurazioni e attivazioni. La mobilità spinge a una mentalità, prima ancora che a forme istituzionali, ultraterritoriali. Ciò risponde alla mutata funzione del luogo medesimo, diventato, per effetto della mobilità, “intermediario di molteplici influenze”15.E necessario eliminare le patologie della ‘endogamia culturale’, che producono una Shengen dello spirito. Per quanto concerne gli assetti territoriali, bisogna ricordare che, in una corretta prospettiva teologica, diocesi e parrocchia non possono essere definite solo in termini di territorialità.Respinta la omogeneizzazione culturale, che globalizza i consumi e le evasioni, mentre ghettizza le cittadinanze e le relazioni, che alimenta il provincialismo culturale, l’impegno della pastorale quotidiana riscopre dinamiche proprie e fondamentali della evangelizzazione:- «L’evangelizzazione perde molto della sua forza e della sua efficacia se non tiene in considerazione il popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi segni e i suoi simboli, se non risponde ai problemi da esso posti, se non interessa la sua vita reale»16.- «La conoscenza dell’appartenenza religiosa degli immigrati è elemento fondamentale della vera accoglienza…» (CSER 1994, 7). A partire dai semplici rilevamenti statistici, fino alla compenetrazione nei mondi interiori originari.Necessaria e insufficiente: l’accoglienzaCertamente preziosa (si deve tenere ben presente il monito che viene dalla diffusione delle sette), la pastorale dell’accoglienza si mostra tuttavia insufficiente:- non converte- non integra- ospita temporaneamente (è la concezione - rispettosa ma distaccata - del Gastarbeiter, ben accolto finché conserva il biglietto di ritorno in tasca).L’ospitalità non elimina le differenze, ma le circoscrive e le oggettiva, in modo da esorcizzare il senso di insicurezza.- Nelle culture tradizionali l’ospite è sacro, e l’ospitalità è regolata da norme ben precise, quasi rituali.- Nella modernità declinante, tali regole vengono sciolte dall’indebolimento della identità e dalle esigenze di una certa globalizzazione. Paradossalmente, ciò non produce maggiore accoglienza né più adeguata integrazione, ma:- accentuazione della impressione soggettiva di alterità;- soluzione proclamata (ma non culturale profonda) con il verbo della tolleranza;- pratica ghettizzazione sociale (rafforzamento della identità debole per contrapposizione all’altro, con la nota delimitazione del territorio; difesa dei propri privilegi economici e sociali).Si deve piuttosto camminare verso una concezione del vivere associato in termini di interazione: anche la nozione di comunità viene strappata alla sua radicazione fortemente/primariamente territoriale, per assumere connotati più diffusamente culturali e contorni espressivamente simbolici17.Un banco di prova per la cattolicità antropologica delle comunità territoriali. Ecco alcuni caratteri e requisiti:- conoscenza dell’altro- non pregiudizi, diffidenza, paure- non solo per, ma con l’altro- non si cela dietro alibi di comodo (clandestinità ecc., magari per sfruttare)- condivide, non solo episodicamente- dialogo- contatto con la Chiesa di provenienza (se c’è)- dimensione comunitaria e ‘locale’: gli incaricati (diocesani) e gli esperti della accoglienza dei migranti sono inseriti a pieno titolo nel servizio proprio della pastorale ordinaria.Attivazioni concrete: informazioni, scambi ; partecipazione ai Consigli; un referente pastorale per ogni realtà (nel limite del possibile).L’ospitalità è temporanea. L’integrazione esige contiguità e continuità.ConoscenzaIl fatto di non conoscere le culture straniere ha conseguenze molto gravi, per esempio, sulla politica internazionale dello sviluppo. A volte viene fatto naufragare un progetto, perché percepito come un pericolo per la propria identità. Per conoscere è necessario:- saper guardare senza proiettare alcuna immagine,- superare il pregiudizio,- superare la fretta,- entrare nella prospettiva dell’altro (senza identificarsi con, ma mettendosi dalla sua parte).DialogoUmano, culturale, interreligioso (Redemptoris Missio, 55-57). Il dialogo autentico supera le debolezze della tolleranza18, respinge le ambiguità dell’indifferenza. Vede l’altro in relazione di prossimità19, stabilisce spazi respirati di incontro20; impara “l’ascolto reciproco, il rispetto e l’astensione da ogni giudizio affrettato, la pazienza... doti di un dialogo che all’interno della Chiesa deve essere assiduo, volonteroso, sincero”21. Il dialogo é capace di perdono22. Si nutre di fiducia, vince la diffidenza. Vive in comunità accoglienti, in comunità di comunicazione. Tutto ciò ha il sapore della retorica. Né può essere qui convenientemente articolato. Una notazione, tuttavia non può passare sotto silenzio. Un dialogo denso di significato non si accontenta di un clima di fiducia, rispetto, apertura ecc.; esige, di più, una vera e propria competenza, un’autentica capacita metodologica, coltivata adeguatamente e opportunamente verificata23. Esige una opzione culturale ben profilata. Il pensiero debole non dialoga, non dialoga la ragione strumentale, né quella funzionalistica. Solo il riferimento che non restringe la parola nell’immediato e nel soggettivo, che non la fa superba di troppo (o, che é lo stesso) di nessun sapere, dischiude l’orizzonte al dialogo. Sono necessarie alcune considerazioni e condizioni, secondo l’insegnamento di Paolo VI:- Il dialogo attiva un processo di comprensione: «Pertanto è proprio di ogni autentico dialogo che ognuno si apra all’altro, accetti veramente il suo punto di vista come valido e si trasponga nell’altro per comprendere non l’individuo particolare, ma ciò che dice”24.- «Il dialogo è un gioco con dure regole: dire solo ciò che si intende; ascoltare e rispettare ciò che l’altro dice, per quanto diverso o estraneo; essere disposti a correggere o a difendere la propria opinione se sfidata dall’interlocutore della conversazione; essere disposto a dibattere se necessario, a opporsi se richiesto, a sopportare l’inevitabile conflitto, a cambiare opinione se l’evidenza s’impone»25.- La fede va considerata tanto uno stile quanto una visione di vita.- «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La chiesa si fa parola; la chiesa si fa messaggio; la chiesa si fa colloquio»26. - “Ecco, venerabili fratelli, l’origine trascendente del dialogo. Essa si trova nell’intenzione stessa di Dio”27.- “Bisogna che noi abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo, per comprendere quale rapporto noi, cioé la Chiesa, dobbiamo cercare d’instaurare e di promuovere con l’umanità”28.L’inserimento nel tessuto della comunità ecclesiale locale esige la valorizzazione della cattolicità antropologico-culturale (ben più difficile di quella geografico-universale), una responsabilità ministeriale condivisa (Pastores dabo Vobis, 72) tra le comunità e all’interno della comunità, la edificazione di una comunità comunicativa, narrativa, simbolica29. Solo così si può realizzare una integrazione che faccia il passaggio da assistiti a protagonisti, dalla solidarietà sporadica e spettacolare, fast food della filantropia incapace di progettualità e di azione efficace, a una vera - senz’altro faticosa, ma altrettanto fruttuosa - reciprocità.Le migrazioni nel quadro di una pastorale organicaLa mutazione epocale del contesto socioculturale esige dunque una conversione pastorale di fondo: il passaggio dal paradigma autoreferenziale e ripetitivo della “cura d’anime” (figura dei cerchi concentrici) e della appartenenza a quello missionario e creativo della evangelizzazione (figura della rete).Tutto questo dichiara inefficaci i tentativi di aggiustamenti e adattamenti parziali: non una “pezza nuova sul vestito vecchio”, ma “vino nuovo in otri nuovi”.La considerazione attenta e sapiente del fenomeno migratorio aiuta la pastorale ‘ordinaria’ a comprendere la cattolicità antropologico-culturale (Gl 3,28) in forma non astratta.è necessaria la creazione di una sensibilità ecclesiale diffusa: l’accoglienza è frutto di una chiara coscienza di Chiesa, la manifesta, e, insieme, la incrementa. A questo mirano le iniziative che tendono a formare mentalità di accoglienza e di partecipazione, a cominciare dalla catechesi e dalle occasioni concrete di incontro, con un coinvolgimento a vasto raggio, capace di raggiungere e interessare anche le comunità parrocchiali più lontane dai luoghi classici del pellegrinaggio giubilare. Approfondendo, in questo, l’esperienza sinodale di ecclesialità partecipata e condivisa.E necessario, ancora, superare la visione di una Chiesa dell’organizzazione, dell’assistenza e dell’offerta, che risponde con dovizia di iniziative ai desiderata degli uomini, spesso inseguendoli affannosamente, ma li lascia nel loro muto anonimato. Per attivare, invece, una prassi di coinvolgimento e di partecipazione, in cui emerge chiaro il tratto della valenza ecclesiale. La partecipazione attiva alla accoglienza induce così le parrocchie a essere sempre più comunità, non raggruppamenti o semplici stazioni di servizio spirituale. Una occasione preziosa per sviluppare la corresponsabilità laicale, non assorbendola in orbite strumentali, ma attivandola nella sua specificità. NOTE
1 G.DE RITA, Le prospettive dell’emigrazione italiana in una società in trasformazione, in AA.VV., La pastorale etnica: forma privilegiata di comunione e di cooperazione. Simposio ecclesiale sulla pastorale per l’emigrazione italiana, Roma 28 settembre - 3 ottobre 1992, [29-38] 32.2 Cf F.BARTH, Ethnic Groups and Boundaries. The Social Organization of Cutural Differences, Alle & Unwin, London 1969.3 La composizione religiosa dell’immigrazione in Italia - globalmente si tratta di circa un milione e mezzo di persone - è la seguente: 27,4 % di cattolici, 22,1% di ortodossi o protestanti, 36,5 % di musulmani (primo paese d’origine, il Marocco, secondo l’Albania), 6,5% di altre religioni orientali, 7,6% altro. Siamo ancora lontani dagli alti livelli di residenti stranieri che hanno altri paesi europei, come la Germania o l’Inghilterra, ma il fenomeno è in crescita e il problema sta spostandosi al centro dell’agenda politica. 4 M.WEBER, La scienza come professione [Wissenschaft als Beruf], Rusconi, Milano 1997 [Duncker & Humblot, München/Leipzig 1919], 129: «è destino del nostro tempo, con la sua peculiare razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disincantamento del mondo, che proprio i più alti e sublimi valori si siano ritirati dalla sfera pubblica per rifugiarsi vuoi nel regno extramondano della vita mistica, vuoi nel senso di fratellanza proprio dei rapporti interpersonali diretti. Non è per caso che la nostra arte più alta sia intima e non monumentale, né è per caso che oggi solo nelle comunità più ristrette, nei rapporti da uomo a uomo, in un qualcosa di indefinibile che corrisponde allo spirito profetico che, sotto forma di un fuoco impetuoso, attraversava e rinsaldava un tempo le grandi comunità». 5 GIOVANNI PAOLO II, Slavorum apostoli, 27. 6 RMi 32. 7 GS 5. 8 A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Il Saggiatore, Milano 1998, 23. 9 S.P. Huntington, The Clash of Civilizationis, in «Foreign Affairs», 72 (1993/3), 22-49.10 D.MARGUERAT, Raconter Dieu. L’évangile comme narration historique, in P.BÛHLER et J.-F.HABERMACHER (edd.), La narration. Qand le récit devient communication, Genève 1988, 90.11 Ciò vale per la catechesi come per ogni altro discorso su Dio: “Chi vuol parlare di Dio deve conoscere che cosa il linguaggio sia e comporti” (A.GRÖZINGER, Die Sprache des Menschen. Ein Handbuch, München 1991, 13.12 RMi 39.13 G.BAUM, Due punti interrogativi: inculturazione e multiculturalismo, in “Concilium” 30 (1994) [135-142] 141.14 PAOLO VI, Discorso al Convengo europeo sulla pastorale dei migranti, AAS 65 (1965) 591.15 PONTIFICIA COMMISSIONE PER LA PASTORALE DELLE MIGRAZIONI E DEL TURISMO, Chiesa e mobilità umana, 20.16 EN 63; cf RH 13-14.17 A.P.COHEN, The Symbolic Construction of Community, Routledge, London 1985.18 Cf S.MAGGIOLINI, Cristianesimo e cultura, Casale Monferrato 1989, 19: «Alla fine, il credente non accetterà neppure la “tolleranza” che, poco o tanto, presuppone sempre un atteggiamento di degnazione e forse di sottile disprezzo; accetterà, invece, l’amore alla persona e il confronto onesto con le idee. Il dialogo, cioè, non potrà mai segnare una sorta di reale abbandono della propria identità ritenuta vera e giusta, né potrà essere disgiunto dalla volontà di essere aiutato a scoprire più esplicitamente la verità totale che, in chiave oggettiva, si possiede in Cristo...».19 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, 39. 20 Cf. CEI, Insieme per un cammino di riconciliazione, 39.21 Reconciliatio et paenitentia 25.22 Cf. V. JANKLEVITCH, Le Pardon, Paris 1967, 159.23 Si può applicare qui quanto il Papa diceva ai parroci di Roma nell’incontro quaresimale del 1988: «Qui ci vuole ancora una metodologia. Si deve prevedere una metodologia. Come andare incontro a questo mondo secolarizzato, mondanizzato, ma non del tutto sradicato dal contesto cristiano... La parrocchia deve cercare se stessa fuori di se stessa» (in ´L’Osservatore Romano´, supplemento 21.02.1983).24 H.G.GADAMER, Verità e metodo, Fabbri, Milano 1972, 443.25 D.TRACY, Plurality and Ambiguity, Harper and Row, San Francisco 1987, 19.26 PAOLO VI, Ecclesiam suam, EV/2, 192.27 PAOLO VI, Ecclesiam suam, EV/2, 193.28 PAOLO VI, Ecclesiam suam, EV/2, 194.29 Cf A.P.Cohen, The Symbolic Construction of Community, London 1985: «Tale nozione, tradizionalmente definita da confini territoriali, etnici, linguistici ben precisati e circoscritti, tende peraltro ormai a essere specificata anche e soprattutto nei termini di comunità simbolica».