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La forza di una Chiesa debole


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/03


di Henry Teissier
Talvolta la nostra Chiesa è presentata come una Chiesa del silenzio. Effettivamente in un paese musulmano che ha vissuto più di centotrent’anni di colonizzazione, la maggior parte degli abitanti sono molto sensibili a tutto ciò che può sembrare tentativo di dominazione culturale o di proselitismo. Una predicazione esplicita del cristianesimo susciterebbe una reazione immediata di rigetto. E sarebbe tagliata la relazione di fiducia tra cristiani e musulmani.Questo significa forse che la nostra piccola Chiesa è ripiegata su se stessa nel silenzio? No affatto, perché ciascuno di noi vive in relazione quotidiana con il suo ambiente musulmano. E d’altra parte molti musulmani algerini desiderano che i cristiani restino tra loro. Lo desiderano perché vogliono vivere un Islam aperto, che accetta l’altro. Lo desiderano anche perché molti di loro hanno nostalgia di un’epoca un po’ idealizzata in cui l’Algeria conosceva il pluralismo religioso. Quest’epoca è passata. Tutti gli ebrei, numerosi, che erano storicamente e culturalmente algerini, hanno dovuto lasciare il paese. Anche la maggior parte dei cristiani di origine europea hanno dovuto partire all’indipendenza del paese (1962).I cristiani, qualche migliaio, formano piccoli gruppi sparsi in quest’immenso paese, attorno ad un nucleo di sacerdoti (110), di suore (170), o di laici consacrati o permanenti. Ma, ripeto, pensare che la nostra Chiesa sia una Chiesa del silenzio sarebbe completamente sbagliato. La nostra Chiesa è una Chiesa della relazione e dell’incontro, attraverso il servizio. Potremmo parlare, in un’altra occasione, del sacramento dell’incontro che noi ci doniamo gli uni gli altri, i cristiani ai musulmani e i musulmani ai cristiani, secondo una bella espressione che ci é stata proposta del teologo gesuita Christophe Theobald.1. L’esperienza apostolica della Chiesa d’AlgeriaOggi, in quest’incontro nazionale dei direttori diocesani Migrantes, vorrei presentare piuttosto le nostre piccole comunità sparse nel paese come formanti una Chiesa ‘diaconale’. La nostra Chiesa è una Chiesa del servizio. E in quest’espressione diaconale dell’essere cristiano si esprime anche un annuncio del vangelo, rispettoso dell’altro, certo, ma reale.Infatti il servizio messo in opera attraverso il gesto, il lavoro, il dono di sé, è essenziale al cristianesimo: “Amerai Dio con tutto il cuore, e il prossimo come te stesso” o ancora: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire”.Questo servizio, questa diaconia ecclesiale, noi la viviamo nella debolezza. Il nostro numero è ridotto, l’ho già detto, a qualche migliaio di cristiani per trenta milioni di musulmani. I nostri mezzi sono limitati: tutte le istituzioni di servizio sono state nazionalizzate o integrate nelle strutture pubbliche nel 1976: centri di formazione professionale, dispensari, ospedali, pensionati per ragazze, scuole, ecc.Il nostro servizio cristiano si situa negli spazi ristretti in cui è accettato dallo Stato algerino, come fatto da stranieri, o da cristiani algerini, considerati stranieri al gruppo nazionale musulmano.Ma tutta la nostra Chiesa è diaconale perché ciascuno di noi, secondo la propria competenza, sceglie e assume il servizio che può svolgere: i servizi sono molto diversi: corsi di alfabetizzazione e di sostegno scolastico, formazione femminile al cucito, al ricamo, al macramé, alla maglieria su macchina o più ampiamente attraverso una pubblicazione di educazione femminile; sostegno a persone anziane o ammalate, ai migranti o ai rifugiati; formazione di maestre d’asilo o di educatrici; centri per handicappati mentali o dell’udito, aiuto alle vittime della violenza, biblioteche per studenti, preparazione al lavoro professionale, centri culturali (Centro di studi a Algeri, Centro Pierre Claverie a Orano, Dilou a Constantine; centro di studi saariani a Ghardaia ecc.)Si potrebbe pensare che la nostra Chiesa si è trasformata in un’agenzia di aiuto sociale. Ci sembra che ciò non sia vero. E chiaro per tutti i nostri partners musulmani che i nostri impegni di servizio cristiano sono l’espressione stessa della nostra fedeltà cristiana. Ciò è assai evidente per le religiose. I nostri amici musulmani sanno che l’impegno diaconale “delle suore” è la traduzione nel concreto della loro vita religiosa cristiana. Ma questo diventa evidente per i nostri amici musulmani anche quando ci conoscono come cristiani, laici, sacerdoti o religiosi. Così il servizio cristiano diventa un’espressione del nostro essere cristiani. Per noi, non c’è fedeltà a Dio, senza che questa fedeltà si esprima attraverso un servizio ai nostri fratelli.Un’altra dimensione di questo servizio diaconale. I fratelli che noi serviamo sono i nostri fratelli credenti dell’Islam. Il “servizio” cristiano non si chiude su se stesso a beneficio dei soli cristiani; è aperto a tutti. Questo del resto è un tema spirituale molto forte per noi in Algeria, poiché ci è stato mostrato nella vita di Fratel Charles de Foucauld. L’eremita dell’Hoggar non era un eremita rinchiuso nel suo eremitaggio, era un fratello per tutti quelli che bussavano alla sua porta. Del resto sceglieva il luogo delle sue dimore (Beni Abbes, Tamanrasset, Assekrem) in modo che gli permettessero di “incontrare” le popolazioni che voleva servire.Così il secondo carattere della nostra identità cristiana espressa dal nostro servizio cristiano è la sua universalità. Gesù ha detto: “Se salutate solo i vostri fratelli, cosa fate di straordinario? Non lo fanno forse pure i pagani?”.Ora vorrei permettermi di illustrare le ripercussioni di questa testimonianza diaconale presso i nostri partners musulmani. Mi propongo dunque di leggere con voi alcune di queste testimonianze.Desidererei ora lasciare la parola ad alcuni nostri partners musulmani perché esprimano loro stessi come percepiscono il nostro servizio diaconale nella loro società.Un giornalista algerino esprimeva così la sua riconoscenza a una cristiana di Algeri che era stata sua insegnante ed è restata fino adesso nel quartiere, a servizio degli handicappati.Avviliti di essere stati occupati così a lungo dalle illusioni che fabbrica un sistema imbecille e dai suoi saltimbanchi da tre soldi, siamo andati a farle visita. Era sempre là, solida come una roccia. “Là” non era un quartiere chic. “Là” è il territorio dove il sistema ha abbandonato gli uomini, le donne e i bambini. “Là” è stato anche il territorio della guerra, dove dei bambini si sono scontrati con dei muri e sono diventati matti. “Là”, pur tuttavia, è rimasta. Solida, fedele, sempre piena di humor, come l’abbiamo conosciuta da bambini, sempre piena di quella bontà che ha illuminato tanti cuori. “Là” è rimasta. Tra Maquaria, Oued Ouchaiah, la Glacière e Pélém. In questi territori della frustrazione, in questa piaga dove una parte del paese ha creduto di essere senza paese. Marie Thérèse Brau è rimasta e la gente la ringrazia. La gente aveva così paura per lei durante quegli anni imbecilli e rossi. Le hanno perfino consigliato di prendere un po’ di distanza, ma lei è rimasta in questi quartieri. Da così tanto tempo ci ha vissuto la sua vita di donna d’eccezione e continua a viverci. Continua a lottare, con dolcezza, per strappare qualche locale che mette a servizio dei più poveri tra i poveri, gli handicappati mentali. E questa donna è così incredibilmente vera, così giusta che tutta la gente di Levelley, l’Oued Ouchaiah, la Glacière, Boubsila... la ringrazia di essere stata un giorno sul loro cammino.è ancora là, in quell’associazione di “Aiuto popolare familiare” che poco a poco si moltiplica nel paese, sempre a cercare di ottenere qualche locale, qualche piccola cosa a dei responsabili insensibili. Quella donna lì, è oro puro.Per noi ragazzacci di Levelley, l’Oued Ouchaiah e tanti altri quartieri popolari, questa donna fu il primo maestro. E quando la incontriamo oggi e la troviamo ancora all’erta, a servire i più poveri tra i poveri, ci rendiamo conto che non cesserà mai di essere il nostro maestro.Così il nostro servizio diventa un segno e suscita una riflessione sulla società e i suoi comportamenti. Il servizio va, tuttavia, più lontano. Fonda una relazione, e questa oltrepassa l’aiuto dato. Infatti, questo rapporto stabilisce una relazione durevole tra i due partners che, al di là delle differenze culturali e religiose, appartengono ormai l’uno all’altro, come dice una giovane donna a proposito dei cristiani che lavorano nella sua città sul piano sociale :“Cari amici della comunità cristiana, voi avete scelto bene di vivere con questo popolo, di condividere le sue gioie e le sue pene! Voi avete scelto, o è stato Dio che ha scelto per voi. L’importante è che voi ci siete, siete già qui e sarete sempre qui. In questo modo la vostra presenza non si limita alla relazione creatasi per l’insegnamento dato e l’aiuto fatto; questa presenza vostra va oltre tutto questo. Sì, è diventata più profonda. Non sarei logica se non dicessi che la vostra esistenza su questa terra e tra questo popolo non è andata al di là di voi. Perché una parte di voi stessi ci appartiene, non si può esistere da qualche parte, senza appartenere in qualche modo all’altro”.Terminando vorrei sottolineare anche un altro aspetto della nostra diaconia. Diaconia che si svolge nella debolezza. Non abbiamo più alcuna sicurezza : nè quella del numero, nè quella dell’importanza dei servizi resi. Il nostro numero è insignificante, così come il nostro peso politico, dato che la nostra origine, in grande maggioranza straniera, ci impedisce ogni pretesa di potere sulla società. Non abbiamo neanche l’importanza dei servizi che offriamo poiché non sono paragonabili con i mezzi messi in opera dallo Stato.Ma è proprio questa debolezza che rende possibile la nostra relazione con la società algerina. Il ricordo dell’epoca della dominazione coloniale renderebbe inaccettabile, direi odiosa, all’opinione musulmana, una presenza cristiana che cercherebbe di imporsi. Un incidente recente ci mostra la forza di questa testimonianza nella debolezza. Il parroco di Tebessa, città all’est algerino, vicina alla frontiera tunisina, è stato espulso dal suo appartamento da un rappresentante della legge inviato dal proprietario, mentre questo prete era degente in ospedale. Uno dei più importanti quotidiani d’Algeri gli rende omaggio, in questa occasione, insistendo sul servizio in favore dei poveri vissuto da questo prete, con i seguenti termini: ... “ La legge è fatta cosi : non tiene conto dei duri momenti del terrorismo in cui il P. Claude aveva rifiutato di lasciare l’Algeria, sotto la minaccia del G.I.A. mentre la porta della sua umile dimora era rimasta aperta, nonostante le minacce di morte che pesavano su di lui. La giustizia non tiene conto che Claude Gary era il parroco dei musulmani e che si prodigava ad alleviare il dolore e la miseria dei più bisognosi. In nome del popolo algerino Claude Gary è stato sloggiato. Un popolo che il Parroco amava con tutte le sue forze, fino a consacrargli tutta la sua vita”.Un giovane padre bianco, assassinato dagli estremisti in Cabilia, il 27 dicembre 1994, ha lasciato una bella meditazione su questa diaconia vissuta nella debolezza: «un vero incontro con l’altro non è possibile a chi si crede superiore. E questo il motivo per cui la coabitazione di uomini di religione differente non sfocia in una vera comunicazione. Nel maghreb le comunità cristiane sono caratterizzate dalla loro piccola consistenza, dalla precarietà del loro statuto in seno alla società. Tutto questo può condurre alla paura e spingere a formare dei ghetti. Ma, nella fedeltà al Cristo che ha scelto la strada del servo per vivere l’incontro, il cristiano sa di essere chiamato a trovare nella sua debolezza, un’occasione per accogliere la forza di Dio. «E nella misura in cui non siamo una minaccia gli uni per gli altri, che i nostri incontri sono più liberi. Questa forma é fonte di fecondità. La nostra situazione di piccolezza può diventare un’occasione per fare assegnamento sugli altri, per lasciarsi accogliere e dare così vero senso alla parola di Gesù: «Chi accoglie voi, accoglie me.» I cristiani della diocesi di Laghouat affermano, nel loro sinodo: riteniamo sia una grande opportunità per la nostra chiesa scoprire giorno per giorno, che la strada della missione passa per la povertà evangelica. Accettare la precarietà delle nostre situazioni è già vivere la povertà».è evidente che il segno offerto prende la sua più alta dimensione quando è iscritto nel dono che il testimone fa della sua propria vita. Una giovane medico ce lo scriveva pensando ai 7 monaci di Tibhirine, vittime dell’amore per i loro vicini musulmani. E’ in effetti, per solidarietà con i vicini, che i monaci, nonostante i rischi, hanno deciso di restare nel loro monastero, a periglio della loro vita.«Oggi, leggendo un articolo riguardante i monaci, ho pianto come se fossero appena stati uccisi, come se mi avessero comunicato la scomparsa di un essere caro. In effetti chi sono questi monaci se non i nostri fratelli in Dio…Ho sentito una pena irrimediabile, un dolore intollerabile, che solo Dio può attenuare. Prego Dio che possiate vivere accanto a noi senza timore nè problemi, con le nostre differenze ma con ciò che ci lega per l’eternità: l’amore e l’avvicinamento a Dio. Io credo che Dio voglia la presenza della chiesa nella nostra terra d’Islam…Voi siete una talea sull’albero dell’Algeria che, se Dio vuole, fiorirà alla luce di Dio».Sappiamo che il senso del sacrificio dei monaci ci è stato dato nella sua più sublime espressione nel testamento di P. Christian.«Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese. Che essi accettassero che il Padrone unico di ogni vita non può essere estraneo da questa dipartita brutale… Mi piacerebbe, se venisse il momento, di avere quello sprazzo di lucidità che mi permetterebbe di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse ferito… Questa vita perduta, totalmente mia, totalmente loro, rendo grazie a Dio che sembra averla voluta interamente per quella gioia, nonostante tutto e contro tutto…».Tutte le prospettive che ho cercato di riassumere nelle osservazioni precedenti, sono state espresse in modo ammirevole, da una giovane donna musulmana che collaborava strettamente con Mgr. Pierre Claverie, il vescovo di Orano.Penso di non poter trovare conclusioni migliori a questa riflessione che quelle proposte dalla sua lettera:«La presenza della Chiesa è più che mai vitale per il nostro paese, per garantire la perennità di un’Algeria pluralista, multietnica, aperta al prossimo, profondamente tollerante e solidale. Esiste in Algeria una “Chiesa musulmana”; è composta da tutte quelle donne e da tutti quegli uomini che si riconoscono nel messaggio dell’amore universale e nel suo impegno a favore di una società pluralista e fraterna : essa è più numerosa di quanto non crediate. In Algeria, il nostro sangue è mescolato. E quello in cui credeva Pierre Claverie, lui che ha mescolato il suo sangue con quello di Mohamed. In realtà, non vi sono cristiani o musulmani come realtà a sè stanti: c’è la rivelazione di Dio all’uomo. L’uomo del domani è in fase di realizzazione e la Chiesa d’Algeria è lì per questo. Per questo faccio appello alle forze di Dio e dell’amore di Dio, sia all’interno che all’esterno: perché non abbassiamo le braccia. è un destino comune, sono valori comuni a forgiare questa speranza di vita, questa sete di pace, nel rispetto e nella tolleranza. Grazie alla Chiesa perché ha lasciato aperta la sua porta: essa scopre l’uomo nuovo. E insieme noi scopriremo Dio. Infatti, Dio non è una proprietà privata».2. Che tipo di annunzio del Vangelo è possibile nella relazione con i musulmani?Nel contesto della relazione islamico-cristiana, molti si domandano se “un annuncio del Vangelo” è possibile ed in quale modo.I seguenti suggerimenti, vorrebbero proporre qualche pista di riflessione su questo tema.Evidente che in un paese musulmano, non c’è una risposta soddisfacente alla domanda posta: “quale annuncio?”, se noi abbiamo una sola visione una sola concezione dell’ “annuncio”.Sarà senz’altro difficile applicare alla testimonianza di un cristiano che vive in un mondo musulmano delle forme di testimonianza che sono state vissute in altre regioni del pianeta.Annunciare il Vangelo é innanzitutto, mi sembra, manifestare la vita di Gesù nella nostra stessa vita. Cristo è il segno della presenza di Dio in mezzo noi, é Lui il primo attore del Regno del quale noi tutti siamo servitori.Oggi come cristiani, come possiamo manifestare l’attualità del dono di Dio in Gesù Cristo, in una società musulmana? Ogni vita vissuta da cristiano annuncia il Signore Gesù, e questo, in modo particolare, in un paese musulmano.I nostri interlocutori sanno, subito, che noi siamo dei cristiani, perché in un paese musulmano non si può nascondere la propria identità religiosa, salvo nel caso particolare dei musulmani convertiti che sono, quasi dappertutto nei paesi arabi, condannati a vivere un cristianesimo clandestino.I musulmani nei paesi arabi cercano quasi sempre di sapere se il loro interlocutore è, o non è, mussulmano.Quando sanno che uno è cristiano, il suo agire, agli occhi dei musulmani, chiama forzatamente in causa il cristianesimo, e questo che il cristiano lo voglia o no. E per questo che anche i cristiani che non hanno più legami con la Chiesa, sono considerati come delle persone che nel loro essere, chiamano in causa il cristianesimo.A volte si parla di una “semplice presenza”. Non esiste una “semplice presenza”! Il cristiano porta con sé la sua identità. Rivela dunque quello che è l’essere cristiano. Per il solo fatto di essere cristiano, si testimonia davanti all’interlocutore musulmano, che oggi ha davanti a sé un cristiano e che questo cristiano agisce in una certa maniera. E per questo che ogni incontro fra un cristiano e un musulmano è già un “annuncio”.Per il fatto stesso che noi come cristiani, siamo in presenza di musulmani, noi annunciamo che il cristianesimo è sempre vivente e che anima sempre la vita dei credenti che non sono musulmani.Dobbiamo ora fare un altro passo per scoprire insieme i tratti fondamentali della nostra identità cristiana che si deve mettere in atto in questo incontro con il mondo musulmano.Nella relazione islamico-cristiana, bisogna sorpassare un passato difficile. Durante 14 secoli, almeno nel bacino mediterraneo, cristiani e musulmani si sono scontrati.Le dominazioni coloniali e il problema palestinese hanno ancora aggravato questa situazione. Nuovi conflitti possono scoppiare in ogni momento; lo si è visto con l’undici settembre. Questo potrebbe succedere anche con un nuovo attacco contro l’Irak. L’opera di riconciliazione è ancora lontana dal suo compimento ed è sempre da ricominciare.Gesù, nell’invio in missione dei suoi apostoli, secondo Luca, dice al missionario: “In qualsiasi casa entriate, prima dite: pace a questa casa” (Lc.10,5).Sottolineo la parola prima. I portatori del Vangelo non vengono per risvegliare guerre e conflitti, anche se Gesù stesso ci annuncia che il missionario può incontrare ostilità.San Paolo dice che “Gesù è venuto ad annunziare la pace a quelli che erano lontani e la pace a quelli che erano vicini e ha abbattuto il muro dell’inimicizia” (Ef. 2,17).Senza dubbio quando Paolo parla, vuole, in primo luogo, indicare questa pace che, attraverso una conversione comune al Vangelo, riunirà gli ebrei e i pagani nella famiglia del Padre.Ma Gesù ci diceva anche: “Se voi salutate solo i vostri fratelli, cosa fate di straordinario? Anche i pagani non fanno lo stesso?” (Mt. 5,47).Il discorso della montagna è chiaro: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano... infatti se voi amate quelli che vi amano, quale merito ne avrete?” (Mt. 5,44). Del resto la preghiera cristiana ci dice: “Perdona a noi i nostri debiti, come noi perdoniamo ai nostri debitori”.Il primo annunzio di un cristiano che incontra un musulmano dev’essere quello della pace. Nello stesso senso, il cristiano lavora per la riconciliazione. Questo è già annunziare Dio, che noi vogliamo servire, Dio che riunisce nel suo amore tutti i suoi figli dispersi.Non ci sarà riconciliazione senza rispetto dell’altro nella sua identità personale e comunitaria. Questo rispetto fa parte del nostro essere fedeli a Cristo. Egli ci invita a scoprire la sua immagine dietro il volto di ogni uomo.“Ero uno straniero e mi avete accolto, ero prigioniero e siete venuti a trovarmi. Ero nudo e mi avete vestito”… “ in verità ogni volta che voi avete fatto questo ad uno di questi più piccoli che sono miei fratelli, voi l’avete fatto a me” (Mt. 25,31- 40).
Dobbiamo ricordare l’invito di Gesù a rispettare ogni essere umano, anche il più piccolo, perché “I loro angeli sono sempre alla presenza del Padre mio che è nei cieli”. Niente crea più distanza tra gli uomini che il disprezzo. E il disprezzo che distrugge l’altro, lo raggiunge nella sua identità sia personale che comunitaria.Niente avvicina un uomo al suo fratello più del rispetto. “Il Padre vostro che é nei cieli vuole che nessuno di questi piccoli si perda” (Mt. 18,14).Gesù ha fatto della parabola del buon samaritano, il segno della fedeltà a Dio.Conosciamo la domanda con la quale Gesù termina la sua parabola: “Quale dei tre si è dimostrato prossimo dell’uomo che era caduto in mano dei banditi?” lo scriba risponde: “Colui che ha fatto un atto di bontà verso di lui”. Gesù gli dice: “Va’ e anche tu fa lo stesso”.Troppo spesso noi abbiamo ritenuto come definizione della missione solamente quella nel finale del Vangelo di Matteo: “Fate di tutte le nazioni dei discepoli; battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Fare di tutte le nazioni dei discepoli del Vangelo é riprendere questa frase di Gesù alla fine della parabola del buon samaritano: “Anche tu fa lo stesso”. Insegna questo a tutti, come un principio di vita proposto a tutti, ma soprattutto come una maniera di vivere che si insegna prima di tutto attraverso l’esempio. “Anche tu fai lo stesso, diventa prossimo a quelli dei quali avresti potuto essere lontano”. Non è una caratteristica della missione? Farsi prossimo di quelli da cui saremmo potuti stare lontano, e questo a causa di Gesù Cristo e del suo Vangelo, a causa dell’amore di Dio che si fa prossimo. La missione riprende il movimento stesso dell’incarnazione.Gesù, secondo Matteo, risponde lui stesso alla domanda sul più grande comandamento della legge, attraverso questa frase: “Amerai il Signore tuo Dio, questo é il più grande, il primo dei comandamenti” e aggiunge: “Il secondo é altrettanto importante: amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mt. 22,36-40).Conosciamo l’approfondimento che San Giovanni ha dato a questo insegnamento di Gesù: “Chiunque ama é nato da Dio e conosce Dio... perché Dio é amore” (Gv. 4,7). Questo è il centro della rivelazione cristiana. La missione é la Rivelazione dell’amore che Dio ci ha manifestato in Gesù Cristo. La vita cristiana, se é fedele, è l’accoglienza di questo amore di Dio per farne la nostra vita.Porre la questione “dell’annuncio” nella relazione con i nostri interlocutori musulmani, é porre la questione dell’amore di cui le nostre vite sono segno. I nostri partners musulmani ricevono il cuore del messaggio, se scoprono che per noi l’amore dei fratelli é il centro della fedeltà del credente in Dio, perché Dio é amore e ci invia gli uni verso gli altri per manifestare il suo amore.Senza dubbio i nostri amici musulmani non possono servirsi di questo vocabolario che è prettamente cristiano e che trova la sua radice profonda nella comunione trinitaria. L’Amore per un cristiano è la sostanza della Divinità attraverso la comunione delle persone.I musulmani vicini ad una comunità religiosa, per esempio, sanno che le suore hanno per scelta di vita di “fare del bene alle persone in modo particolare ai poveri”. E sanno bene che questo è il cuore della loro fedeltà “religiosa”.Attraverso questo è lanciato loro il messaggio che Dio é Amore e che il vero fedele è quello che ama i suoi fratelli. “Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri”. “Voi non avete che un solo Padre e voi siete tutti fratelli” (Mt. 23, 8-9).L’amore si esprime in molteplici forme. Può essere l’amore coniugale, l’amore dei genitori, l’amore pastorale, l’amicizia, ecc. Ma il servizio é tra le forme veramente evangeliche dell’amore.Gesù ha applicato a se stesso il canto del Servitore. Come il Servitore, dà la sua vita per il popolo, così “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire”. “Se io il Signore, il Maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri..., quello che io ho fatto per voi, fatelo anche voi” (Gv. 13,14).Assumere liberamente l’atteggiamento del Servitore, é annunciare che il servizio è un segno della presenza di Dio in mezzo agli uomini, è manifestare il volto che Dio ci ha rivelato, lui stesso, attraverso Gesù Cristo.L’amore che rivela Dio non è un sentimento qualunque. Vi sono almeno due note caratteristiche. E universale e gratuito. Amare quelli che sono legati a noi, è finalmente amare sé stessi. Ma amare senza porre delle frontiere, è rispondere alla chiamata del discorso della montagna “Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avrete? I pagani non fanno altrettanto?” (Mt. 5,44).L’amore che rivela il Dio del Vangelo è quello che non fa delle differenze tra gli uni e gli altri. E con questo intendimento che Gesù ha scelto la parabola del samaritano per parlarci dell’amore secondo Dio. Il samaritano prende in carica il ferito giudeo. E quello che ha vissuto Gesù stesso. Il suo amore é universale e gratuito. “Il Dio di Gesù Cristo fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi”.E chiaro che la relazione con dei musulmani rende difficile la presentazione del mistero cristiano che l’Islam rifiuta. Abbordando queste tematiche, si arriva sempre ad una polemica che non é secondo il cammino dello Spirito. Al contrario, scegliere i cammini della riconciliazione, della pace, del rispetto dell’altro, dell’amore che serve e non fa differenze, è manifestare l’amore di Dio e attraverso questo condurre l’interlocutore musulmano verso dei valori propriamente evangelici. L’interlocutore musulmano non può riconoscere nell’incarnazione o nella Trinità il cammino di Dio. Invece nella riconciliazione, il rispetto, il servizio e l’amore universale gratuito, riconosce un dono di Dio e, quando riconosce l’identità cristiana in colui che vive questo dono, riconosce che è Dio l’autore di questo dono.E così che allora diventa, anche a sua insaputa, prossimo del Dio di Gesù Cristo... vicino al cuore del suo mistero: Dio è amore. D’altra parte, riconoscere e gustare questo mistero, è già di per se stesso un frutto dello Spirito di Cristo.