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Il 50° anniversario di Marcinelle (A. Seghetto)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 5/06


Nel breve periodo che precede la firma del primo Protocollo, i Ministeri belgi interessati sono continuamente in contatto tra loro per definire le condizioni e le esigenze di ammissibilità dei postulanti all’emigrazione nelle miniere belghe.
Una lettera del Ministero delle vittime di guerra in data 5 febbraio 1946, parla di “regole emanate dall’amministrazione della Polizia degli stranieri”, che definisce “formali”.
Prima che gli operai italiani siano ammessi all’espatrio verso il Belgio, deve essere effettuata una profonda e minuziosa inchiesta su ogni individuo che voglia partire. Una regola che si vorrebbe fosse praticata è di conciliare: “l’interesse primordiale che ha il nostro paese (il Belgio) di non ammettere sul suo territorio che degli stranieri il cui soggiorno non rischi in alcun modo di mettere in pericolo la sicurezza pubblica. E, infine, gli interessi economici che comandano di ammettere la manodopera qualificata italiana nelle nostre miniere”.
Inoltre vengono esclusi i pregiudicati, i militanti o agitatori politici, agenti informatori per stranieri. Non sono ammessi gli italiani già espulsi dal Belgio dal 1931. Un interrogatorio ad ogni candidato è previsto, ma che per ragioni di tempo, (se ne dovrebbero effettuare 2.000 per settimana) sarà superficiale.
Se da una parte è legittimo che il Belgio si premuri di non far entrare sul suo territorio delle persone che diano delle noie, resta anche assodato che la Polizia degli stranieri è onnipotente e onnipresente. Rimane anche vero che, in pratica, tutti gli italiani sono, è il meno che si possa pensare, sospettati di essere almeno dei fautori di disordini. Si può quindi concludere che, di fatto, ogni connazionale che metterà piede sul suolo belga è accompagnato, senza che ne sia al corrente, da una scheda che contiene tutta la sua vita passata e privata. Infine, viene richiesto che sia verificata la casella giudiziaria, se è stato ricercato in Belgio per infrazioni al diritto comune o alla sicurezza dello Stato, la sua precedente attività politica, ecc...
Non meno severe erano le condizioni fisiche richieste. Ecco come vengono elencate: l’età massima è di 30 anni, eventualmente 40 per gli operai con una salute eccellente; rifiutare gli operai con varici, ernie, amputazione di dita o parti del dito, malattie veneree; il cuore e i polmoni devono essere in uno stato eccellente; le articolazioni devono funzionare normalmente.
Si può ben pensare che il Belgio era disposto a ricevere solo operai che mostrassero “carta bianca” e che fossero sani come pesci.
Secondo questo Protocollo, i futuri minatori non dovevano superare l’età di 35 anni; dovevano presentarsi a una stazione di partenza da fissare (subito sarà Chiasso, poi verrà spostata a Milano) per la visita medica, il controllo della Sicurezza dello Stato, e, infine, per firmare il contratto che comportava la durata di dodici mesi, impegnandosi a lavorare in miniera per cinque anni. I lavoratori avevano diritto a un “alloggio conveniente”, alle stesse condizioni di lavoro, ai vantaggi sociali e di salario accordati ai lavoratori belgi, al pagamento degli assegni familiari anche alle famiglie i cui bambini risiedevano fuori del Belgio.
Dal protocollo del giugno 1946 alla catastrofe di Marcinelle dell’8 agosto 1956, la storia delle relazioni italo-belghe sarà puntata da numerosi conflitti, riguardanti il non rispetto delle disposizioni del protocollo e di quelli che saranno firmati successivamente. Non si parla, per esempio, di assistenza in caso di malattia o di incidente sul lavoro del minatore italiano durante i primi sei mesi; la mutua non interviene che dopo questo periodo di tempo.
Era l’inizio di una nuova fase dell’immigrazione italiana in Belgio, quella che marcherà più profondamente la sua memoria : l’immigrazione nell’industria carbonifica. Questa, in breve, la situazione che esiste alla fine del conflitto. Molti uomini, nel fiore dell’età e nel pieno delle loro forze, liberati dal servizio militare, si trovano senza lavoro, ma anche senza professione, senza mezzi economici. Non si scorgono soluzioni all’orizzonte, se non quelle di una nuova emigrazione e per di più di massa.
D’altra parte, in quel periodo, anche per il Belgio esiste un problema importante: la mancanza di manodopera nelle miniere. Da 136.530 operai nel 1940, si passa a 87.566 nel 1945. La produzione diminuisce in modo impressionante, del 50% circa. Si producono, fine 1945, 15.683.656 tonnellate di carbone, mentre prima della guerra si arrivava a circa 31 milioni di tonnellate. Nonostante le varie misure adottate e i benefici offerti, molti belgi si rifiutano di scendere nelle miniere. Vengono sostituiti provvisoriamente dai prigionieri di guerra, in genere russi; ma il giorno della loro liberazione è già fissato. Quando la liberazione e il rimpatrio di questi prigionieri cominciano a diventare effettivi, nel maggio 1947, essi sono 34.703 nelle miniere e 12.900 in altri settori. È urgente il bisogno di sostituire questi prigionieri pronti alla liberazione, se si vuole continuare la produzione e salvare l’economia belga.
 
Il Protocollo del 23 giugno 1946
Il negoziatore del Protocollo da parte belga non è un diplomatico, ma uno specialista in questioni carbonifere: Jean Vecleyen. Noi diremmo oggi un “tecnico”.
I suoi interlocutori in Belgio, che aiutano ad arrivare alla conclusione, come ho già ricordato, sono principalmente: Fédéchar (Federazione carbonifera del Belgio), la Sicurezza Nazionale (la potente Polizia degli stranieri, che di fatto imporrà i suoi voleri e i diktats in materia di immigrazione), la FGTB (Federazione Generale del Lavoro Belga - sindacato socialista) e il Comitato Italia Libera (espressione del PCI in Belgio, alla liberazione).
Il secondo articolo del Protocollo è rimasto un enigma fino a qualche anno fa. Molte le ipotesi formulate. Il detto: “Venduti per un sacco di carbone”, era nato tra le due guerre e riguardava le miniere di Francia. Dopo la firma del Protocollo fu ripreso anche per il Belgio, probabilmente al momento e come risposta ad Alcide De Gasperi, quando ha sottoscritto la scelta atlantica escludendo i comunisti italiani dal governo.
Solo nel 1994, dopo lunghe ricerche, sono riuscito a rintracciare il testo originale dell’accordo “minatori-carbone”1. è stato siglato il 15 marzo 1946, quindi prima del Protocollo, che lo cita espressamente all’articolo 2. Il governo, in questo periodo, è di unità nazionale; vi fanno parte tutti i partiti dell’arco costituzionale.
Si tratta di un accordo che va sotto il nome di “Accordo minatori-carbone”, e comprende due lettere. La prima porta la data del 12 marzo 1946, emanata dall’Ambasciata belga a Roma, è indirizzata al Ministero degli Affari esteri italiano. Una seconda lettera completa l’accordo. Essa data il 15 marzo 1946 ed è la risposta inviata dal Ministero degli Affari esteri all’Ambasciata belga a Roma. Le due lettere mettono su un piatto della bilancia gli operai italiani destinati a lavorare al fondo nelle miniere belghe, e sull’altro piatto una certa quantità di carbone da fornire mensilmente, in contropartita, all’Italia. La quantità di carbone da fornire dal Belgio è modulata sulla produzione di carbone e prevede tre casi di fattispecie. In esso si stipula che per ogni scaglione di mille minatori italiani inviati a lavorare al fondo delle miniere belghe, la quantità di carbone mensile sarà di 2.500 tonnellate se la produzione è inferiore a 1.750.000 tonnellate; passerà a 3.500 se la produzione arriva a 2 milioni di tonnellate; se poi diventa superiore a 2 milioni di tonnellate, il carbone inviato all’Italia passerà a 5.000 tonnellate.
L’accordo non accenna minimamente a un possibile prezzo del carbone, e la modulazione della quantità da inviare in Italia convenzionata a tre livelli, basata sulla produzione (in qualche modo un premio all’aumento della produzione), permettono di concludere, che tale carbone era gratuito. Tutto si svolge attorno ai due termini: minatori e carbone. Grosso modo, si puó affermare che veniva inviata in Italia la produzione di una o due giornate di estrazione al mese; il rimanente restava al Belgio.
Il Protocollo parla di 50.000 operai, che potevano in seguito quadruplicare di numero con il ricongiungimento delle famiglie che hanno cominciato ad arrivare in Belgio quasi subito, già nel 1947.
I criteri che hanno ispirato questo Protocollo sono essenzialmente economici e poco sociali e umani. Tuttavia, l’Italia poteva dirsi soddisfatta sia perché solo il Belgio aveva aperto le porte a un paese che aveva perduto la guerra, sia perché capiva che il Belgio non le avrebbe mai rimproverato le passate sventure politiche e militari.
Infine va sottolineata la clausola degli assegni familiari ai figli dei minatori italiani rimasti in Italia, per i quali il Belgio modificherà la sua legge. Altro vantaggio per gli italiani, a onore del Belgio, è d’aver permessa subito un’emigrazione familiare, nonostante la miserevole condizione degli alloggi, che darà una forte spinta di stabilità agli operai italiani. Non si potrà mai capire e valutare pienamente i benefici che l’emigrazione familiare ha portato al Belgio, alla produzione e, naturalmente, agli stessi operai minatori italiani.
 
Alloggi
Una lacuna grande e grave per il Belgio è quella dell’alloggio. Il Protocollo (art. 3) e il Contratto tipo di lavoro (art. 9), prevedono dei “convenienti alloggi”. Ma quando il Belgio firma il Protocollo conosce molto bene le capacità disponibili degli alloggi. Esso non potrà alloggiare i 50.000 operai che ha richiesto, poiché la Fédéchar (Federazione carbonifera del Belgio) ha comunicato i posti-letto disponibili e cioè 9.590 per celibi e 431 per famiglie. Fédéchar, infatti, comunica al Capo Gabinetto del Ministro del Carbone, in data 6 maggio 1946, che le possibilità di alloggio al 2 maggio 1946 sono le seguenti:
Campina          1.435 celibi     e 160 famiglie
Centro 2.045 celibi     e 110 famiglie
Charleroi          2.706 celibi     e   32 famiglie
Liegi     1.595 celibi     e   38 famiglie
Mons   1.810 celibi     e   91 famiglie
TOTALE          9.591 celibi    e 431 famiglie
                                             cioè 10.022 minatori
E per gli altri 40.000 non era previsto assolutamente niente: dovevano cavarsela come meglio potevano.
Il problema degli alloggi, per il Belgio, è proprio la macchia nera, una vera vergogna, rimasta per molti anni, e, adesso tutti, in modo particolare i belgi, lo riconoscono senza mezzi termini.
Esistevano vari tipi di alloggi. Oltre ai rinomati «corons», c’erano i falansteri in lamiera ondulata, le baracche in legno e le famose cantine, che nonostante tutto, erano una soluzione tra le migliori. Erano vecchie costruzioni delle miniere chiuse negli anni ’30 e trasformate in cantine. Qui si potevano alloggiare anche 60-70 operai celibi. In alcune, gli operai si facevano da mangiare da soli, in altre c’era la mensa preparata dal cantiniere che si occupava pure delle pulizie e lavare le lenzuola, ma non la biancheria intima personale. Gli operai dormivano stipati in grandi dormitori comuni, a volte con letti a castello. Si capiscono bene le difficoltà quando si tiene presente che si effettuavano regolarmente i tre turni di lavoro. Gli operai pagavano una quota stabilita per vitto e alloggio al cantiniere. Si era istaurata, in alcune cantine, un’abitudine quanto mai particolare. A ritirare la busta-paga alla miniera, non era il minatore, ma il cantiniere. Questi si riteneva quello che gli spettava per il vitto, l’alloggio, le pulizie, ecc ... e il resto lo consegnava all’operaio, il quale non sapeva mai esattamente quale fosse il suo vero salario guadagnato e le spese incontrate. Doveva dar unicamente fiducia al cantiniere. Per fortuna non ci sono mai stati reclami in questo campo.
Passare dai falansteri alle baracche di legno era un miglioramento riconosciuto e ricercato nonostante avessero il pavimento in terra battuta o in cemento. I campi di baracche erano stati improvvisati, alla meno peggio, per i prigionieri di guerra e costretti a lavorare nelle miniere. Le baracche erano state rabberciate in qualche modo e assegnate poi ai minatori italiani. Ecco come le descrive un trevisano che abitava nel famoso campo di Clos Riveaux a Maurage, vicino ai prigionieri russi. “Arrivati alla baracca hanno designato a tutti la stanza. La baracca aveva quattro letti per stanza ed era una di quelle lasciate libere dai prigionieri. La stanza era abbastanza grande e i letti erano uno vicino all’altro, si aveva un armadio per tutti e quattro, non troppo grande. ... Anzi quando sono arrivato, tre quarti del campo di baracche era ancora occupato dai prigionieri. ... Per andare al gabinetto, bisognava percorrere 50 metri fuori, all’aria aperta. I gabinetti erano tutti in fila e dietro c’era un canale d’acqua. ...Abitavo in una baracca e andavo a mangiare vicino ai prigionieri, in un’altra baracca, dove avevano riservato un gran salone e là ci davano da mangiare”2.
Per altri operai non era diverso. Soltanto nel Limburgo le case sono certamente migliori. Rarissimi sono i vecchi campi di baracche. Le case sono spaziose, ben studiate. Il paesaggio stesso è più accogliente.
Negli anni Sessanta, quindi dopo la tragedia del Bois du Cazier, quando le miniere progressivamente demoliscono le baracche, molti italiani non accettano volentieri di abbandonarle, sia perché l’affitto era molto conveniente, sia perché, in modo particolare, le amicizie che avevano intrecciate venivano a crollare. Verso la fine degli anni Settanta, infine, quando le miniere metteranno in vendita le case nei corons e nelle cités, visto che anche qui il prezzo era accettabile, venivano comperate dagli italiani, raggiungendo in tale modo uno dei loro sogni: possedere una casa propria.
Veramente anche i belgi sono alloggiati alla medesima insegna.
 
Lo spettro della silicosi
Quanto la miniera sia stata deleteria per la salute dei nostri connazionali risulta con evidenza se si considera che nel 1991 ben 16.749 minatori erano ancora vivi e percepivano un indennizzo per malattia professionale (silicosi). Nel 1994 gli italiani beneficiari di una rendita per malattia professionale a carico del Belgio sono 21.228; tra questi, gli invalidi per silicosi sono 13.278 (cioè il 62,5%). Nel 1995 gli italiani beneficiari di pensione belga arrivano a 75.591 così suddivisi: residenti in Belgio: 29.394 mentre quelli residenti in Italia assommano a 43.534, il resto 2.663 risiedono in altri paesi. E dire che per venire a lavorare nelle miniere del Belgio dovevano essere tutti riconosciuti in ottima salute, sani come pesci. Che nel 1995 siano ritornati complessivamente in Italia 75.591 titolari di una pensione dal Belgio, vuol dire che, nonostante tutto, sono abbastanza numerosi quelli che hanno potuto realizzare il loro sogno: quello del rientro, almeno al momento della pensione.
Specialmente quando è iniziata la “grande emigrazione” dall’Italia, nel 1946, sono aumentati gli incidenti e il numero dei morti in miniera: più di mille in dieci anni, tre mila tra il 1946 e il 1992. Se, infine, consideriamo solo i minatori italiani morti per incidenti in miniera nel periodo 1946-1963 se ne contano 867 (compresi i 136 della catastrofe di Marcinelle). Ma nell’insieme, fino alla chiusura dell’ultima miniera, superano il migliaio.
Il Belgio, sia pure sotto la pressione dei sindacati e dei patronati italiani e belgi, e non è certo estraneo il fatto che in Italia fosse già legge, esso ha riconosciuto la pneumoconiosi (silicosi) come malattia professionale. Il decreto reale è entrato in vigore il 1° gennaio 1964. Da parte italiana, è stato firmato dall’On. Ferdinando Storchi.
Oltre al lavoro in fondo alla miniera, ha contribuito a deteriorare la salute dei minatori anche lo stato ambientale in cui vivevano, aria piena di polvere e acidi, l’alloggio umido e malsano in cui erano costretti a passare il resto della giornata, a cui bisogna aggiungere anche lo stato psicologico del minatore italiano. Il dottore, in camice bianco, fa necessariamente parte della categoria da rispettare e forse temere. Inoltre non se ne intende per niente di malattie, di medicina, ecc .. E quindi non gli resta che sottomettersi e accettare il giudizio del dottore, senza ignorare che non avrebbe avuto altre vie d’uscita.
C’è poi la piaga più cruda: quella dei feriti sul lavoro. Questi uomini, che la sfortuna ha voluto colpire, sono spesso inviati al lavoro quando hanno le ferite ancora aperte o le ossa appena saldate. Arrivare quindi alla riconoscenza della “silicosi” come malattia professionale fu una vera conquista, anche se non facile.
 
Il dottore André Van Vetter
Il dottor Andrea Van Vetter, d’origine fiamminga, laureato all’Università di medicina di Modena, consacra le sue brillanti qualità professionali e umane a vantaggio dei nostri connazionali feriti sul lavoro. Più d’una volta, ha alzato la sua voce franca e coraggiosa in favore dei loro diritti di lavoratori conculcati e minimizzati e si batté con energia per impedire che i feriti fossero costretti a riprendere il lavoro prima della guarigione. Ma il suo scopo principale è la cura preventiva presso i minatori della pneumoconiosi o “silicosi”.
Il dottor Andrea Van Vetter, il 18 gennaio 1953 ha costituito un “Comitato italo-belga per la protezione della salute e della sicurezza del lavoratore”, sotto la spinta di P. Giacomo Sartori, missionario scalabriniano, nel corso di una memorabile riunione di sindacalisti italiani del bacino di Charleroi. L’iniziativa è stata accolta con entusiasmo da tutti gli italiani del Belgio e ha trovato consenso nella stragrande maggioranza della stampa belga. Al Comitato era chiara la necessità d’inserire la silicosi tra le malattie professionali. Ci si arriverà dopo dieci anni!
Ma qui abbiamo la prima richiesta pubblica e ufficiale. A quel tempo, il Belgio, era il solo paese d’Europa a non riconoscere la silicosi del minatore come malattia professionale.
Nella scelta energetica entra in lizza con l’elettricità e il carbone anche l’energia nucleare e il petrolio. La produttività carbonifera è in perdita di velocità, mentre i salari sono mantenuti a un livello più alto che negli altri settori d’attività industriale. Infatti, vengono accordate enormi sovvenzioni, direttamente o indirettamente, alle miniere in vista di coprire il deficit sempre più grande tra i costi della produzione e gli introiti delle vendite. Il carbone belga era più caro di quello fatto arrivare dall’America. Infatti tra i paesi della C.E.C.A. il Belgio è quello che mantiene più elevato il costo del carbone (da 865 a 1.155 franchi la tonnellata, secondo le qualità, contro l’oscillazione da 667 a 891 della Germania e da 725 a 1.072 della Francia) Si può quindi ben comprendere che il paese più danneggiato sia proprio il Belgio il quale non riesce più a smerciare un buon terzo della sua produzione annuale.
Il Consiglio dei Ministri garantisce che i lavoratori, licenziati in seguito alla chiusura dei pozzi boreni, verranno impiegati in altri bacini carboniferi, o in altri settori dell’industria. Per chi invece non venisse assorbito subito in un altro lavoro, verrà assicurato, per i primi quattro mesi, il cento per cento del salario medio; per altri quattro mesi l’80% e per gli ultimi quattro il 60%. Nel giro di un anno tutti dovrebbero essere reintegrati al lavoro.
Il piano di risanamento che il Consiglio dei Ministri della C.E.C.A. e il governo di Bruxelles hanno insieme concordato, può essere riassunto, schematicamente, nelle seguenti linee:
1. fusione delle società minerarie e quindi raggruppamento delle concessioni;
2. chiusura di vari pozzi;
3. licenziamento di 27 mila minatori (nello spazio di tre anni);
4. nel frattempo, per tanti milioni di tonnellate di carbone estratto, tanti milioni di sussidio, allo scopo di rendere il prezzo del combustibile commercialmente competitivo sul mercato.
Per l’emigrazione italiana resta ancora un grosso problema, poiché tra i 27 mila minatori da licenziare, gli italiani sono molto numerosi. Al di là degli indennizzi promessi, si sa che il Belgio ha bisogno di nuove industrie, per le quali occorrerebbe una qualifica che il 99 per cento dei nostri minatori, emigrati in Belgio dalla vita agricola o da qualche altra professione estemporanea, sono ben lontani dal possedere.
L’ultima miniera in Vallonia, quella di «Santa Caterina del charbonnage du Roton» a Farciennes, ferma i battenti nel 1984, mentre l’ultima miniera chiusa nel Limburgo è del 1992.
Si chiude così un lungo capitolo di storia per il Belgio, il periodo del carbone e della famosa “battaglia del carbone”, che permise al Belgio, grazie molto agli italiani, di vincerla e di realizzare la sua ricostruzione. Non è però finito il capitolo dell’immigrazione italiana in Belgio, come la storia di questo paese non è pronta a chiudersi. Tutt’altro!
Il Belgio ha il grande e innegabile merito d’aver permesso fin dall’inizio l’emigrazione familiare, nonostante la penuria e lo stato indegno degli alloggi. Con la famiglia sono venuti o sono nati i figli e i nipoti che ancora sono in Belgio e non c’è discussione alcuna che vi rimangano. E l’emigrazione italiana continua trasformandosi e adattandosi alla vita del posto. L’immigrazione italiana ha portato e conservato anche i valori, i molti tratti singolari del suo carattere (certo, ci sono stati e ci sono anche dei lati meno positivi). E anche il popolo belga ne ha subito il fascino e ha cambiato pure lui.
Marcinelle
Abbiamo celebrato quest’anno, l’8 agosto, il 50° anniversario di questa immane tragedia, passata alla storia come « la tragedia degli italiani ». 262 i morti, di cui 136 italiani. Questa data resta ben impressa ed è ancora molto viva nella memoria collettiva di tutti gli italiani residenti in Belgio.
L’organizzazione della giornata commemorativa, data la ricorrenza, poteva essere molto migliore. Un solo particolare: la diffusione degli altoparlanti era difettosa e l’assistenza non ha capito quasi niente. Vorrei, tuttavia, sottolineare due aspetti positivi.
Per la prima volta è stata celebrata una S. Messa in suffragio delle vittime del Bois du Cazier. Certo, anche in questi ultimi anni, era stata celebrata una S. Messa ma non entrava nel programma ufficiale. Era una S. Messa quasi «clandestina». Quasi nessuno era al corrente e veniva celebrata nella chiesa parrocchiale, lì vicino, dove si erano svolti i solenni funerali dei morti nella tragedia. Quest’anno invece la celebrazione era nel programma e celebrata sulla spianata davanti a una folla immensa e raccolta; è stata presieduta dal Nunzio Apostolico Mons. Karl-Josef Rauber.
La partecipazione è stata un vero avvenimento. Anche nel passato la partecipazione è stata importante, ma questo 50° anniversario ha richiamato una presenza che, sembra, neppure gli organizzatori avessero previsto. Non occorre sottolineare che, nonostante tutto, gli italiani erano la stragrande maggioranza. Basti ricordare che alcuni erano venuti direttamente dall’Italia con delle corriere. È il caso di quelli venuti da Belluno, Bergamo e altri, venuti per la circostanza del 50° anniversario.
Oltre alla parte religiosa, la parte civile si è svolta come al solito, ma anche con maggior solennità. Al monumento dei caduti del Bois du Cazier nel cimitero di Marcinelle furono deposti delle corone di fiori, come anche davanti alla lapide degli italiani morti in Belgio nello stesso cimitero di Marcinelle. Corone di fiori furono poi deposte anche ai piedi della stele di marmo di Carrara con scolpiti i nomi di tutti i morti e nella grafia del paese di origine. Parecchi dei presenti si sono anche spostati al centro di Marcinelle, con autobus messi a disposizione gratuitamente dal Comune di Charleroi, dove un monumento ricorda questo triste avvenimento.
 
   
 
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1 A. Seghetto, Accordo minatori-carbone tra Belgio e Italia, in Dossier Europa Emigrazione, Roma, N. 1 - Marzo 1994, p. 19-21
2 A. Seghetto, Sopravvissuti per raccontare, Centro Studi Emigrazione, Roma 1993, p. 71