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L'esigenza di una pastorale specifica


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/03


di Luigi Petris
Un’amara sorpresaE successo alcuni anni fa in una città del Veneto, ove le Chiese locali sono particolarmente attente ai problemi dei migranti. I parroci del luogo ritenevano superfluo offrire ai cattolici ghanesi - in numero sempre crescente - occasioni di preghiera e di formazione in cui essi potessero esprimersi nella propria lingua: “Le nostre chiese, sale, oratori sono aperti a tutti. Vengano da noi. Perché creare dei gruppi separati, quasi una chiesa parallela alla comunità locale?”. A sostegno di questa scelta c’era, per così dire, un “dovere di riconoscenza” di questi stranieri. In fondo la comunità cristiana si era dimostrata generosa e dinamica nell’aiutare chi avesse bisogno.Ma i cattolici ghanesi apparivano “ingrati”. A parte qualche presenza sporadica a qualche S. Messa, essi non frequentavano le celebrazioni domenicali della comunità. Perché?Casualmente si venne a sapere che ogni sabato un minibus passava veloce lungo le vie della città, raccoglieva piccoli e grandi e li portava numerosi in un baraccone ove pregavano, cantando e suonando! Si sparse la voce che alcuni si erano fatti ribattezzare nel fiume Brenta. Come mai poteva accadere tutto questo in un mondo cattolico da sempre? La spiegazione fu facile. Alcuni ghanesi appartenenti ad una setta pentecostale offrivano ai connazionali un luogo di preghiera loro congeniale, ove essi potevano esprimersi con spontaneità e libertà usando non solo la loro lingua ma anche le loro tradizioni culturali che prendevano forma nei canti, nella musica e nelle danze.Gli occhi si aprirono e in tempi relativamente brevi arrivò, chiamato dal vescovo, un sacerdote cattolico ghanese che iniziò ad inserirsi tra i suoi offrendo momenti di preghiera sostenuta dalla loro lingua e da quelle espressioni (canti, danze, ecc.) che esprimono in modo vibrante la loro profonda religiosità.Enchiridion della pastorale migratoriaLa Chiesa è «esperta in emigrazione». Questa asserzione vale se si tiene presente il secolare impegno dei missionari d’emigrazione tra i migranti di tutti i continenti. Eloquente al riguardo è l’ “Enchiridion della Chiesa per le migrazioni” - edito dalla Migrantes nel 2000 - la raccolta completa dei documenti della Chiesa sulla pastorale della mobilità umana (1887-2000). Trattasi di documenti non stilati a tavolino. Essi sono il frutto delle fatiche di migliaia di operatori pastorali (sacerdoti, religiosi e laici) che hanno condiviso speranze e preoccupazioni con chi è stato costretto a lasciare la sua terra.Purtroppo anche nelle nostre Chiese locali non pochi operatori pastorali ignorano questa storia. Essi si impegnano con grande dedizione in questo nuovo campo d’azione ma spesso agiscono come fossero i primi ad affrontare il problema dell’assistenza pastorale degli stranieri. E da augurarsi che i pastori delle nostre Chiese sappiano fare tesoro dell’esperienza delle comunità italiane nel mondo e non si ripetano scelte pastorali inopportune che spesso hanno allontanato dalla Chiesa chi desiderava esprimere la propria fede in forme diverse da quelle della Chiesa d’accoglienza che, forte della sua maggioranza, esigeva una rapida integrazione.Rispetto delle culture diverseLa magna charta della pastorale migratoria è la Costituzione Apostolica Exsul Familia (1952) di Pio XII. Eppure gli studiosi, esperti di teologia pastorale dell’emigrazione, sono concordi nell’affermare che questo documento ha un limite vistoso, quello di aver preteso di fissare la cura pastorale specifica alla seconda generazione dei migranti, dando per certo che con essa il processo di inserimento ecclesiale sia concluso.Questo “errore” di valutazione è dovuto ad un concetto riduttivo della “pastorale migratoria”, vista come una eccezione, una deroga e quindi un permesso ad tempus che turba la vita tranquilla di una parrocchia e quindi al più presto da eliminare. Con una simile mentalità il migrante che entra in una comunità, in una Chiesa, non è considerato portatore di valori e di conseguenza non si favorisce una visione aperta al pluralismo pronta ad accogliere un patrimonio culturale diverso e lasciare spazio ad espressioni religiose proprie.Il Concilio Ecumenico Vaticano II spalancherà questa porta e avvierà ad un salutare aggiornamento. E significativo che il Motu proprio Pastoralis Migratorum cura con annessa Istruzione “De pastorali Migratorum cura” (DPMC, 1969, Paolo VI) sia il primo documento ufficiale di un certo rilievo emesso dopo il Vaticano II, quasi che i primi a ricevere i benefici influssi di una nuova era dovessero essere i migranti. La Pastoralis Migratorum Cura segna un giro di boa nella pastorale migratoria, qualcuno - esagerando un po’ - ha parlato di una rivoluzione copernicana.Due forti e, per così dire, moderni elementi - sono attenzioni tipiche del Vaticano II - entrano come lievito in questa nuova visione della pastorale.Innanzitutto il mondo dei migranti deve veder impegnato tutto il popolo di Dio. Religiosi e laici vengono direttamente chiamati in causa, a collaborare e ad assumere responsabilità.La seconda “scoperta” è quella della cultura o meglio del rapporto tra fede e cultura. Essa afferma che il migrante ha il diritto di conservare il suo patrimonio spirituale, ben consapevole che la fede supera ogni cultura ma che il messaggio evangelico rimarrà inefficace se non si terranno presenti le esigenze delle diverse culture: “Il patrimonio spirituale di pensieri, di tradizioni e di cultura… dev’essere dappertutto tenuto in grande conto” (DPMC, 11). Sempre nello stesso paragrafo dell’Istruzione si legge: “E poiché tutto questo rappresenta il mezzo e la via naturale per conoscere e comunicare gli intimi sentimenti dell’uomo, la cura dei migranti porterà certamente più abbondanti frutti se prestata da quanti conoscono bene tali fattori e posseggono, nel senso pieno, la lingua degli stessi migranti. Appare quindi evidente e risulta confermata l’opportunità di affidare alla cura dei migranti a sacerdoti della stessa lingua, e ciò per tutto il tempo richiesto da vera utilità” (DPMC, 11). Con quest’ultima asserzione, senza limiti di tempo, viene superata la ristretta visione dell’Exsul Familia ferma alla seconda generazione.Esigenza di una pastorale specificaFonte ispiratrice di questa svolta è il Concilio Vaticano II che ha rivalutato il costante insegnamento della Chiesa e cioè che si può rispondere adeguatamente alle esigenze di coloro che sono coinvolti dalla mobilità solo attraverso una “pastorale specifica”. Si parla di pastorale specifica quando una qualche categoria di fedeli mostra particolari bisogni, cui non può adeguatamente rispondere la pastorale ordinaria. E il caso dei militari nelle caserme, dei detenuti nelle carceri e dei degenti negli ospedali, ma è pure il caso di movimenti di spiritualità o di altri gruppi impegnati in esperienze particolari di vita cristiana e di apostolato. Un’attenzione specifica, espressa da apposito personale e apposite strutture, viene da lungo tempo dedicata anche a particolari gruppi etnici, come le minoranze linguistiche (francesi, tedesche, slovene) lungo l’arco alpino e le minoranze albanesi di vecchia data al Sud (vedi le eparchie di Lungro e di Piana degli Albanesi). Più che centenarie sono pure la “chiese nazionali” tuttora funzionanti a Roma e in altre città per gli “stranieri di lusso”, come americani, francesi, tedeschi, spagnoli e portoghesi.Per i migranti di oggi si presenta, e per più pressanti motivi, il medesimo problema. Difficilmente la pastorale ordinaria delle nostre parrocchie può rispondere alle loro esigenze del tutto particolari. La diversità di provenienza, etnia, lingua, cultura e tradizione fanno facilmente da barriera per un pieno e rapido inserimento di questi stranieri nelle nostre comunità. Non si tratta di insensibilità, di pregiudizio o di rifiuto. Queste comunità non sono in grado di offrire l’ambiente e di usare il linguaggio che metta questi cristiani, singoli e gruppi, a loro agio in mezzo a noi. L’inculturazione della fede e della vita cristiana (lo hanno ribadito in modo inequivocabile gli ultimi Sinodi continentali dei Vescovi) sono una cosa molto seria. Non possiamo passarci sopra senza compromettere forse irreparabilmente il più sacrosanto patrimonio di questi credenti nel medesimo Cristo e senza fare un torto ai loro sacrosanti diritti. Essi infatti, per loro dignità di battezzati, reclamano una cura pastorale fatta su misura delle loro esigenze. Se così non fosse, rimarrebbe vuoto di contenuto il memorabile slogan di Giovanni Paolo II: “Nella Chiesa nessuno è straniero”. La Chiesa è madreIn altri termini noi ci domandiamo: ai tanti sradicamenti, cui l’emigrazione odierna forzatamente sottopone, sradicamento dalla terra di origine, dalla famiglia, dalla lingua, dalla cultura e tradizione, chi può avere la pretesa di aggiungere lo sradicamento anche dal contesto religioso in cui la vita cristiana è nata e si è sviluppata? Sarebbe una violenza ingiustificata, arbitraria che, per di più, viene ad affliggere questi fratelli in un momento particolarmente duro e provato della loro vita. Ben venga dunque questa attenzione di santa Madre Chiesa perché essi possano continuare a vivere ed esprimere il loro patrimonio cristiano senza sradicamenti e traumi, il più possibile in ideale continuità con la vita precedente. Perciò è tassativa l’indicazione della S. Sede, ribadita anche di recente dalla Chiesa italiana: questi stranieri cattolici vengano favoriti in tutti i modi nel costruire comunità di fede e di culto che con parola corrente, anche se non del tutto felice, chiamiamo “comunità pastorali etniche”, fornite - per quanto possibile - di proprie strutture e di propri operatori pastorali.Va precisato che al parroco del luogo (DPMC, 30) non viene affatto sottratta la primaria responsabilità e competenza anche giuridica su quanti vivono nell’ambito del suo territorio. Egli, per esempio, avrà pari titolo del cappellano etnico, eventualmente designato dall’Ordinario, per amministrare i sacramenti come pure sentirà il dovere di far visita in casa a questi suoi parrocchiani, verso i quali tuttavia ha viva consapevolezza di non poter prestare, da solo, un servizio adeguato. Per questo egli riconosce la convenienza, anzi la necessità che la sua pastorale ordinaria venga integrata da interventi più o meno sistematici di pastorale specifica.Strutture per la pastorale specificaCome di fatto possa essere impostata in una diocesi la pastorale specifica per i cattolici stranieri e per particolari etnie, dipende da una serie di circostanze, come il numero dei cattolici, le loro possibilità di aggregazione, la disponibilità di operatori e di strutture.Prima ancora che al singolo parroco, la responsabilità e il discernimento sulle scelte concrete spetta al Vescovo, anche per il fatto che spesso più parrocchie o l’intera diocesi è interpellata dal medesimo problema. Anzi non va escluso che una risposta soddisfacente non possa essere data che da una collaborazione interdiocesana o addirittura a livello nazionale. L’Istruzione della S. Sede allegata alla Lettera Apostolica Pastoralis Migratorum Cura di Paolo VI prevede la “Parrocchia personale” (più non si parla di parrocchia “nazionale”) o la “Missione con cura d’anime” che di fatto gode delle medesime facoltà parrocchiali, solitamente estese ai fedeli di una data etnia o lingua, sparsi in tutta la diocesi.Questa parrocchia o missione può avere chiese e altre strutture proprie o può far capo a una parrocchia territoriale, pur mantenendo la sua identità e autonomia dalla medesima. Nel caso di un numero ridotto di fedeli o per altri motivi il Vescovo può dare le facoltà che ritiene opportune a un Cappellano italiano o etnico a tempo pieno o “part-time”.Spesso accade che, in attesa di qualche intervento ufficiale da parte della Diocesi, si attivi nel frattempo l’iniziativa spontanea della base: può essere qualche gruppo etnico, per esempio di filippini o di latino-americani, che va in cerca di un “loro” sacerdote attorno al quale sentirsi comunità, può essere che un missionario di rientro dalle missioni o altro operatore pastorale a conoscenza della lingua e della cultura degli immigrati, prenda qualche iniziativa per tenerli uniti garantendo alcuni servizi pastorali; può essere infine che il Vescovo prenda atto di questa comunità già costituita e proceda a un riconoscimento formale.Oggi la pastorale migratoria non può essere demandata a qualche persona di buona volontà ma deve entrare nella pianificazione pastorale delle parrocchie e delle Chiese locali come impegno della comunità, di Chiesa. Deve entrare sfruttando la ricchezza dell’esperienza ecclesiale in questo settore. Non siamo i primi a trattare questi temi e problemi. Prima di noi sono stati tanti altri operatori pastorali che hanno sofferto e combattuto per dei valori e per una visione di Chiesa aperta, pentecostale, non omologata ed uniforme.La legge della comunioneRitengo, a conclusione delle riflessioni esposte, riportare uno di questi valori come descritto dal Santo Padre nel primo Messaggio - dal significativo titolo Il diritto dei fedeli migranti alla libera integrazione ecclesiale - inviato con sua firma in occasione della Giornata Mondiale delle Migrazioni del 1986. Esso riguarda un aspetto strettamente legato al tema della pastorale specifica da noi approfondito, e cioè quello dell’integrazione che in termini ecclesiali andrebbe meglio tradotto con quello di comunione: “Nell’ambito della emigrazione, ogni tentativo inteso ad accelerare o ritardare l’integrazione, o comunque l’inserimento, specie se ispirato da una supremazia nazionalistica, politica e sociale, non può che soffocare o pregiudicare quella auspicabile pluralità di voci, la quale scaturisce dal diritto alla libertà d’integrazione che i fedeli migranti hanno in ogni Chiesa particolare, in cui l’accettazione reciproca tra i gruppi che la compongono nasce dal vicendevole rispetto culturale…. Così si pone in evidenza, in concreto, la cattolicità della Chiesa nella varietà delle etnie e culture; e tale cattolicità implica una completa apertura agli altri, una prontezza a condividere e a vivere la medesima comunione ecclesiale”.E questa una chiara visione di Chiesa che dovrà impegnare nel prossimo futuro, Pastori, sacerdoti, laici, le comunità di credenti e le Chiese locali della nostra Italia.