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Verso una politica europea dell'immigrazione


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/02


di Stefano Zamagni
Cosa è stato fatto dallŽUnione Europea, nel corso del 2001, in vista di una politica europea dellŽimmigrazione e dellŽasilo? Per rispondere, consideriamo dapprima, in grande sintesi, le principali tappe di questo faticoso cammino verso una politica migratoria europea capace di gestire, in modo unitario le pressioni provenienti dai paesi terzi, anziché limitarsi - come è finora avvenuto - ad affidare ai singoli paesi la lotta di ultima istanza contro i clandestini.I primi passi recano la data del 1995, quando con la Convenzione di Dublino, gli Stati membri si accordano sul riconoscimento dello status di rifugiato politico. LŽaccordo avrebbe dovuto portare una certa armonizzazione delle legislazioni nazionali, il che non è accaduto, anche se è rimasto acquisito il principio base secondo cui chi chiede asilo non deve essere autorizzato ad andare alla ricerca del migliore "offerente". La ragione principale di tale insuccesso è che, in conseguenza del Trattato di Maastricht (1992), è prevalso lŽapproccio intergovernativo, dal momento che la politica riguardante lŽasilo e lŽimmigrazione è rimasta tra le "materie di interesse comune". Un decisivo balzo in avanti si realizza con il Trattato di Amsterdam (1997): la materia di cui ci occupiamo viene demandata alle istituzioni europea: è il Consiglio a decidere allŽunanimità, "dopo aver consultato il Parlamento europeo". Ma è solo con il Vertice di Tampere (1999) che si giunge allŽaccoglimento del principio in base al quale è necessario giungere, in tempi rapidi, ad una politica comune dellŽUE sullŽimmigrazione e lŽasilo, attraverso la definizione del cosiddetto "spazio europeo". Il Trattato di Nizza (2000) recepisce tale indirizzo strategico, estendendo la procedura di codecisione oltre gli accordi per i visti, per includervi talune questioni giuridiche transfrontaliere, escludendo tuttavia gli aspetti relativi al diritto familiare.Nel corso del 2001, i momenti più significativi ai fini del nostro discorso sono stati i seguenti. Nei giorni 27-28 settembre si riunisce a Bruxelles il Consiglio per gli Affari Interni e della Giustizia per affrontare specificamente il tema dei ricongiungimenti familiari. Nonostante le forti aspettative, le delegazioni restano più che mai divise sia sulla questione delle coppie non sposate sia su quella dei limiti di età. In particolare, è la Germania a porre, di fatto, il veto: nessuna regola europea dovrà essere resa esecutiva prima che i singoli paesi abbiano approvato le rispettive leggi nazionali. Nel mese successivo, nei giorni 16 e 17, si tiene sempre a Bruxelles la Conferenza della Presidenza di turno (belga) per preparare il summit di Laeken. Il ricordo, ancora fresco, dei tragici fatti dellŽ11 settembre distoglie lŽattenzione dei partecipanti dalla problematica complessiva per concentrarla sui modi di combattere la criminalità e il terrorismo associati al fenomeno migratorio. Ovviamente, viene ribadita lŽintenzione comune di non voler assolutamente arrivare alla "fortezza Europea", una dichiarazione che sa tanto di "excusatio non petita". Di un certo interesse, invece, è la Conferenza dei Ministri a Bruxelles, nei giorni 5 e 6 novembre dedicata al problema Euro-Mediterraneo. LŽidea che viene discussa e, alla fine, sottoscritta è quella di co-sviluppo: si tratta di valorizzare il ruolo degli stessi migranti nel processo di integrazione nel paese ospitante, chiamando a concorrere, per la realizzazione di tale obiettivo, le varie espressioni della società civile. Infine, il Summit di Laeken, del dicembre 2001, si chiude con la richiesta formale, avanzata alla Commissione Europea, di presentare, entro la fine di aprile 2002, una proposta globale di riforma dellŽintera materia migratoria e ciò in vista della riforma del Trattato prevista per il 2004.Questa è la situazione al momento in cui scriviamo. Cosa cŽè alla base delle incertezze e delle incongruenze che tuttora ritardano lŽavvio definitivo di una politica europea dellŽimmigrazione? CŽè che, nonostante le apparenze, il processo legislativo non è affatto mutato dal 1995 ad oggi. Sono ancora i governi degli Stati membri a detenere il controllo: la Commissione redige le direttive che poi il Parlamento esamina, ma è quasi sempre il Consiglio a decidere. Ora, non cŽè bisogno di essere esperti di questioni giuridico-istituzionali per comprendere che la cooperazione fra gli Stati membri, per quanto utile e significativa, non potrà mai surrogare una politica, con la relativa legislazione, in grado di rispecchiare le esigenze reali dellŽUnione in materia di immigrazione - una politica cioè soggetta alla procedura di codecisione, e in grado di coinvolgere entrambi i rami del legislativo, il Parlamento e il Consiglio.Sorge spontanea la domanda: quali ostacoli si frappongono allŽattuazione di una tale politica? Ne indico tre, quelli che giudico più seri.Il primo chiama in causa il processo di allargamento ad Est della frontiera dellŽUnione: si tratta dei 10 paesi del Centro-Est Europa (PECO-10) candidati allŽinclusione nellŽUnione. Le stime del potenziale migratorio connesso con lŽallargamento ad Est appaiono in un recente studio svolto per conto della Commissione e coordinato da T. Boeri e H. Brucker (2000). Le simulazioni dello studio indicano che il numero delle persone provenienti dai PECO-10 passerebbe dagli attuali 0,85 milioni a 3,9 milioni dopo lŽallargamento. Un tale ammontare corrisponde allŽ1% della popolazione dei 15 paesi dellŽUE. I flussi migratori nellŽUE aumenterebbero, inizialmente, di 335.000 persone allŽanno per poi stabilizzarsi intorno alle 150.000 unità annue. Come si nota, non si tratta certo di cifre preoccupanti, contrariamente a quanto non pochi addetti ai lavori da tempo temevano. CŽè però un particolare che mette conto evidenziare: si stima che circa lŽ80% degli immigrati provenienti dai PECO-10 interesserà Germania e Austria. Questo spiega perché questi due paesi abbiano chiesto lŽintroduzione di un periodo transitorio di 5 o 7 anni, durante il quale i nuovi arrivati non potranno accedere al mercato del lavoro dellŽUE. E spiega anche perché la Germania stia chiedendo che tale decisione venga riservata ai governi nazionali, mentre la Commissione ritiene che essa sia di sua propria competenza.Il secondo ostacolo ha a che vedere con le conseguenze, temutissime nei paesi occidentali, del cosiddetto "effetto calamita" dei programmi di welfare. Si tratta della tendenza, più che comprensibile, da parte dei migranti ad emigrare verso Stati che offrono una più generosa copertura in termini di servizi di welfare - appunto, gli Stati calamita. Una indagine recente condotta dallŽeconomista tedesco H. Sinn ha stimato in 2.300 dollari allŽanno e per persona il costo medio per la inclusione degli immigrati nei programmi di welfare della Germania. Non è difficile cogliere le implicazioni di tale circostanza ai fini della attuazione di una politica comune europea dellŽimmigrazione e dellŽasilo. Infatti, poiché i sistemi di welfare dei 15 paesi dellŽUE sono ancora tra loro alquanto differenziati - soprattutto per ciò che concerne il segmento sanitario e quello pensionistico - si ha che lŽinserimento di un immigrato comporta costi diversi a seconda del paese ospitante e a seconda del grado di copertura. Di qui la richiesta da parte degli Stati membri di gestirsi in proprio questo tipo di decisioni. Accade così che, in Germania, gli immigrati senza residenza permanente perdono il diritto a restare nel paese se dipendono dallŽassistenza sociale (negli USA, la legge del 1996 nega ai non cittadini arrivati dopo il 1996, il diritto a ricevere la più parte delle prestazioni dellŽassistenza pubblica). DŽaltro canto, vi sono paesi, come la Svezia, che non differenziano tra immigrati e nativi. La conseguenza è che in tale paese la spesa sociale per gli immigrati è, oggi, pari a circa il 50% dellŽintera spesa sociale: eppure, gli immigrati rappresentano solamente lŽ11% della popolazione autoctona. Non ci vuol molto a capire come un simile stato di cose ponga un serio problema di sostenibilità finanziaria.Infine, il terzo ostacolo di cui sopra si diceva concerne la diversità delle concezioni che i 15 paesi dellŽUE mantengono a proposito del modello di integrazione degli immigrati nelle società ospitanti. CŽè chi interpreta la nozione di integrazione nel senso di "piena eguaglianza", cioè come condizione nella quale a tutti indistintamente siano riconosciuti, e da subito, i diritti di piena cittadinanza. E cŽè chi, allŽopposto, interpreta lŽintegrazione in termini esclusivamente economici, considerando integrabile solamente lŽimmigrato che risulti economicamente utile: il cosiddetto modello "usa e getta" che giunge a suggerire, a livello pratico lŽadozione di forme di immigrazione temporanea. Si riesce dunque a capire perché, in una situazione del genere, il progetto di una politica europea dellŽimmigrazione incontri difficoltà a spiccare il volo.Mi piace chiudere citando Ugo di San Vittore, teologo e filosofo vissuto nel XII secolo, unŽetà di chierici vaganti. Secondo Ugo, colui che si sente a suo agio soltanto a casa propria, nel proprio paese, è un uomo assai imperfetto; certamente più perfetto è lŽuomo che si sente a suo agio un poŽ dappertutto; ma compiutamente perfetto è lŽuomo che si sente "a disagio" ovunque si trovi. Sono dellŽavviso che questo antico pensiero bene descriva la disposizione dŽanimo che è necessaria a chi si accosta alla questione migratoria con lŽintenzione di offrire un contributo alla soluzione di uno dei più toccanti drammi umani di questa nostra epoca.