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Lo straniero: una considerazione teologica


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/02


di Giuseppe Ruggieri
IL DINAMISMO COSTITUTIVO DELLA CHIESA1. Una prima considerazione deriva dal fatto che il dinamismo costitutivo della Chiesa implica sempre lŽinnesto di stranieri nel ceppo originario. La Chiesa è infatti "Chiesa dei giudei e dei pagani", giacché il dinamismo del Vangelo portò ben presto i primi discepoli, tutti ebrei, ad aprirsi ai gentili, a popoli di altra razza e cultura. Questo non avvenne senza conflitti e sia gli Atti degli Apostoli che le lettere di Paolo ci testimoniano eloquentemente di quale ampiezza questi conflitti fossero. Infatti gli ebrei pretendevano che i gentili per diventare cristiani, non solo credessero in Gesù Cristo come salvezza, ma che si assimilassero anche religiosamente al mondo ebraico, si obbligassero cioè alla circoncisione e allŽosservanza della legge mosaica.Coloro che erano invece più direttamente impegnati nella predicazione del vangelo ai gentili, come i cristiani di Antiochia rappresentati da Paolo e Barnaba, vedevano in questŽassimilazione un attentato al vangelo della croce. Non era la legge mosaica, ma Cristo che aveva riconciliato nel suo sangue i popoli diversi, per cui, grazie al sangue di Cristo, coloro che prima erano stranieri adesso dovevano essere considerati concittadini e familiari (cf. Ef 2). Il conflitto fu risolto sostanzialmente in una riunione a Gerusalemme, una riunione di cui abbiamo gli "atti" nel cap. 15 del libro degli Atti e, in una versione diversa, nella lettera ai Galati. LA CARTA COSTITUTIVA DELLA CHIESAI risultati che rappresentano la carta costitutiva della Chiesa di tutti i tempi furono che non bisognava imporre alcuna assimilazione culturale e religiosa previa agli stranieri che volevano diventare cristiani. Occorreva soltanto che essi professassero la loro fede in Gesù Cristo salvatore degli uomini. In lui, dirà Paolo, non cŽè distinzione di ebreo, greco o barbaro, ma siamo tutti uno in lui.Potremmo tradurre questa convinzione in parole equivalenti: la fede cristiana non fa distinzione di razze e culture, di appartenenze a sistemi giuridici diversi. Essa le attraversa tutte e crea una diversa unità che non è in concorrenza con le differenze culturali e giuridiche dei poppli che aderiscono al vangelo. Ai cristiani dei primi secoli questo era evidente, proprio perché questa fede faceva sorgere un ordinamento giuridico originale, trasversale a quello dei popoli. Dirà Tertulliano nel De praescriptione haereticorum che tra i cristiani di ogni parte del mondo esiste una "communicatio pacis, et appellatio fraternitatis e contesseratio hospitalitatis, quæ iura non alia ratio regit, quam ejusdem sacramenti una traditio". Possiamo tradurre questa frase densissima con le seguenti parole: tra i cristiani vige la comunione della pace, la fraternità e lŽospitalità vicendevole. Questi sono diritti tipici dellŽordinamento dei cristiani, normati solo dalla tradizione della comune regola della fede. La fede in Gesù Cristo crea cioè un diritto suo, per cui tra uomini di diverse razze vige lo stesso rapporto che esiste tra fratelli della stessa famiglia. GESUŽ IL FONDAMENTO DELLA FRATELLANZA2. La seconda considerazione, risale un pò allŽindietro della prima, perché ne è il motivo ultimo, il fondamento. Ci si deve infatti chiedere perché lo straniero nella Chiesa partecipa ai diritti di coloro che lŽhanno accolto, è loro fratello, trova ospitalità nelle loro case, ha il diritto di usufruire delle offerte dellŽaltare della comunità in cui è temporaneamente ospitato, secondo un uso che ci viene già testimoniato in Giustino. Il fondamento di tutto questo sta in Gesù stesso.Gesù era un ebreo. Sappiamo anche che era un ebreo osservante: il sabato si recava nella sinagoga a pregare, pagava la decima, saliva al tempio per le grandi feste. Ma, con tutta la sua appartenenza ebraica, introdusse delle "rotture" dentro il proprio mondo culturale e religioso: fa lŽuomo stesso criterio del sabato; siede a mensa con le persone che erano bandite dalla comunità religiosa giudaica, come i pubblicani, cioè le guardie daziarie legate agli odiati occupanti romani; non disdegna di parlare con le prostitute; estende la sua attività di guaritore a stranieri, come al servo del centurione e alla figlia della donna cacanea. Gesù cioè intendeva la propria appartenenza non chiusa, ma aperta, giacché egli guardava al cuore e non alle usanze esteriori. Paolo e Giovanni, riflettendo sulla sua esistenza, ci dicono che in lui apparve lŽamore stesso di Dio, anzi Dio, il quale accoglie tutti gli uomini, senza condizioni previe. Infatti Gesù muore per i peccatori, mentre sono tali, senza aspettare che si convertano. IL CRISTIANO ESSERE-PER....Come diceva de Certeau, Gesù non è mai senza lŽaltro, senza chiunque altro diverso da noi che appaia allŽorizzonte. Egli è la rottura di ogni orizzonte chiuso. Egli è il "corpo dato per voi", lŽessere per gli altri. Gesù stesso si definisce così nelle parole dellŽultima cena. Il suo essere specifico è quello di essere venuto per noi, anzi per noi peccatori. Senza questo essere-per, Gesù non sarebbe Gesù. Ma ciò che soprattutto è importante notare che lŽaltro per cui Gesù è venuto, non è quello uguale a lui, il Figlio di Dio, il Santo, ma il peccatore, il lontano anzi, religiosamente, il nemico. Il linguaggio ingenuo della fede arriva a dire che Gesù è disceso agli inferi, che Gesù va cioè ad abitare lŽultima lontananza, là dove Dio per definizione non cŽè, nellŽassenza di Dio. E proprio così Gesù manifesta chi è Dio, giacché Dio è relazione, comunione, apertura assoluta allŽaltro. Dove si incontra lŽaltro, ivi si incontra quindi Gesù, come mirabilmente viene espresso nel cap. 25 di Matteo. VIVERE LA PROPRIA IDENTITAŽ3. Terza considerazione verte sulla cultura dellŽidentità. Se stiamo ben attenti sia al divenire della Chiesa che alla vicenda di Gesù di Nazareth, ciò che viene messo in discussione è infatti propria la nostra cultura dellŽidentità. Ogni popolo è geloso delle proprie tradizioni, delle acquisizioni culturali, artistiche, letterarie etc. del proprio passato. In breve: noi viviamo dellŽeredità dei nostri padri. Tutto questo è legittimo. Lo stesso Gesù, come abbiamo sottolineato, era un ebreo praticante. E Paolo, anche nel mezzo della polemica con i cosiddetti giudaizzanti, non rinuncerà al proprio orgoglio di essere ebreo lui stesso, della tribù di Beniamino, anzi fariseo. Il problema sta solo nel modo in cui si vive questa propria identità. UNA IDENTITAŽ CHE SI APRE AGLI ALTRIDice la lettera ai Filippesi che Gesù, proprio perché era nella forma di Dio, non visse la sua eguaglianza con Dio come una preda (harpagmos), ma prese la forma dellŽaltro, dellŽuomo schiavo del peccato. LŽidentità di Dio rivela se stessa proprio nella capacità di andare allŽaltro. LŽidentità di Dio non è chiusura, ma apertura. Noi istintivamente pensiamo che essendo Dio perfettissimo, egli dovrebbe restare chiuso in se stesso. Il vizio è che non comprendiamo cosa sia perfezione e pienezza di Dio. Infatti la perfezione di Dio è proprio lŽamore, la capacità della relazione, lŽaccoglienza assoluta. La sua identità si svela quindi proprio nellŽapertura.E non solo, ma sta proprio qui la dialettica tra la verità e la menzogna, almeno stando al vangelo di Giovanni. Perché Gesù dice la verità? Perché egli vive della relazione con il Padre, riceve dal Padre, è una sola cosa con il Padre, non è solo. Chi vive nel rapporto, nella relazione con lŽaltro, vive nella verità. Per questo Gesù dona la vita per noi, perché egli ascolta il Padre. Infatti è proprio sulla croce che tutti possono vedere che egli non fa nulla da se stesso (Giov 8, 28). Nel consegnare la sua vita agli altri, Gesù manifesta la relazione che lo lega al Padre. Vivere con il Padre e dare la vita per gli altri, sono la stessa cosa, sono la verità.Invece chi è il "diavolo"? Egli è colui che è incapace di relazione e per questo è il padre della menzogna e dellŽomicidio. Infatti è menzognero e padre della menzogna perché "parla a partire dal suo" (Gv 8, 44). La menzogna cioè equivale allŽincapacità della relazione con lŽaltro.Ed allora vale che cŽè un doppio modo di vivere la propria identità: a partire da sé (è questa la menzogna) e a partire dallŽaltro (è questa la verità). LŽuomo che fa di se stesso e delle cose che possiede il metro delle proprie azioni inevitabilmente è il violento. LŽuomo che gioca se stesso nel rapporto con lŽaltro, nello scambio vicendevole, che comprende chi è, vivendo un rapporto di fraternità con lŽaltro, davanti al suo volto, è lŽuomo della pace e della verità. CHIESA: CASA DELLA MISERICORDIA E DELLŽACCOGLIENZA4. La quarta considerazione, quella finale, verte sulla Chiesa. La Chiesa o è una casa di accoglienza dello straniero, o tradisce se stessa e il suo mistero. Il mistero infatti di cui vive la Chiesa è quello della misericordia di Dio. Noi siamo stati accolti da Dio in Gesù Cristo e siamo stati accolti nonostante i nostri peccati. Siamo noi per primi i lontani e gli stranieri che adesso godono del diritto di figli.Proprio perché la Chiesa è stata accolta da Dio e vive del mistero della sua misericordia, essa accoglie. Da quanto abbiamo detto dovrebbe essere fugato allora un equivoco: che lŽaccoglienza sia cioè qualcosa che la Chiesa fa agli altri. La Chiesa piuttosto riceve accoglienza e invita gli altri a condividere questa sua esperienza fondante, a ricevere, assieme ad essa, lŽaccoglienza del Padre. Questo sta a significare che lŽaccoglienza dellŽaltro non avviene davanti alla porta o alla sala dŽaspetto, dove si fa attendere il postino per mettere una firma di ricevuta. LŽaccoglienza avviene invece nella stanza buona, dove si riunisce la famiglia, perché lŽospite possa condividere lŽintimità della famiglia stessa.La stanza buona dove la famiglia della Chiesa si riunisce è in primo luogo la celebrazione liturgica, laddove la comunità celebra la vittoria del Cristo risorto sul male, sul peccato, sulla morte. Questo esclude già una liturgia esclusiva per lŽospite, simile al pranzo in cucina per i servi della casa, mentre i padroni mangiano in sala da pranzo. E cioè la liturgia stessa vissuta che deve essere accogliente e partecipata dagli ospiti.Cosa voglio dire? Come far partecipare alla liturgia un musulmano, un indù e via dicendo? Voglio forse battezzare tutti? Certamente che no. Non credo di essere ingenuo a tal punto. Cosa voglio dire allora? Voglio dire è solo al centro della esperienza ecclesiale e non ai margini, che possiamo accogliere gli altri. Voglio cioè svelare lŽipocrisia che si cela dietro tante attività assistenziali. Che di fatto lŽaccoglienza sia limitata a quelli della "nostra parrocchia" e che i gruppi e i movimenti mentre sviluppano solidarietà effettiva allŽinterno, poi allŽesterno agiscano in maniera più o meno assistenziale, è infatti un dato che non può essere accettato dal cristiano.Quando parliamo della stanza buona della famiglia cristiana in cui accogliere lo straniero, cioè della liturgia, non possiamo intendere lŽaffermazione in senso ritualistico. Oltretutto sarebbe semplicemente sciocco cercare di far partecipare gli altri ai sacramenti come primo gesto dellŽaccoglienza. Ma nel sacramento, e nella liturgia in genere, occorre distinguere il sacramento in quanto tale da ciò che gli scolastici chiamavano la res, la realtà e il frutto del rito sacramentale, che sta fisicamente "fuori" della celebrazione rituale ed è nella vita vissuta nella quotidianità. La realtà del sacramento della penitenza non sono i riti e gli atti compiuti durante la celebrazione, ma la riconciliazione con gli altri e con Dio, lŽesperienza della sua misericordia, la gratitudine del penitente, che nascono dalla celebrazione ma si espandono e ridondano nel vissuto mondano. ACCOGLIENZA NON RITUALE MA DI CONDIVISIONEParlando quindi dellŽaccoglienza nella stanza buona, non parlo della partecipazione rituale, ma dellŽaccoglienza nella res, nella realtà del mistero cristiano che è esperienza vissuta in mezzo agli uomini. Parliamo cioè di unŽeffettiva accoglienza umana, ma dentro la realtà costitutiva dellŽesperienza ecclesiale, che non è affatto limitata allo spazio sacro della celebrazione. Parliamo di unŽaccoglienza non nella periferia, ma nel centro del nostro cuore e del cuore della comunità credente e penitente. Parliamo della trasparenza della nostra fede che non ci riduce a burocrati dellŽaccoglienza.Far partecipare lŽaltro allŽesperienza della mia fede non significa affatto tentare di convertirlo e omologarlo a me. Vivere la mia esperienza di fede, di uomo o donna accolti dal Signore nella sua misericordia, non nascondere questa esperienza, ma testimoniarla con umiltà allŽaltro, non è azione interessata ad una omologazione. E questo non perché lasciamo al buon Dio la briga di compiere questa omologazione e noi ci limitiamo a fare la nostra parte, stando ad aspettare che il frutto maturo cada dallŽalbero. Quanto perché, al centro dellŽevento cristiano, lŽaltro ci sta con il suo volto, con la sua diversità. LŽevento cristiano è cioè accoglimento incondizionato dellŽaltro. Dio ci dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rom 5, 8). LŽamore cristiano si effonde senza condizioni, per necessità interiore. LŽaltro va comunque accolto, indipendentemente dal suo atteggiamento, giacché questa è la natura dellŽamore di Dio che si manifesta in Gesù Cristo. LŽaltro con-costituisce per così dire lŽessere di Cristo: "questo è il mio corpo, il per voi". Ma questo sta a significare che anche la Chiesa, se è corpo di Cristo, vive così.