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Missioni tra gli italiani all'estero: sono ancora attuali?


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/02


MISSIONI TRA GLI ITALIANI ALL’ESTERO: SONO ANCORA ATTUALI?
di Graziano Tassello
Al corso di pastorale migratoria, organizzato a Roma dal 4 al 14 luglio dalla Fondazione ecclesiale “Migrantes”, l’attenzione è stata posta sulla necessità di un rinnovato ed aggiornato impegno a servizio delle comunità italiane residenti all’estero. Una serie di lezioni, quindi, non per i cultori della nostalgia e dei ricordi, oppure per fronteggiare problemi assistenziali di una comunità che conta circa 4 milioni di cittadini con passaporto italiano residenti all’estero - cui si aggiungono parecchie decine di milioni di oriundi - ma per formare gli operatori pastorali ad una rinnovata visione di missionarietà migratoria.L’impegno a voler garantire continuità ed innovazione nell’ambito della pastorale dell’accoglienza per gli italiani all’estero deve fare i conti, però, con numerosi antagonisti che sostengono che le Missioni cattoliche italiane all’estero hanno fatto il loro tempo e sono strutture obsolete e controproducenti.Le cause di tale atteggiamento sono molteplici, ma si basano essenzialmente su una ottica pauperistica ed assitenzialistica che porta a ritenere che la pastorale in ambito migratorio debba limitarsi ad una risposta di aiuto, carità e tolleranza all’emergenza tipica della prima fase. I migranti sono soltanto un contenitore in cui riversare il proprio know-how caritativo. Ma non si dà una evoluzione della pastorale migratoria specifica che, nel tempo, dovrebbe invece sempre di più assumere una precisa angolatura missionaria affinché la chiesa locale “riscopra” la sua vocazione alla cattolicità e gli emigrati da assistiti divengano protagonisti della vita della chiesa, coscienti di possedere una vocazione specifica, senza per questo rinunciare ad una lingua e ad una cultura religiosa di cui sono portatori.Se dovessimo sposare la concezione pauperistica, non sarebbe più necessario accompagnare l’emigrato con una cura pastorale specifica nelle diverse fasi della sua avventura migratoria. Il raggiungimento della “normalità” da parte dell’emigrato, comporterebbe la scomparsa della sua identità religiosa. La visibilità e la notiziabilità rimarrebbero retaggio delle immigrazioni più recenti mentre i “vecchi” emigrati aumenterebbero le fila dei desaparecidos religiosi, valutati, in modo poco evangelico, un buon partito per rimpolpare il numero sempre più esiguo della popolazione religiosa locale che frequenta la chiesa.La presunzione di trovarsi di fronte ad emigrati italiani perfettamente integrati nella chiesa locale si abbina con una crescente scarsità di clero per cui l’operazione “Tagliare i rami secchi” sembra del tutto naturale. La non visibilità dell’emigrato “ordinario” può far comodo anche perché una presenza portatrice di diversità rischia di creare scompensi all’interno di chiese locali ancora molto monoculturali nelle loro strutture. Sono in tanti a cadere vittima di un modo particolare di considerare le migrazioni: l’assistenzialismo fa sentire forte il fascino della tecnocrazia della carità che può indurre ad operare solo là dove l’emergenza fa scalpore ed offre terreni presumibilmente più vocazionabili. Alcune congregazioni religiose, attive tra gli emigrati e che hanno sposato l’ottica assistenziale, preferiscono allora non addentrarsi nella nuova avventura di una “pastorale dell’ordinarietà”. Eppure sono proprio questi gli anni in cui non bisogna lasciare soli gli italiani all’estero. Se si crede nella crescita cristiana e nel rispetto delle specificità culturali di ognuno, questo è il tempo di grazia della pastorale migratoria. Superato l’assillo dell’emergenza, l’emigrato è aiutato a leggere la sua vita alla luce della fede. Scopre così la sua vocazione missionaria e il suo ruolo profetico di cattolicità e di comunione, protagonista in prima persona nella vita della chiesa e non più oggetto di assistenza. Alla fase della Missio ad migrantes subentra la Missio migrantium.Allora non è tanto il ridimensionamento numerico e strutturale, che fa parte della vita normale, a dettare il nuovo corso, quanto l’effetto di una più approfondita riflessione ecclesiologica che induce ad una rivisitazione profonda della pastorale migratoria tradizionale obbligando, da un lato, le missioni linguistiche a superare la sindrome dell’arca di Noè (ripiegarsi su se stesse invece di emigrare verso nuovi spazi di creatività e di responsabilità pastorale) e, dall’altro, invitando la chiesa locale a cessare di considerarsi una “chiesa per i migranti”, ma di essere essa stessa “chiesa migrante” dove non esistono più una maggioranza e delle minoranze: “Nella Chiesa nessuno è straniero, e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e in nessun luogo” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale del migrante, 25.07.1995): tutti parte del popolo di Dio che sperimenta un continuo passaggio dalla comunione alla diversità e dalla diversità alla comunione.Anche il ruolo del missionario per i migranti cambia radicalmente, sebbene rimanga centrale l’appartenenza alla stessa lingua e cultura degli emigrati. Come ribadisce la Pastoralis migratorum cura (cfr. A.A.S., LXI, 1969, p. 601), “non è possibile svolgere in maniera efficace questa cura pastorale, se non si tengono in debito conto il patrimonio spirituale e la cultura propria dei migranti. A tale riguardo ha grande importanza la lingua nazionale, con la quale essi esprimono i loro pensieri, la loro mentalità, la loro stessa vita religiosa”.La pastorale dell’accoglienza, portata avanti dal missionario, sollecita la chiesa locale a riconoscere tutti i fedeli nella loro differenza, orientando la riflessione e la prassi verso una valutazione positiva dell’emigrazione e della diversità complementare dei popoli. Il missionario aiuta ad interpretare in modo nuovo l’emigrazione, “risorsa” per la chiesa e la società. “E importante orientare la riflessione verso una valutazione positiva della diversità complementare dei popoli: è nella loro particolarità, con tutte le sue componenti, che essi sono chiamati a realizzare la loro pienezza umana, nel rispetto reciproco e nell’apertura reciproca gli uni agli altri” (Pontificia Commissione “Iustitia et pax”, Lotta contro il razzismo: contributi della Chiesa, nn. 4.7, 30.11.1978).Questa comunità cristiana dal volto nuovo è chiamata a diffondere nel mondo il fermento della fraternità, quella convivialità delle differenze, spesso richiamata nei discorsi pontifici (cfr. ad es. Giovanni Paolo II, Omelia in occasione del Giubileo dei migranti, n. 3, 2.06.2000). “La partecipazione libera ed attiva, a livello paritario, con i fedeli nati nelle chiese particolari, senza limiti di tempo e di restrizioni ambientali, costituisce la via dell’integrazione ecclesiale per i fedeli immigrati. Trattandosi di un processo di autopromozione, è indispensabile che questi abbiano agio di comprendere e valutare e siano assistiti nella loro esperienza esistenziale, nelle maniere e nello stile della loro cultura fondamentale, nel pluralismo della loro identità. I fedeli immigrati, nel libero esercizio del loro diritto e dovere di essere nelle chiese particolari pienamente in comunione ecclesiale e di sentirsi cristiani e fratelli verso tutti, debbono restare completamente se stessi in quanto concerne la lingua, la cultura, la liturgia, la spiritualità, le tradizioni particolari, per raggiungere quella integrazione ecclesiale, che arricchisce la Chiesa di Dio e che è frutto del realismo dinamico dell’Incarnazione del Figlio di Dio” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale del migrante, n. 2, 16.07.1985).La presenza del missionario aiuta pertanto la chiesa di accoglienza a proseguire nel cammino della missionarietà, senza limitazione di frontiere ed anche pregiudizi basati su passaporti, lingue e culture diverse, in una autentica accettazione di forme ed espressioni “altre”. Con la sua stranierità, il missionario ricorda alla chiesa locale l’obbligo della cattolicità. Le strutture pastorali da lui utilizzate anticipano il cammino nuovo di chiese che non soccombono alla tentazione di gretti nazionalismi o dell’apartheid religioso morbido o di strutture, frutto di un rigido efficientismo aziendale. Le missioni possono divenire un segno, sebbene povero, di una chiesa locale che vuole testimoniare la possibilità di un cammino di comunione nel rispetto della diversità.Ovviamente il missionario si dedicherà alla evangelizzazione di tanti che in emigrazione sono divenuti i “nuovi poveri”. “Lo scenario della povertà - come ricorda Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte del 6 gennaio 2001 - può allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso, all’insidia della droga, all’abbandono nell’età avanzata o nella malattia, all’emarginazione o alla discriminazione sociale” (n. 50).Sono attualmente 650 nel mondo i sacerdoti italiani che si dedicano all’emigrazione italiana: Le religiose sono 210 e i laici 48. Il loro impegno esige da parte delle chiese di partenza e di arrivo una riflessione più aggiornata sul significato di una pastorale analizzando nell’ambito della tanto decantata missionarietà delle chiese locali quali spazi e quali investimenti siano possibili anche tra le comunità italiane all’estero. Potremmo parlare di provvidenzialità delle comunità italiane all’estero oggi perché la loro “ordinarietà” diventa la cartina di tornasole per testare il grado di comunione di una chiesa. Tornano in mente le parole di Giovanni Paolo II nella sua Lettera apostolica Novo millennio ineunte del 6.01.2001 (n. 43): “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo… Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come «uno che mi appartiene»”.A ragione il Card. Camillo Ruini, Presidente della Cei, al Convegno europeo delle Missioni Cattoliche Italiane del giugno 1996 affermava: “Un servizio necessario non solo perché viene incontro a pressanti esigenze pastorali, ma perché va al cuore del dinamismo nuovo cui è chiamata dopo il Convegno di Palermo la Chiesa in Italia”.