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L’iniziazione cristiana dei migranti: lo sguardo della “chiesa in carovana” (L.Caffagnini)


Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 2/12


Prologo
«Il primo approccio con le persone in mobilità che bussano alla nostra porta non dev’essere l’insegnamento, ma la cordialità e l’accoglienza. Purtroppo non sempre gli stranieri sono accolti bene. Chi arriva dovrebbe sentire il calore della comunità cristiana, trovare il catechista pronto ad aiutarlo a scoprire cosa si addice alla sua religiosità. Alla base di tutto sta, a mio parere, favorire la conoscenza di Dio facendo sentire la persona amata, perdonata, partecipe del cammino di rinnovamento che la vita cristiana propone».
A parlare è don Sergio Aldigeri, già Direttore regionale Migrantes, parroco di una chiesa nel centro storico di Parma, in cui cattolici filippini hanno trovato una vera casa, oltre a una sezione su Parmachiostro, il portale della parrocchia. La Filipino community in Sant’Uldarico “posta” notizie e annunci in inglese e in tagalog, lingua con cui viene anche celebrata una delle Eucarestie domenicali.
Ho interpellato don Aldigeri sull’iniziazione cristiana degli adulti in mobilità perché anche come Direttore diocesano Migrantes ha esperienza d’incontro e di avvio di un cammino con i migranti che si affacciano nelle chiese, così come - è la sua missione preferita - con gli italiani che hanno lasciato casa per cercare in Europa o in America un futuro più sicuro.
Continuando a parlare dell’iniziazione, il parroco afferma: «è determinante il modo di vivere queste realtà che immettono nella famiglia della Chiesa. Il segreto della conversione è il dialogo cristiano che, a volte, ha più l’effetto di cambiare se stessi che l’altra persona. La crescita avviene attraverso la sensibilità dell’altro, lo scambio con lui. Il rito, il segno, non può essere un momento staccato dalla vita, deve diventare assunzione di solidarietà con l’altro».
Il contesto
L’iniziazione cristiana è un aspetto importante nella vita della Chiesa cattolica, un percorso chiamato a lasciarsi permeare dallo spirito nel quale il Concilio Vaticano II ha rinnovato la liturgia nella Sacrosanctum Concilium, percorso che può attingere a documenti successivi1.
Per delineare il contesto nel quale si pone oggi l’iniziazione cristiana degli adulti in mobilità ci rifacciamo ai dati contenuti nella relazione che monsignor Walter Ruspi ha presentato al convegno “L’integrazione ecclesiale dei migranti in Italia”2 mentre era Direttore dell’Ufficio catechistico nazionale. «In 118 diocesi italiane vi sono stati adulti che hanno ricevuto i sacramenti, per attestare solo quelle che hanno risposto al questionario nazionale. Il rapporto tra maschi e femmine è stato: 41% maschi e 59% femmine. Il rapporto nazionale è stato: 43% italiani e 57% stranieri, per andare ormai verso i due terzi di immigrati in Italia». Nel commentare queste cifre, l’autore parla di “segni”, «poiché la parzialità dei dati raccolti ci indica una tendenza, ma ci costringe a sottolineare un’attenzione ancora episodica data a queste domande religiose da parte delle parrocchie e delle diocesi, ed a verificare l’esistenza di una pastorale ancora improvvisata ed occasionale» e di “dati” «poiché la rilevanza crescente e documentata diviene una carta parlante di fronte a prospettive pastorali qualche volte vagamente astratte».
Ruspi non si ferma al commento, ma guarda più in là individuando due “convinzioni” che «i catecumeni ci obbligano a valorizzare»: la prima è che «i segni di Dio, della sua presenza e della sua azione, della sua pazienza, non li produciamo noi. Ci sono donati… Dio non cessa mai di chiamare alla fede, per riconoscere che Lui è il primo che mette in noi la sua fiducia. Anche oggi Gesù suscita nel cuore di tutti gli uomini la fede e l’amore». La seconda è che «i catecumeni richiamano la Chiesa ad essere se stessa: non una istituzione che sopravvive, ma il Corpo di Cristo vivente e risorto, il seno fecondo che genera alla vita “nuova” in Cristo». Nei catecumeni, continua, «è il corpo della Chiesa intera che è chiamato a rinnovarsi, a ritrovare quella sua fecondità nascosta di cui è capace, al di là delle apparenze». Ma i nuovi arrivati, spesso, trovano quegli atteggiamenti di chiusura che si sviluppano nei gruppi umani molto coesi e timorosi delle novità. Così descrive Ruspi questo panorama: «Ci sono nelle comunità forze di inerzia che frenano. Le comunità cristiane, infatti, anche quelle vive, rimangono spesso centrate su se stesse, prese dalla loro gestione interna. Le comunità cristiane non riescono a immaginare che altri possano desiderare di entrare nella comunità, se fosse loro data l’occasione. In ogni caso, avviene assai sovente che non si faccia nulla, né si organizzi qualcosa di ben pensato per accogliere e accompagnare. Bisogna che siano aperti spazi perché possano nascere e prendere forma».
“Accogliere” e “accompagnare” sono i due verbi indicati come la via maestra: accompagnare «richiede la doverosa e responsabile preparazione degli accompagnatori adulti, non semplici espositori di una dottrina, ma credenti in dialogo con adulti aperti alla parola salvifica del Vangelo»; significa «vicinanza nel tempo della “mistagogia”, dei primi tempi vissuti nella comunità cristiana. Il passaggio alla comunità ecclesiale è sempre delicato da effettuare». Il neofita - letteralmente “nuovo germoglio” - ha bisogno di cure appropriate, di un luogo dove poter fare esperienza della vita cristiana liberante e rispettosa della sua persona: « La sua prima attesa è quella di partecipare ad una comunità dalla fede viva, nel rispetto di ciò che egli è: un adulto venuto liberamente alla fede, con un passato, dei legami e delle solidarietà che sono spesso al di fuori della Chiesa e che egli non intende rinnegare. Per lui, prendere il suo posto nella Chiesa non vuole dire entrare in uno stile di vita previamente definito, ma piuttosto apportare il suo carisma proprio».
Attraverso le culture
La stessa attenzione ai destinatari dell’iniziazione riserva Philippe Guerneley nel saggio contenuto in un manuale curato da Joseph Gélineau3. L’opera del padre gesuita è un classico di molti anni fa: i suoi contenuti dovrebbero essere acquisiti da tempo, eppure sembrano nuovi. Guerneley ritiene utile che «l’educazione simbolica dei nuovi credenti sia affrontata come una scoperta o una riscoperta della simbolica umana fondamentale. I simboli cristiani infatti sono vicini ai simboli fondamentali dell’uomo. I legami realizzati dalla liturgia con le cose, gli oggetti, la natura, gli avvenimenti (la nascita, la morte, per esempio), per l’uomo sono «una via d’accesso alla propria umanità»4. Il liturgista prosegue in questo approccio aggiungendo che l’iniziazione «è anche una catechesi rispettosa delle persone a cui si rivolge. Sa tener conto della loro storia e della loro cultura. Per questo, è conveniente lasciar parlare gli iniziati della loro vita e dei momenti importanti che hanno segnato la loro esistenza, scoprire gli avvenimenti (incontri con persone, letture, atti ecclesiali…) che sono stati determinanti nella loro ricerca di Dio. L’iniziazione cristiana si concretizza nella loro vita umana, passata e presente».
Una preoccupazione antropologica si riscontra anche nell’Istruzione Erga migrantes caritas Christi5 che pone «la necessaria tensione alla verità» proclamata dalla Chiesa «in una prospettiva di giusto confronto, di dialogo e d’accoglienza reciproca»6. Le «diverse identità culturali» sono chiamate ad «aprirsi ad una logica universale, non già sconfessando le proprie positive caratteristiche, ma mettendole a servizio dell’intera umanità. Mentre impegna ogni Chiesa particolare, questa logica evidenzia e manifesta quell’unità nella diversità che si contempla nella visione trinitaria, la quale, a sua volta, rimanda la comunione di tutti alla pienezza della vita personale di ciascuno». Siamo di fronte a una visione positiva del pluralismo culturale odierno, visto come «un kairòs che interpella il Popolo di Dio», che «rende ancor più indispensabile l’ “inculturazione” perché non si può evangelizzare senza entrare in profondo dialogo con le culture». Inculturazione che, prosegue il documento, «comincia con l’ascolto, con la conoscenza, cioè, di coloro a cui si annuncia il Vangelo… Non basta qui la tolleranza, occorre la simpatia, il rispetto, per quanto possibile, dell’identità culturale degli interlocutori. Riconoscerne gli aspetti positivi e apprezzarli, perché preparano ad accogliere il Vangelo, è un preambolo necessario per l’esito dell’annuncio. Solo in questo modo nasce il dialogo, la comprensione e la fiducia. L’attenzione al vangelo si fa così attenzione alle persone, alla loro dignità e libertà»7.
La “chiesa in carovana”
In un articolo8 scritto da Giuseppina Scaramuzzetti, “Pinuccia”, membro prematuramente scomparso del “Gruppo ecclesiale veronese tra i Rom e i Sinti” e del comitato di redazione di Servizio Migranti, emerge come un gruppo di religiosi e religiose di diverse congregazioni, presbiteri diocesani, laiche e laici si siano avvicinati dagli anni ’70 in poi ai Rom e ai Sinti e abbiano piantato la tenda nei campi sosta, dapprima riferendosi all’OASNI (Opera Assistenza Nomadi in Italia), poi all’UNPReS (Ufficio Nazionale per la Pastorale tra i Rom e i Sinti) della Fondazione Migrantes. Come altri, sono definiti, “operatori pastorali”, seppur sfugge a quest’etichetta il loro particolare stile di presenza. Queste persone si sono radicalmente legate alle famiglie alla cui porta hanno bussato e dalle quali si sentono ogni giorno accolte e interpellate a un accompagnamento nei momenti ordinari e straordinari della vita. «L’incontro avrà come prima caratteristica la simpatia, ci accostiamo cioè con una precomprensione positiva in modo da essere percepiti come alleati, come gente che sta dalla loro parte e di cui non bisogna temere», spiegava “Pinuccia”. «Dobbiamo essere noi stessi convinti che il primo bisogno cui corrispondere è la conoscenza di un Dio con il quale stabilire un rapporto personale, che ti ama e salva dal male e dalla morte, per il quale vale la pena di cambiare vita». Vivere l’amicizia al campo è l’auspicabile terreno su cui «annunciare la Parola adeguandoci per quanto sta in noi ai costumi, alla lingua, senza approfittare di questo momento per imporre la nostra cultura con il potere economico e politico di cui la nostra società può disporre nei confronti di queste minoranze». Ai presbiteri, “Pinuccia” suggeriva: «Non è male che il prete dello zingaro abbia la faccia e il sentire dello zingaro se vuole penetrare la sua religiosità ed essere il Ministro che quella comunità esprime e riconosce» e, ai cristiani in generale: «non è male che il battezzato non zingaro, che vuol fare un tratto di strada con queste persone, sia fratello e non superiore e maestro per camminare accanto e non davanti nel cammino della fede e tragga profitto da questa situazione per uno scambio reale di esperienze traendone un arricchimento di vita».
Di “Pinuccia”, che ha condiviso trent’anni della sua vita con i Rom e i Sinti, prima a Milano, poi a Verona9, è importante ricordare anche alcune riflessioni che concludono il quaderno Ando Bura10, in cui l’autrice rivisitava le motivazioni iniziali che portarono quegli uomini e quelle donne negli accampamenti, riassunte in due tendenze che s’intrecciavano: «Ascoltare, raccogliere, capire, per ritradurre in modo comprensibile un messaggio vitale era l’ansia di alcuni. Si mescolava all’esperienza ed all’intuizione di altri nel gruppo, che ritenevano che, se il Verbo si è fatto presente tra gli uomini prima di tutto con la sua carne, anche la vita, cioè la carne, si può considerare Parola e quindi annuncio». Veniva poi individuato un ulteriore passaggio da compiere: «Dopo aver riconosciuto che Dio mette la sua tenda anche in mezzo a questo popolo, è ora di imparare a leggere con pazienza ciò che lo Spirito già compie in questo popolo e far leggere, testimoniare ciò che lo Spirito sta operando in noi». Il discorso proseguiva con una forte attestazione di fiducia nell’umanità di ognuno e il riconoscimento di un compito che ognuno - rom-sinti e gagi (non rom) - ha: «siamo l’uno di fronte all’altro perché ciascuno possa riconoscere in un’umanità che non è la sua un riflesso dell’umanità del Figlio. Siamo dei testimoni vicendevoli». Al campo “Pinuccia” ha sperimentato anche la gratuità dei gesti e ha riconosciuto “questi nostri fratelli” come «i più adatti a condurci per mano nel lieto annuncio. Sono queste persone che ci stanno insegnando l’atteggiamento non di salvatori, ma di salvati, che giustifica la nostra speranza nell’attesa della Sua venuta».
In quest’ottica si è sviluppata l’esperienza scout avviata nel campo sosta di famiglie sinte di Mantova: la riproposizione della vita come segno sacramentale, e un cammino di fede che si svolge nelle roulotte e tra le faccende quotidiane. Bene lo illustra un acquarello del pittore Giuseppe Luzzi che mostra un carro gitano sormontato da un campanile e tirato da un cavallo, alla cui porta siede, sorridendo, un ragazzo. La “chiesa in carovana” è questa realtà vissuta a Torino, Bologna, Verona, Milano, Brescia, Pisa, Lucca, Crotone, Mantova, in forme diverse a seconda del contesto, fatta di rispetto dei tempi dell’altro, lettura del Vangelo con adulti e bambini, semplice presenza, liturgia domestica, catechesi in campina mentre la mamma prepara da mangiare.
«è la vita come vita che diventa trasmissione della Parola - racconta Gabriele Gabrieli, già capo Agesci, «contaminato dalla “chiesa in carovana” nei primi anni ‘90 per il tramite delle Piccole Sorelle»11 -, è spartire finché si può la via con l’altro, condividere la contemplazione nel silenzio attorno al fuoco e davanti all’Eucarestia, la contemplazione della vita che si svolge nel mistero, che si esprime attraverso segni che dobbiamo scoprire». La parola “accompagnare” qui si attua al massimo grado: si accompagna nel manghel (elemosina), nel pellegrinaggio, nella malattia, nella nascita, nel matrimonio, nel saluto del funerale. E si è accompagnati, come quando alla propria campina arriva un piatto fumante di pastasciutta. «Non sempre la vita passa attraverso i segni sacramentali canonici. Al campo si vive più spesso il sacramento dell’incontro, della vita, dell’amicizia, dell’accoglienza di stranieri senza casa. è questo a fare comunità».
 
 
 
1 In particolare, agli orientamenti contenuti nel Rito per l’iniziazione cristiana degli adulti (RICA, 1972), nella Nota pastorale L’iniziazione cristiana. Orientamenti per il catecumenato degli adulti (1997), a cui sono seguite altre Note e due documenti per il primo decennio del 2000: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia e Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia.
2 Convegno nazionale della Fondazione Migrantes del 27-29 ottobre 2008. La relazione di Ruspi cita i dati raccolti a fine 2007 dal Servizio nazionale per il catecumenato; vedi Atti del Convegno, pp. 56-57e ss.
3 P. Guerneley, Diventare cristiano, in J. Gélineau, Assemblea santa, Manuale di liturgia pastorale, Bologna, EDB, 1991.
4 Ibidem, § Le componenti dell’iniziazione, p. 179 e ss.
5 Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e per gli Itineranti, Erga migrantes caritas Christi, Bologna, EDB, 2004.
6 Ibidem, n. 34.
7 Ibidem, n. 36.
8 G. Scaramuzzetti, Evangelizzazione: la domanda dei Rom e dei Sinti alla Chiesa e l’intervento dell’UNPReS, in: Fondazione Migrantes, Memoria e attesa, Quaderno n. 22 di “Servizio Migranti”, Roma, 1998.
9 Vedi G. Scaramuzzetti, Una storia tante vite, S. Pietro in Cariano (VR), Il Segno dei Gabrielli editore, 2008. Il volume è una raccolta degli scritti di “Pinuccia” curata dalla sua comunità di vita e dall’Unpres della Migrantes.
10 P. Scaramuzzetti, Ando Bura (Nel Vento), Centro Missionario Diocesano di Verona, 1999, pp. 64-67.
11 Gli incontri e le esperienze nella “chiesa in carovana” li ha narrati nel “taccuino di strada” Fiori di campo: rom sinti e scouts, Mantova, Edizioni Casadilegno, 2005.