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Il significato del lavoro umano


Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro

"Nel nostro tempo diventa sempre più rilevante il ruolo del lavoro umano, come fattore produttivo delle ricchezze immateriali e materiali; diventa, inoltre, evidente come il lavoro di un uomo si intrecci naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno" (Centesimus annus, 31).
Tra tante nozioni di lavoro quella del testo citato sembra comprendere bene la complessa dinamica dell´attività umana, perché permette di cogliere il senso del lavoro sotto varie categorie complementari: antropologica, sociale e etica.
La categoria antropologica è presente in modo ambivalente nel testo biblico della Genesi; nel primo capitolo si dice che Dio costituì l´uomo "signore" della natura; mentre nel secondo si afferma, in modo più realistico, che Dio collocò l´uomo nel giardino dell´Eden perché lo "coltivasse e lo custodisse". L´uomo è associato all´opera divina, creatrice e conservatrice; ma il lavoro non ha ancora lo spessore reale e umano dello sforzo e della fatica, che nasceranno come effetto collaterale del peccato. Dio castiga Adamo legando la sua esistenza al duro lavoro del dissodamento della terra: "Col sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gen 3,19).
Per secoli il pensiero cristiano ha oscillato tra la valorizzazione del lavoro come partecipazione all´opera creatrice di Dio e la sua svalutazione come maledizione e punizione inflitte per il peccato. Solo nei tempi moderni è prevalsa la nozione positiva del lavoro; demitologizzato, il lavoro appare per quello che è: una categoria antropologica; non qualcosa di imposto dall´esterno, ma un aspetto fondamentale della natura umana. Senza il lavoro l´uomo non si realizza e non realizza le sue opere.
Inoltre, il lavoro ha perso, in grande parte, l´identificazione con lo sforzo e la sofferenza per diventare strumento di riuscita e di successo, tanto economico che sociale. Questo risvolto positivo si lega
e deriva, fondamentalmente, dalla dematerializzazione del lavoro, un fenomeno in espansione che affida la realizzazione dei prodotti al funzionamento di macchinari sempre più sofisticati piuttosto che all´abilità manuale dei lavoratori, non più opifices, ma programmatori di macchine.
Questa mutata situazione provoca evidenti ripercussioni nella struttura dell´identità delle persone. Nel passato, anche recente, la pratica di un mestiere o di una professione per essere estensiva a tutta la vita lavorativa produceva, quasi naturalmente, un´identità sociale e un modo di vita proprio di ogni categoria. Creava solidarietà, interessi di gruppi e visibilità sociale. Nascevano identità sociali forti: la "classe operaia", il "ceto impiegatizio", le "dirigenze ecc.
Con la mutazione della natura del lavoro vengono meno tutte le passate identificazioni e ad ogni singolo uomo viene riconsegnato lo sforzo di ricrearsi un´identità personale e sociale. Ne segue una situazione di smarrimento e di incertezza, ma nasce pure un´opportunità per ricrearsi un´identità più ricca e singolare, legata a valori non riconducibili esclusivamente all´esercizio di un mestiere o di una professione. Venendo meno l´identità legata ai "ruoli" professionali ogni persona è spinta a cercare fuori del lavoro i fondamenti della sua collocazione sociale.
Ricondotto alla sua dimensione antropologica il lavoro è reinserito nel circuito delle dinamiche dell´agire umano, soprattutto sociali e etiche. Nella prospettiva della socialità il lavoro costituisce un forte fattore di integrazione in tutti i luoghi dell´attività umana, dall´ufficio alla fabbrica; non solo, lo stesso concetto di società si fonda sull´idea di reciprocità e di legame sociale: la mia attività contribuisce al benessere degli altri, come l´attività altrui contribuisce al mio. Il lavoro acquisisce un significato pluridimensionale: strumento di autorealizzazione, di produzione di beni con e per gli altri, e di socializzazione con gli altri soggetti umani.
La comprensione antropologica del lavoro conferisce spessore e significato esistenziale anche alla sua dimensione etica, che non può restringersi all´esaltazione del valore lavoro secondo la lettura "virtuosa" ed "economica" propria del calvinismo o del puritanesimo americano. Un approccio adeguato deve comprendere il lavoro come un bene per tutti, secondo le capacità di ognuno. Il concetto di lavoro-bene per tutti rimette a una concezione solidale della società e dei beni. Quando, per qualunque motivo, diminuisce la necessità di quantità-lavoro, la solidarietà esige che il lavoro disponibile sia diviso tra tutti i lavoratori potenziali. Il corollario, secondo le capacità di ognuno, comporta una duplice comprensione; la prima: è accettabile e giusto che ci siano lavori differenziati che esigono diversi livelli di preparazione tecnica e di capacità umane; la seconda: è necessario che ogni lavoratore acquisisca le virtù e le abilità specifiche proprie della sua professione o ruolo. Nel mondo del lavoro, insomma, per essere virtuosi e buoni non basta una generica onestà o assiduità; occorrono invece le virtù e le abilità specifiche per eseguire bene i compiti e le funzioni della propria professionalità.
Oggi, ci troviamo di fronte a un complesso conflitto culturale: da un lato si accentua la mercificazione del lavoro e dei "talenti" personali, mentre dall´altro si fanno sempre più forti i richiami alla riscoperta del significato antropologico (sociale, etico e spirituale) dell´attività umana. Solo l´affermazione di questa seconda prospettiva può contribuire a costruire e garantire la dignità di ogni persona umana.