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Globalizzazione e migrazioni
Alla ricerca di una politica dell'immigrazione

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/02


GLOBALIZZAZIONE E MIGRAZIONIALLA RICERCA DI UNA POLITICA DELL’IMMIGRAZIONE
di Stefano Zamagni
Che il fenomeno migratorio sia un tema ad alto potenziale di conflittualità che tende a dividere, in modo spesso radicale, l’opinione pubblica, e di conseguenza le forze politiche, è cosa nota ormai da tempo. In particolare, è noto che quello degli immigrati rappresenta oggi, nelle nostre società occidentali, l’unica categoria di esseri umani che sono ricercati e indesiderati, ad un tempo. L’Eurobarometro, da almeno quattro/cinque anni, segnala con precisione questo contraddittorio atteggiamento degli europei nei confronti dell’immigrazione. Per un verso, vi sono segmenti di popolazione che chiedono di ampliare i flussi in arrivo di lavoratori migranti, consapevoli come sono dei benefici che ne deriverebbero alla flessibilità del mercato europeo del lavoro e alla gestione delle finanze pubbliche. (Invero, l’invecchiamento delle popolazioni europee ha ormai reso la struttura attuale delle entrate e uscite dei nostri sistemi di sicurezza sociale non più sostenibile).Per l’altro verso, vi sono segmenti della popolazione che invece nutrono tre timori specifici, e cioè che gli immigrati: a) causano disoccupazione a carico dei lavoratori dei paesi ospitanti; b) abusano dei trasferimenti assicurati dai nostri sistemi di welfare. (In effetti, l’evidenza disponibile conferma che gli immigrati ricevono servizi di welfare in misura proporzionalmente maggiore rispetto alle popolazioni native. Come già J.S. Mill, grande economista e filosofo inglese, aveva scritto attorno alla metà dell’Ottocento: “è vano pensare che tutte le bocche che l’aumento della popolazione fa venire in esistenza trascinino con sé braccia. Le nuove bocche chiedono altrettanto cibo delle vecchie, ma le loro mani non producono gli stessi ammontari delle vecchie”); c) hanno già superato il punto di saturazione, così da mettere a repentaglio la coesione sociale dei paesi ospitanti per l’impossibilità di attuare equilibrate politiche di integrazione culturale. I recenti esiti elettorali in Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Olanda sembrano indicare che la seconda tipologia di cittadini sia oggi quella in maggioranza numerica. Come Tito Boeri si è recentemente espresso, si è consolidato nell’Unione Europea un vero e proprio circolo vizioso: la gente manifesta un atteggiamento ostile nei confronti degli immigrati; ciò induce i governanti, sempre alla ricerca del consenso politico, a restringere gli ingressi o a renderli inutilmente difficoltosi; a loro volta, politiche di questo genere vanno ad accrescere l’immigrazione illegale - si stima che vi sia uno stock di 11 milioni di migranti irregolari nel mondo, gran parte dei quali si affida a trafficanti il cui giro d’affari ha già superato quello delle droghe - ; infine, il senso di insicurezza che l’illegalità va diffondendo pare confermare quelle percezioni di ostilità, le quali tendono così ad autoalimentarsi. Come spezzare un tale circolo vizioso, dei cui effetti devastanti sui piani sia della pace civile sia del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo non è qui il caso di dire? Una proposta che va guadagnando terreno tra opinionisti e uomini di governo è quella fondata sul seguente convincimento: l’unico modo credibile di arrestare l’aumento dei flussi migratori è quello di intervenire sulle cause generatrici del fenomeno, di intervenire cioè sul processo di crescita economica dei paesi generatori dei flussi. Quanto robusto è tale convincimento? Proviamo a vedere. La nuova ortodossia in tema di politiche migratorie che si è andata affermando in Europa dopo la crisi del 1973 si basa su quattro proposizioni principali. Primo, le condizioni economiche di un paese - soprattutto reddito pro capite e tasso di disoccupazione - sono i fattori decisivi della propensione ad emigrare. Ciò non sempre è vero e comunque lo è solo in parte, come un’ampia letteratura sociologica ed antropologica ha da tempo messo in chiaro. Secondo, lo sviluppo economico, aumentando il reddito, riduce l’incentivo a muoversi. Questa proposizione è fallace per due ragioni. Da un lato, perché, come insegna la celebre “curva di Kuznets”, nei primi stadi del processo di sviluppo l’aumento del reddito si accompagna sempre ad un aumento delle ineguaglianze tra gruppi sociali, quanto a dire che l’aumento del reddito non avviene mai in modo equiproporzionale. E ad emigrare sono i gruppi che restano indietro. Dall’altro lato, l’evidenza empirica conferma che nelle fasi iniziali del processo di sviluppo si registra un aumento della propensione ad emigrare in conseguenza sia del mutamento strutturale (lo sviluppo espelle lavoratori dall’agricoltura per incanalarli verso il settore industriale, ma ciò richiede tempo, così che una parte degli espulsi prende la via dell’estero) sia del mutamento delle aspettative (una volta rotto il vecchio equilibrio di stagnazione, non tutti se la sentono di aspettare il take-off definitivo).Terzo, l’emigrazione è solamente una misura di tipo reattivo che, alla lunga, potrebbe danneggiare il paese dal quale essa ha luogo. Dunque, l’immigrazione va ostacolata e sostituita con politiche di aiuti allo sviluppo e di investimenti a favore dei paesi generatori dei flussi migratori. Le cose non stanno però in questi termini. Si dimostra che l’emigrazione, soprattutto se di breve periodo, esercita un’influenza positiva sullo sviluppo del paese generatore per due ragioni specifiche. I migranti acquisiscono abilità lavorative e migliorano il proprio capitale umano durante la loro permanenza all’estero, il che si traduce in un aumento della produttività media del lavoro nei paesi di origine, una volta che gli emigrati rientrano in patria. La seconda ragione è che le rimesse costituiscono una delle fonti principali (assieme al turismo) dei redditi esteri per i paesi in via di sviluppo. Ad esempio, le rimesse rappresentano il 25% dei redditi dall’estero per il Marocco e il 10% per la Tunisia. Se dunque dovesse chiudersi la valvola delle rimesse, gli investimenti e gli aiuti dai paesi avanzati dovrebbero raggiungere volumi semplicemente insostenibili (si tenga presente che i trasferimenti pubblici al Marocco raggiungono il 2% dei redditi dall’estero!). Né si dimentichi che i fondi rimessi dai redditi guadagnati all’estero non vengono utilizzati per i consumi ma per attività produttive nei paesi generatori dei flussi migratori.Infine, la quarta proposizione, quella più sottile: un’economia aperta di libero scambio, favorendo i movimenti dei capitali e delle merci, diminuisce la propensione ad emigrare attraverso il livellamento dei differenziali salariali. Di qui la raccomandazione secondo cui per frenare l’immigrazione basterebbe intensificare l’apertura dei mercati, e di quelli agricoli in particolare. Nonostante le apparenze, anche questo argomento non può essere accolto. Innanzitutto, perché chi ragiona in questi termini non tiene conto del fatto che gran parte dei lavori nei paesi generatori dei flussi migratori si trova nei settori “non-tradable” e per gli altri lavori permangono, sul breve e medio periodo, differenze notevoli di produttività. Ci vuole cioè tempo perché i paesi in via di sviluppo possano collocare, a condizioni vantaggiose, i loro prodotti sui mercati internazionali, e nel frattempo i potenziali migranti cercano all’estero la soluzione dei loro problemi. Inoltre, perché investimenti esteri, commerci e aiuti non sono mai additivi, come l’esperienza tristemente insegna. Se aumentano i primi due, viene ridotto il terzo elemento della triade e viceversa. (Si pensi a quel che è accaduto alla promessa dei paesi occidentali di destinare lo 0,7% del loro PIL agli aiuti internazionali!). Infine, perché il commercio estero potrebbe essere un sostituto, quasi perfetto, delle emigrazioni solamente se i paesi generatori dei flussi migratori fossero integrati in una zona di libero scambio, come è l’U.E. Il che non è certo pensabile che avvenga, almeno per il prossimo futuro.Alla luce di quanto precede, si deve concludere che vano sarebbe pensare e irresponsabile far credere ai cittadini che il problema migratorio possa essere risolto puntando a politiche restrittive e/o discriminatorie dell’un tipo o dell’altro. Piuttosto, quel che è urgente fare è prendere atto, una volta per tutte, che la spinta più forte alla magnificazione dei flussi migratori proviene, oggi, dalla globalizzazione. La quale, mentre ha creato o va creando un mercato globale dei capitali e delle merci, non è ancora riuscita a porre le basi per un mercato globale del lavoro. Non è possibile volere, della globalizzazione, l’una cosa e non l’altra. L’unico risultato certo che discende da questa contraddizione pragmatica è sotto gli occhi di tutti: un aumento preoccupante e disumano dell’immigrazione illegale, sostenuta da quella nuova industria del crimine organizzato che è il traffico degli esseri umani. Mai si dimentichi, infatti, che vi è sostituibilità fra immigrazione legale e illegale: la totalità delle ricerche empiriche è concorde su questo legame. Se allora si smettesse, soprattutto nel nostro paese, di utilizzare la paura dell’immigrazione come strumento di lotta politica o, peggio ancora, come paravento di atteggiamenti xenofobici, si riuscirebbe a trovare il consenso necessario per fondare una politica duratura dell’immigrazione (e non semplicemente una politica per l’immigrazione) a partire da linee di intervento ragionevoli e sicuramente implementabili. Ma su ciò dovremo tornare, in altra sede.