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Risorsa e limiti del multiculturalismo


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/03


di Antonio Perotti
Multiculturalismo. E un termine entrato di fatto, bene o male che sia (a mio parere più male che bene), nel vocabolario quotidiano, utilizzato nel dibattito politico e diffuso dai media.Un termine “galeotto”Non ha ancora una precisa definizione concettuale. E un termine che può significare più cose. Lo si usa generalmente senza spiegarne il contenuto. Eppure, senza spiegazione è un termine “galeotto” perché ambiguo, a causa della pluralità dei suoi contenuti. Può non avere consistenza reale ma solo immaginaria: in questo caso può diventare un “mulino a vento” di Don Chisciotte contro il quale si battono nuovi redivivi cavalieri, analoghi a quello di Cervantes.Di fatto, quale ne è l’accezione più frequente, quella attorno alla quale ruota il dibattito oggi, quella per cui si cerca, con preoccupazione crescente, di stabilirne i limiti, di circoscriverne i confini?Vorrei arrivare al “nocciolo” del dibattito attraverso una serie di eliminazioni, escludendo ciò che non è direttamente al centro dell’attuale dibattito, ma che, parlando calcisticamente vi entra per “tiro indiretto”.Il multiculturalismo di cui si parla nella discussione pubblica oggi, non è il “pluralismo culturale” risultante dalle libere scelte dell’individuo, legate alla libertà di coscienza e di pensiero della persona e del suo rispettivo diritto di manifestarle, individualmente o collettivamente, in pubblico e in privato, nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali altrui e nel rispetto dei confini e dei limiti del bene comune: scelte etiche e morali, politiche, fedi e pratiche religiose, visioni dell’uomo e del mondo. Si tratta di un pluralismo culturale bene prioritario che la società democratica persegue assieme ai beni dell’uguaglianza e della libertà e che trova la sua base di legittimità nel quadro sempre più ampio e contestualizzato dello sviluppo storico dei diritti umani della persona, dei diritti del bambino, della donna, dell’handicappato, ecc… Pluralismo culturale fondamentale che non è l’oggetto specifico del nostro dibattito, ma che dovrebbe invece far parte integrale del dibattito attuale, come invece attualmente non si fa. I perché di questa esclusione, li vedremo in seguito.Né per multiculturalismo si intende qui il dialogo - confronto “a distanza”, analogo a quello che si instaurò nel Medio Evo al di qua o al di là del Bacino Mediterraneo tra pensatori cristiani, come San Tommaso d’Aquino, e grandi pensatori arabi, come Avicenna e Averroé, tra culture filosofiche e teologiche, inspirato anche da motivazioni apologetiche, ma sostanzialmente rivolto alla ricerca non di una verità ma della verità. Dialogo-confronto e ricerca teorica che restano fondamentali per l’uomo anche oggi, ma che tendiamo a dimenticare, perché, sia al di qua che al di là del Mediterraneo, la verità si è già convinti di possederla. Convinzione che va ripensata, e dialogo “a distanza” che va pure riattualizzato. Proprio come già Platone nella sua “Apologia di Socrate” scriveva: “Il bene massimo per l’uomo è ragionare ogni giorno sulla virtù e sugli altri argomenti sui quali mi avete ascoltato, sottoponendo ad esame, me stesso e gli altri, e una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta da un uomo” (38 A).Né per multiculturalismo si intende il “melting-pot” culturale veicolato dalle nuove tecnologie di comunicazione (la comunicazione a rete globale), che mettendoci in rapporto virtualmente con le più diverse realtà culturali esistenti sul globo, eliminano, per loro natura, le necessarie mediazioni tra individui e umanità. Comunicazione “desocializzata” e “decontestualizzata” per cui si crede di essere dappertutto e non si è invece da nessuna parte. Forma di multiculturalismo “digitalico” di cui varrebbe la pena di occuparci ma che non è al cuore del nostro dibattito, sebbene non sia da lasciare al margine della discussione. Multiculturalismo che per usare termini cari a Zygmunt Bauman, definirei “liquido”, o “fluido” o “fluttuante”, privo di recinti, confini e barriere. Multiculturalismo di cui tutti abbiamo paura perché erode le nostre identità, ci rende insicuri, privi di certezze e ci spinge a chiuderci in identità-rifugio, esclusive di altre identità.Il multiculturalismo che qui ci interessa non è neppure il multiculturalismo etno-linguistico su base territoriale, derivato in Italia dai diversi processi di formazione dell’unità nazionale (annessioni, conquiste…) che ha incorporato in una unica società politica gruppi ladini, sud-tirolesi, valdostani, friulani, ecc. Si tratta di un multiculturalismo organizzato entro proprie autonomie amministrative e rappresentative nel quadro giuridico unitario dello Stato italiano. Un multilinguismo e multiculturalismo inquadrato in ordinamenti istituzionali evolutivi che suppongono un dialogo costante tra le comunità e lo Stato. Forma di multiculturalismo culturale, senza interattività tra i soggetti, a macchie di pelle di leopardo, tasselli di mosaico giustapposti l’uno accanto all’altro senza che noi ne scopriamo il disegno. Multiculturalismo interno di cui - in genere - non viene evidenziata e sfruttata la risorsa, né vengono sempre interpretate le aspirazioni.Né il multiculturalismo di cui parliamo è il multicomunitarismo a base fondamentalistica, che si traduce in mosaico di comunità identificate esclusivamente ad una appartenenza identitaria, necessariamente chiuse ed esclusive di altre appartenenze; comunità con identità etnica o religiosa assolutizzate, bloccate, dove si arriva perfino a interdire agli individui la libera scelta di nuove appartenenze culturali. Multicomunitarismo, sorgente di “identità” integriste, quasi biologicamente determinate (di cui il recente conflitto nei Balcani o nel Libano ha offerto alcuni esempi), che l’antropologo A. Maalouf definisce le “identità assassine”. Sebbene il multiculturalismo di cui si dibatte oggi sia stato confuso con queste forme di “multicomunitarismo”, esso, come vedremo, ha un contenuto ben diverso.Il multiculturalismo di cui parliamo non è neppure quello della “giustapposizione” di sistemi culturali sullo stesso territorio, vissuta per una esperienza, talvolta più che secolare, attraverso il regime coloniale da molti Stati europei. Multiculturalismo piantato in casa d’altri con la forza, senza alcuna volontà di vera coabitazione, di scambio, di dialogo e di convivenza. Un multiculturalismo gerarchizzato, in posizione asimettrica, di fatto e di diritto, che escludeva deliberatamente la ibridazione delle “culture in contatto” perché si sa che per il colonizzatore, il concetto di “differente” in riferimento al colonizzato, significava “disuguale”. Di questo multiculturalismo “coloniale” noi pratichiamo spesso oggi l’autocensura o l’oblio. Si trattò di un vero “multiculturalismo giuridico” che implicò la compresenza nella medesima società colonizzata di più ordinamenti giuridici. Multiculturalismo giuridico che fu facilitato anche dall’idea - allora diffusa - della disuguaglianza e della gerarchia tra le razze umane. Per le popolazioni locali vennero mantenuti in vigore lo statuto giuridico della persona, della donna, della famiglia, con le tradizioni e costumanze in uso (pratiche di poligamia, di infibulazione, sistemi di caste, ecc…) mentre ai cittadini metropolitani ivi residenti vennero applicati i codici in vigore in Europa. Si potrebbe continuare questa operazione di eliminazione di “multiculturalismi” citando altre forme storiche ben note come quelle risultanti dalla “tratta degli schiavi” nelle due Americhe o l’ “hapartheid” in Africa del Sud e negli Stati Uniti oppure riferendoci alla storia particolare, a noi vicina, della penisola balcanica, ricavando da ogni comparazione interessanti chiarimenti terminologici e concettuali sul contenuto che può esprimere il termine “multiculturalismo”. Ritengo gli spunti accennati sufficienti per venire ora al cuore del dibattito.Se si analizza il concetto di multiculturalismo attraverso l’analisi del dibattito pubblico in corso oggi in Italia, risulta evidente che per “multiculturalismo” si intende “altra cosa”, anche se vi sono aspetti somiglianti con i precedenti, tanto da indurre molti a metterli “nello stesso sacco”.Multiculturalismo introdotto dalle migrazioniIl multiculturalismo di cui si parla oggi viene ricondotto “brutalmente” al solo multiculturalismo etno-religioso introdotto nella nostra società dalle immigrazioni di persone, provenienti da aeree extraeuropee, soprattutto dall’area musulmana.Non è un multiculturalismo “giuridico”, né “a distanza”, né di “giustapposizione”, né “multicomunitario”. In termini pugilistici lo definirei un multiculturalismo “corpo a corpo” per il suo carattere interattivo tra le persone. Da non confondere con nessuno dei multiculturalismi sovracitati. Di fatto invece lo si identifica, snaturandolo, ora all’uno ora all’altro, attraverso i nostri processi psicologici “rappresentativi”.Infatti, invece di considerare e discutere delle immigrazioni “extracomunitarie” partendo innanzitutto dagli uomini che arrivano in cerca di lavoro, di libertà o semplicemente alla ricerca di spazi per un progetto di vita più consono alle proprie ispirazioni individuali o familiari e invece di parlare di contatto - incontro - coabitazione tra persone (noi e loro) parliamo e discutiamo soprattutto, se non esclusivamente, come contatto-incontro tra culture “oggettivizzate”, dando cioè “corpo” alle culture “astratte” che corpo non hanno, ma che, per esistere devono necessariamente essere tradotte e contestualizzate dalla mediazione di uomini. Dimenticando che, se è vero che antropologicamente non esistono uomini senza cultura è altrettanto vero che non esistono culture senza gli uomini.Direi che attraverso gli immigrati che “penetrano” nel nostro territorio col loro corpo, noi diamo - quasi per istinto - corpo ai diversi sistemi o “insiemi-culturali” dei Paesi di provenienza che noi, per aggiunta, riduciamo, attraverso accorciatoie perverse dei nostri processi rappresentativi, alla traduzione storica contingente di alcuni dei loro regimi politico-religiosi attuali.Come se invece di uomini fossero lo stesse culture “oggettivizzate” dalle nostre categorie rappresentative a penetrare nel nostro territorio. Come se il corpo degli immigrati fosse il cavallo di Troia attraverso il quale entrano le loro culture. Non solo: come se attraverso il loro corpo individuale entrassero le loro “comunità” etno-religiose, concepite in modo totalizzante. Identità chiuse ed esclusive di ogni libera scelta identitaria, prigioniere delle loro identità collettive di “nascita”.Dimenticando che chi entra è un uomo che della propria cultura d’origine ha solo frammenti e segmenti, una cultura soggettivizzata attraverso le variabili del suo statuto sociale, il suo grado di istruzione ed educazione, la sua età, la sua dura esperienza di vita grama e che con questa cultura frammentaria porta con sé, come ogni individuo bisogni, interessi, aspirazioni, progetti individuali e familiari. Culture soggette quindi all’evoluzione nel tempo e nello spazio.E così con questo meccanismo perverso del processo di rappresentazione noi costruiamo quello che io definisco il “mulino a vento” del multiculturalismo di cui si parla oggi, il multiculturalismo introdotto dalle migrazioni non nella realtà ma quello delle nostre operazioni mentali.Proiezioni abusiveAttraverso queste operazioni noi facciamo delle proiezioni abusive e perverse, di cui i politici sono talvolta autori e vittime.Parafrasando e invertendo una nota affermazione dello scrittore svizzero Max Frisch che aveva scritto una trentina d’anni fa a proposito degli immigrati in Svizzera “abbiamo chiesto lavoratori, sono arrivati degli uomini”, oggi io direi, con lo stesso intento critico verso i discorsi e le politiche migratorie in Italia: “Sono arrivati (senza chiamarli) degli uomini e li abbiamo scambiati per le loro culture: sono arrivate persone e le abbiamo scambiate per comunità rinchiuse nel loro “comunitarismo”.Un esempio di questa proiezione abusiva? L’interpretazione del concetto di “reciprocità” dei diritti-doveri delle persone immigrate. E di questi giorni l’affermazione di alcuni sindaci veneti, suscitata, tra l’altro, da alcune prese di posizione di personalità ecclesiastiche, che alla domanda loro posta su come si comporterebbero se i musulmani residenti nel loro Comune chiedessero l’autorizzazione a costruire una moschea hanno riposto: “Faremo costruire le moschee quando nei Paesi musulmani (notare: i Paesi musulmani nelle loro generalità) si costruiranno le chiese”. Aggiungendo, quasi con rigore logico: “Questo si chiama reciprocità”.Come se non si trattasse invece di “presa in ostaggio” bella e buona di persone per esigere una sorta di “riscatto”. Si continua così a trattare le migrazioni come se fossero un gioco di carte, nel quale i giocatori sono gli Stati o i diversi sistemi culturali e i migranti, (i veri attori, i soli che possono costruire nuove sintesi culturali contestualizzate ed autentiche) le carte. Senza la loro mediazione, le culture astratte non dialogano e sono rigide; non sono “negoziabili” (le loro e le nostre): non faranno mai sintesi vitali. Cosa c’entrano i regimi culturali d’origine? E così invece di parlare e confrontarci con gli immigrati, abbiamo parlato e parliamo su di loro. Esattamente ciò che l’antropologo culturale francese Todorof osserva nel suo scritto sulla scoperta d’America dei colonizzatori spagnoli nei loro rapporti con le popolazione indiane : “Hanno parlato e scritto molto su di loro, poco con loro”.Quale coesione sociale?A seguito di questa costruzione del “mulino a vento” multiculturale ci si pone oggi la questione della salvaguardia della “coesione sociale” della nostra società, altro termine entrato nel dizionario corrente del dibattito politico e mediatico. Concetto altrettanto indefinito come quello di multiculturalismo. Dove la dimensione sociale della coesione si confonde spesso con quella della omogeneità culturale. Concetto che così come è interpretato porta a immaginare o peggio proporre delle operazioni di preselezione, a porre cioè “la questione della selezione degli immigrati secondo il criterio della più facile integrabilità nel nostro tessuto nazionale o quantomeno di una prevedibile coesistenza conflittuale”. Integrabilità e previdibilità in rapporto a chi e a che cosa? Con chi si deve discutere e chi è responsabile di questa pre-selezione?Qui in Europa (parlo ora dell’Unione Europea) non siamo in territorio coloniale. Non vi è multiculturalismo giuridico. La nostra società politica, per storia e tradizione e per il suo confronto continuo tra tradizione e modernità è una società culturalmente plurale ma è una nel diritto. Unità di diritto non solo per quanto concerne lo “zoccolo duro” dei diritti umani sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo del 1950 (che si applica a tutti in Europa, cittadini o stranieri) e precisato dalla Carta Europea dei diritti fondamentali della Unione Europea (carta di Nizza del dicembre 2001) ma anche per quanto concerne i particolari contemperamenti iscritti nella Costituzione Italiana e nelle leggi nazionali che regolano i poteri attribuiti all’individuo contro la pubblica autorità e i poteri conferiti alla pubblica autorità contro l’individuo. E sulla base di questo Diritto che ci si deve confrontare con le nostre identità individuali o collettive (culturali). E su questa base che ci universalizza che dobbiamo comunicare e confrontare i nostri diritti e doveri, memori di quanto Aristotele affermava a proposito della “civitas” (la società politica): “communicatio facit civitatem” (la comunicazione costruisce la società politica).Comunicazione che implica il confronto nel dibattito pubblico. E lì che misuriamo la porosità oltre che la rigidità delle nostre identità culturali (noi italiani e gli immigrati).E su questa base che deve avvenire non la preselezione alle frontiere ma il confronto/selezione dei comportamenti culturali delle persone e delle comunità qui, sul nostro territorio. E qui che dobbiamo fissare i limiti o confini delle nostre identità culturali e quindi del “multiculturalismo” possibile e vitale che aggrega anziché frammentare.E lì che scopriamo gli pseudodiritti delle nostre identità culturali (parlo sia dei cittadini italiani che degli stranieri), quelle cioè che non accettano la dialettica particolare/universale. L’identità, infatti, è il rapporto tra “il recto e il verso”, il “faccia a faccia” tra il carattere personale e comunitario, tra individuo e società. La persona individuale non è isolata. Se si afferma l’identità come un diritto alla differenza senza indicare l’altra faccia, la somiglianza, il diritto alla mia identità si trasforma in pseudo-diritto sia che si rivendichi da un cristiano, sia che essa sia rivendicata da un musulmano. Se si rispetta questa dialettica la “coesione sociale” (riferendoci al solo lato culturale) non può essere messa in pericolo. L’identità culturale è un luogo di formazione del legame sociale e politico. Essa si costruisce per un processo interattivo di assimilazione e differenziazione. Una identificazione è una creazione di legami (differenziazione/ coesione). Qualora si rispettino queste dialettiche culturali, la coesione sociale, può essere minacciata piuttosto da altre cause: dall’ineguaglianza dello statuto giuridico tra cittadini e stranieri, dall’ineguaglianza sul piano della partecipazione alla vita politica (la “polis”), dal razzismo o dall’intolleranza dell’ambiente, dalle diverse discriminazioni sociali, dalle immagini e rappresentazioni mediatiche o suscitate dal comportamento ideologico o manipolatore di certi leaders comunitari (siano essi stranieri o italiani). E da qui che nascono le “identità polemiche” o “comunitariste” più ancora che dalla rigidità delle culture. Non addossiamo alle culture colpe che non hanno. Mettiamo invece limiti e frontiere a chi le manipola con le ideologie.Multiculturalismo una risorsa?A queste condizioni, come può il multiculturalismo, costituire una risorsa?L’uomo è stato definito come un essere costruttore di culture.Ogni gruppo umano si è trovato e si trova davanti alla necessità di situarsi in rapporto a un tutto esistenziale, di regolare i suoi rapporti con la natura, in rapporto con la materia (tecniche e arti), i rapporti tra l’uomo e il suo corpo, i rapporti tra uomini e donne (sessualità, generazione e amore), i rapporti tra i diversi membri del gruppo (ruoli sociali, regole di parentela, leggi, comportamento verso i bambini, gli anziani o gli stranieri, costumi, etica), tra l’uomo e l’aldilà o le forze soprannaturali (religione, credenze, magie). Questa situazione generale è comune a tutte le culture e società umane. Quello che è particolare a ciascuna è la risposta specifica che è stata data a questo insieme di problemi. E tale risposta che dà ad ogni società un profilo riconoscibile fra tutte le altre. Queste risposte non sono scritte nel patrimonio genetico dell’uomo. Egli le deve inventare con la sua razionalità, le deve produrre collettivamente ed esse devono essere riconosciute e adottate dal gruppo. L’unica specie umana si è frantumata così in gruppi umani distinti che esprimono questo patrimonio globale evolutivo dell’individuo e dei gruppi e che è all’origine di differenti maniere di essere uomini, secondo l’espressione del genetista francese Albert Jacquard. Il multiculturalismo che nasce da questa condizione universale dell’uomo come costruttore di cultura può costituire una risorsa, qualora con le persone e i gruppi portatori di queste maniere differenti di “inventare l’uomo” si incontrano, come nelle immigrazioni, e interagiscono nella collaborazione, nella comunicazione e nel confronto e scoprono la loro appartenenza universale, le loro somiglianze radicali pur nelle loro particolarità culturali.Certo queste riflessioni non sono risposte esaustive al tema indicato nel titolo di questo scritto. Possono essere tuttavia, considerazioni per impostare più correttamente la questione.