» Chiesa Cattolica Italiana » Documenti »  Documentazione
Celebrare In spirito e verità: diritto e dovere del battezzato di partecipare alla vita liturgica della Chiesa


Ufficio Catechistico Nazionale - Catechesi


Relazione di P. Silvano Maggiani



E ardente desiderio della Madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazione liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, "stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto" (2Pt 2,9; cfr. 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del Battesimo" (SC, 14).



PREMESSA


Interrogarci sul perché sia affidata ad una relazione introduttiva di un Convegno come il nostro la fondazione della "partecipazione alla vita liturgica" non dovrà sembrare oziosità. E ancora domandarsi se l´istanza soggiacente alla tematica è di natura teologico-pastorale o di natura storica, non dovrà apparire perdita di tempo. Rispondendo alla seconda domanda troverà chiarimento anche la prima.
Ritengo, che al di là delle intenzioni degli organizzatori, il tema scelto si giustifica perché drammaticamente la prassi inerente alla partecipazione liturgica denuncia che la relativa storia del partecipare in ecclesia è, culturalmente parlando, così breve nel tempo che, ciò che può essere stato o è ritenuto un valore, ha avuto e ha una fragile recezione. Tentiamo di motivare. Ormai è sempre più chiaro che "a livello di ripensamento epistemologico l´attenzione pastorale di SC si è concentrata prevalentemente attorno ai criteri di riforma e di adattamento (SC 21-46). La pastoralità della liturgia nella prassi celebrativa del popolo di Dio è sviluppata da SC nei temi dell´attiva partecipazione e dell´educazione liturgica (SC 14-20) . L´ecclesiologia sottesa a SC è già visione di Chiesa che sarà sviluppata in LG; è quindi un´idea di Chiesa comunione, di Chiesa quale assemblea del popolo di Dio, popolo, che nella diversità dei ministeri ha un ruolo attivo (SC 14. 21. 26. 41. 90. 114. 121). La lucida e tenace ripresa della categoria di partecipazione, categoria ripresa dal sintagma "partecipazione attiva" usato da Pio X nel Motu Proprio
Tra le sollecitudini (1903); maturata
lungo la densa gestazione del Movimento liturgico, accolta quale principio ispiratore e direttivo della riforma liturgica, è pensabile e giustificabile quando consideriamo, in una lettura diacronica, l´evolversi o involversi di una ecclesiologia di comunione e della santità ad una ecclesiologia dell´istituzione e dei mezzi di salvezza fondati da Cristo. Questa entropia della mentalità ecclesiologica, s´interseca progressivamente con una prassi che condiziona e/o è condizionata dall´entropia fino al suo culmine, verso il XII secolo .
Così, "in Gallia, dalla fine del VI s. si comincia a non parlare più latino, dall´VIII s. nel Regno franco - a Roma dall´XI - il Canone della Messa è recitato dal prete in silenzio. Altre modalità rituali accentuano progressivamente la mediazione sacerdotale: è evidente in numerose spiegazioni della Messa attorno allo VIII s.; l´altare è allontanato dal popolo; al IX s. al posto del semplice "qui tibi afferunt" del Memento dei vivi, si introduce la formula "pro quibus tibi offerimus vel qui tibi offerunt". Al XII s., il prete ripete le parti che il coro o altri ministri hanno cantato. Si è perduto il senso della celebrazione come atto dell´ecclesia, essa è diventata l´atto del prete, al quale atto i fedeli assistono" .
Per secoli la chiesa d´occidente ha vissuto nel suo tessuto più profondo quello che l´appassionato e fedele credente, profetico e geniale, Antonio Rosmini, scriveva tra l´8 novembre 1832 e l´11 marzo 1833: "L´essere il popolo pressoché diviso e separato d´intelligenza dalla Chiesa nel culto, è la prima delle piaghe aperte e sparte che grondano vivo sangue nel mistico corpo di Gesù Cristo" . Il realismo rosminiano dà ancora da pensare, perché ripeto, ciò che denuncia è una realtà culturale radicale e profonda. Questi anni di riforma liturgica, pur con risultati positivi, ci hanno mostrato, ad una verace verifica, come sia arduo trasformare in prassi rituale, in vita, ciò che la
coscienza ecclesiale può avere matura
to . A suo modo, anche l´effervescenza partecipazionistica, che sembra essere esplosa in molte esperienze ecclesiali di una assemblea acuisce il problema. Per esemplificare basti pensare al senso delle modifiche strutturali dello spazio per il popolo, in particolare ai luoghi simbolici della mensa/altare/ambone, vissuta quasi coralmente, pur con tensione trasformatrice pastoralmente parlando, di luoghi versus il popolo obliando la lezione originaria e poietica ed estetica di luoghi che situano i fedeli: circumnstantes. L. Bouyer aveva avvertito ben presto il problema: "Normalmente i ministri non devono essere separati dalla comunità, ma agire in mezzo ad essa, per farla partecipare quanto più pienamente possibile a ciò che essi fanno individualmente per questa comunità presa nel suo insieme. D´altra parte la preghiera, l´offerta e la comunione individuali sono parte integrante del culto pubblico. Non è una semplice conseguenza del culto dei chierici, supposto esistente in se stesso e per se stesso. E, possiamo dire, la materia stessa sulla quale i ministri devono lavorare per consacrarla; non possono farlo senza che sia loro costantemente associato il popolo intero in cui sono i capi. Ciò significa che ai tre punti focali della celebrazione - l´annuncio della Parola, l´altare attorno al quale tutti devono adunarsi in risposta alla Parola, la parusia che dev´essere l´orientamento ultimo - non si deve aggiungere un quarto fulcro che sarebbe il clero, o lo stesso celebrante" .
La stratificazione culturale, causata dalla sedimentazione storica, tuttavia ha chiaramente rivelato come il problema sia anche di natura teologico-pastorale e la teologia coinvolta in realtà non è soltanto quella più evidente, la ecclesiologia. Il secondo millennio ha progressivamente maturato una teologia, fino alla manualistica sacramentaria, preoccupata di una interpretazione puramente metafisica, di una lettura della quidditas entitativa, in cui l´un
ica realtà quasi sempre considerata è s
tata l´oggetto, il mistero di Gesù, con l´esclusione del soggetto, i fedeli battezzati . Inoltre le due grandi discontinuità nell´episteme della cultura occidentale, verso la metà del XVII sec. e quella degli inizi del XIX con la dissociazione di senso tra la parola e la cosa, preceduto da quella che è stata chiamata l´erosione sacramentale, ciò la disarticolazione essenziale del fare e del dire costitutivo del sacramento, dove la prevalenza della purezza del dire relativizza l´agire, il fare, che hanno contribuito a dividere il soggetto in sè dell´oggetto della liturgia .
Come osservava A. Vergote: "Tutto un contesto religioso e culturale, tutto un modo di pensare in filosofia e in teologia hanno contribuito ad allontanare il rito dal suo centro di gravitazione che è l´atto di fede. Una antropologia ristretta lo ha dissociato dall´esistenza per abbandonarlo ad una teologia troppo verticale" . L´apporto teologico-liturgico del Vaticano II con la riscoperta del battesimo quale fondamento della salvezza e quindi base indiscussa per la partecipazione del battezzato alla partecipazione attiva per la costruzione della Chiesa e alla missione della medesima, ha avuto il merito di allineare l´esigenza della salvezza, con l´intensità della appartenenza ecclesiale tra un non generalizzato partecipazionismo e la sua attualizzazione qualitativa.
Il gioco si sta perseguendo tra fede che salva e fede che testimonia. La seconda qualifica la prima, la fede che salva si caratterizza nella testimonianza ed e in essa che prende significato la partecipazione. Il nodo è delicato ed è di bruciante attualità. Necessita una severa riflessione, non paurosa ma libera, anche se comporterà disorientamenti e non indolori riflessioni.
Questi cenni sintetici mi pare possano motivare il ritorno riflesso su un argomento che sembrerebbe scontato e che invece ha ancora bisogno di essere maturato e non solo nella prassi.
E ciò che tentiamo di fare lasci
andoci guidare dal metodo che SC sembra
indicare nel numero che ripropone il diritto/dovere dei battezzati alla partecipazione liturgica (n. 14).
La Costituzione individua nella natura della liturgia il fondamento della partecipazione. Ma ciò che è importante: non si tratta di mera partecipazione pensata in se e per sè al nominativo, bensì in senso verbale, attivo: al celebrare le azioni liturgiche. Con l´aiuto della scienza liturgica sviluppatasi in questi anni post-conciliari, si potrebbe dire meglio la natura della liturgia fonda il celebrare cristiano, fonda l´"adorazione in spirito e verità; definita dal fondatore, il Signore Gesù (Gv 4,24). Il "celebrare in spirito e verità" diritto dovere del battezzato, vedremo così che è oltre un diritto/dovere. Per giungere a questa ipotesi di partenza è necessario darsi ragione della natura della liturgia, quindi nella consapevolezza che il celebrare liturgico è teandrico, opera umano divina, dobbiamo trovare i suoi fondamenti di natura antropologica e quelli teologici. Con queste basi sarà possibile dare ampie motivazioni circa la componente umana della ritualità la sua presenza, il suo ruolo, la sua responsabilità. Escludiamo di proposito, ogni riferimento al come i fedeli devono rispondere in quanto battezzati alla natura della liturgia, poiché ciò non è richiesto alla presente relazione.