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Donne migranti


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/03


di Francesca Massarotto
Dei 27 milioni di italiani che vivono nei 5 Continenti, le donne rappresentano quasi la metà: il 45%. Una presenza definita “invisibile”; malgrado la rilevanza numerica, infatti, è stata dimenticata da storici, politici e organismi istituzionali per oltre un secolo. Soltanto dopo la 1° conferenza “Donna italiana in emigrazione”, svoltasi a Roma nel novembre ’97, la presenza delle connazionali nel mondo è diventata tema da discutere. Esattamente dopo 120 anni dall’inizio della grande migrazione italiana verso l’estero.Organizzata dal Ministero degli Affari Esteri, dal CGIE (Consiglio generale degli italiani all’estero), dal Ministero delle Pari Opportunità, dalla Commissione Nazionale per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, dalla Regione Lazio e dal Comune di Roma, la conferenza ha visto la partecipazione di 80 donne italiane residenti nei 5 continenti, in rappresentanza di tutte le connazionali espatriate. A nome di tutte, hanno chiesto “ascolto” e “visibilità” e un giusto riconoscimento del ruolo svolto dalle donne italiane nelle comunità espatriate. Un ruolo che si è rivelato significativo e determinante in ogni Paese.Fin dalla fine dell’Ottocento, le donne italiane hanno accompagnato mariti, padri, fratelli e figli nel grande esodo verso le Americhe e l’Europa. In gran parte analfabete e semianalfabete, se ne andavano senza poter decidere loro stesse, subendo uno sradicamento totale da affetti, legami parentali e vita di paese. Nelle periferie povere delle grandi città industrializzate dell’Europa e dell’America del nord, in luoghi ostili e inabitati del Sudamerica o d’Australia hanno trasportato e mantenuto modelli di vita, linguaggi, tradizioni e valori appartenenti all’antica cultura contadina della provincia italiana, fortemente religiosa e solidale, dedita al risparmio, al rispetto delle leggi, al lavoro silenzioso.Valori, tradizioni, linguaggi e cultura si sono mantenuti vivi fino ad oggi, proprio grazie alla presenza femminile, che li ha conservati, trasmettendoli alle generazioni successive attraverso il ruolo materno.L’arrivo della donna nei paesi d’accoglienza, infatti, ha trasformato il volto delle comunità italiane inizialmente formate soltanto da lavoratori stagionali, i quali, finito il periodo di lavoro, tornavano a casa o vagavano alla ricerca di nuove occupazioni. Gli uomini soli, all’estero erano accolti in camerate e baracche di prima accoglienza, dove dormivano e cucinavano insieme, oppure alloggiavano in pensioni di infima categoria, attendendo il momento di poter tornare in patria.L’arrivo della donna ha dato dignità e stabilità ai gruppi di manovalanza maschile precaria, trasformandoli in comunità permanenti, basate sulla famiglia e sulla salvaguardia delle proprie origini. Donna significa anche figli, famiglie, case, negozi e quartieri italiani: significa costringere governanti e amministratori a provvedere ad alloggi decorosi, a leggi che favoriscano i ricongiungimenti familiari, a un tipo di scuola che accolga e integri i bimbi stranieri, a servizi sanitari adeguati, a spazi associativi contro l’isolamento e a chiese etniche con sacerdoti che diano assistenza religiosa e spirituale e parlino la lingua italiana. Significa diffondere nel quartiere etnico e nella comunità di accoglienza anche costumi, tradizioni, stili di vita tipicamente italiani.Tra le due guerre e nel secondo dopoguerra la donna italiana se n’è andata anche da sola: per seguire il marito, per raggiungere il fidanzato, o semplicemente per lavorare e mandare risparmi in Italia. In questo periodo era registrata dalle autorità italiane “in condizioni non professionali” o come “personale di servizio e fatica”. Nei primi anni del secondo dopoguerra le voci “domestica”, o “casalinga”, registrate nelle liste professionali di espatrio, coprivano il 25% di tutta l’emigrazione italiana: queste moderne “badanti” emigravano più numerose dei minatori, degli operai, dei contadini e dei muratori. Prive di professionalità, senza conoscere neppure una parola della lingua straniera con cui avrebbero dovuto comunicare, senza avere informazioni su quanto avrebbero affrontato, le donne italiane hanno svolto all’estero i lavori più umili, marginali e sottopagati, contribuendo al risparmio domestico e rendendo possibile la riuscita del progetto migratorio a tutta la famiglia, anche quando il “sogno del ritorno” sfumava. In Belgio, in Svizzera, in Germania la donna italiana ha spesso vissuto anche in baracche di legno e in alloggi fatiscenti, ospitando in casa parenti e “bordanti”, questi ultimi compaesani soli e senza famiglia, che ricevevano dalle sue mani cure e alloggio, pasti caldi e biancheria pulita, in cambio di un piccolo contributo in denaro.Nei quartieri minerari e operai della Fensch, nella Mosella francese, o nella Ruhr in Germania; nei quartieri minerari della Vallonia e del Limburgo in Belgio, nelle fabbriche svizzere ha diffuso solidarietà, rispetto per le leggi del Paese ospitante e per le proprie tradizioni, speranza nel futuro. Togliendo definitivamente l’emigrante dalla strada, gli ha offerto la dignità di uomo, confermandolo nel ruolo di marito, di figlio, di padre. Tutto questo ha avuto un costo per la donna, che ha dovuto combattere quasi sempre da sola: il prezzo di uno sradicamento traumatico, di profonda solitudine e isolamento, con momenti di disorientamento e iniziale perdita di sé. Infine, dopo una faticosa integrazione, quando il lavoro dei mariti ha portato benessere e sicurezza economica, per molte è arrivata anche la rinuncia al ritorno in patria: a causa dei figli che crescono bene inseriti nel nuovo Paese, parlano la lingua del luogo e vanno a scuola; a causa dei figli che sposano straniere e lavorano, a causa dei nipotini cui badare. A volte, come nelle zone minerarie d’Europa, la rinuncia al ritorno è stata condizionata dalla malattia e morte prematura dei mariti, colpiti dalla silicosi contratta in minieraI sentimenti di rimpianto e nostalgia sono stati sempre così forti, nelle donne di prima generazione, che li ritroviamo vivi anche nelle nuove generazioni. Insieme alla riconoscenza per la terra che li ha ospitati, offrendo lavoro e accoglienza. Oggi altre donne, a fianco o al seguito di altri migranti, ripercorrono lo stesso faticoso cammino. Si sradicano dagli affetti più cari, dalle loro case e dai paesi d’origine e s’incamminano verso una terra straniera, alla ricerca di un futuro dignitoso, di un migliore avvenire. Sono le immigrate straniere che arrivano ogni giorno in Italia, sole o con figli e mariti. Accettando i lavori più umili, spesso sottopagati, chiedono a noi accoglienza, case in cui vivere e crescere i figli e un’accettazione umana e priva di pregiudizi verso la loro “diversità”. Spesso provviste di titoli di studio, fanno le inservienti negli ospedali, le lavapiatti nelle pizzerie, le assistenti in famiglia come badanti e colf... Oggi siamo noi ad affidare loro le cose più fragili e preziose che abbiamo: i nostri figli piccoli, i genitori anziani, gli ammalati, perfino le nostre case. Dovremmo conoscerle meglio e valorizzarle di più.Come italiani, abbiamo alle spalle una lunga storia analoga alla loro, fatta di cammini sofferti e molte incomprensioni: forti dell’esperienza trascorsa, dovremmo essere in grado di riconoscere e sostenere il ruolo della donna straniera all’interno della comunità, perché la sua presenza può significare stabilità affettiva, dignità e benessere per i propri cari e favorire una graduale integrazione di tutta la famiglia immigrata.è proprio attraverso la consapevolezza di un’esperienza condivisa, che possiamo rendere meno solitario e traumatico il loro inserimento nel nostro Paese. Rispettandone la cultura, la religione, le tradizioni e la lingua, dovremmo essere capaci di arricchirci umanamente nel confronto e nella relazione, aiutandole a valorizzare un ruolo che all’interno della famiglia e della comunità si rivela fondamentale. Se comprese e aiutate infatti, queste donne possono offrire esperienze condivisibili, diventando fattore di crescita e arricchimento non solo per le loro famiglie, ma per tutti noi.Ci riusciremo? Ecco una buona sfida per l’immediato futuro.