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L’Istruzione “Erga migrantes caritas Christi”e l’ecclesiologia di comunione (G.Bentoglio)
Corso di formazione “Linee di pastorale migratoria” (Roma, 4-8 luglio 2011)

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/11


La Fondazione Migrantes organizza ogni anno il Corso di formazione “Linee di pastorale migratoria” rivolto primariamente ai Direttori regionali e diocesani Migrantes di recente nomina e loro collaboratori, ai Cappellani etnici che svolgono il ministero nelle Diocesi italiane e che devono perfezionare il loro “Attestato provvisorio” rilasciato dalla CEMi (Commissione Episcopale per le Migrazioni) e ricevere al termine del Corso l’Attestato definitivo, ai religiosi, religiose, laici impegnati nel volontariato e interessati alle migrazioni, ai missionari per gli italiani all’estero, ai seminaristi e alle juniores. La partecipazione si dimostrata utile per favorire l’interazione, lo scambio ed il confronto. Riportiamo alcune relazioni.

1. I termini
A. L’Istruzione Erga migrantes caritas Christi;
B. l’ecclesiologia;
C. l’aspetto della “comunione”.
A. L’istruzione in continuità con i documenti precedenti
Nel 1952 veniva promulgata da Pio XII la Costituzione Apostolica Exsul Familia, considerata la magna charta della pastorale migratoria, i cui elementi fondamentali furono recepiti dal Vaticano II e quindi tradotti nel 1969, sotto Paolo VI, nel documento postconciliare De Pastorali Migratorum Cura (Nemo est). Questi sono i punti principali dei documenti:
- Il principio generale: annunciato dal Decreto Christus Dominus, 18, esso viene ribadito dal DPMC e dalla EMCC: “Verso i fedeli (migranti) che per le condizioni di vita in cui vivono non possono godere dell’assistenza ordinaria”, si provveda “con tutta premura…. adeguatamente… alla loro assistenza spirituale”. L’art. 1 dell’Ordinamento giuridico-pastorale afferma che “Al diritto che i fedeli hanno di ricevere gli aiuti provenienti dai beni spirituali della Chiesa, specialmente dalla Parola di Dio e dai Sacramenti (CIC can. 213, CCEO can. 16) corrisponde il dovere dei Pastori di provvedere tali aiuti, in modo particolare ai migranti, attese le loro particolari condizioni di vita”. Dunque si sottolinea la necessità di una pastorale migratoria.
- La conseguenza immediata: “Non è possibile svolgere in maniera efficace questa cura pastorale se non si tengono in debito conto il patrimonio spirituale e la cultura propria dei migranti. A tale riguardo ha grande importanza la lingua nazionale, con la quale essi esprimono i loro pensieri, la loro mentalità, la loro stessa vita religiosa” (DPMC 42).
La EMCC chiaramente ribadisce l’esigenza di una pastorale migratoria specifica, che “esige una apertura ad un mondo nuovo e uno sforzo di inserimento in esso, fino a giungere alla partecipazione piena dei migranti alla vita diocesana” (77). E ciò tenendo conto del “pieno rispetto della diversità e del patrimonio spirituale e culturale” dei migranti (89), a cominciare dalla lingua.
- Il pericolo da scongiurare: creare una “nuova Babele” (89) dove le diversità diventano occasione di contrasti e minaccia all’unità della Chiesa.
- L’esigenza ultima: la comunione con la Chiesa locale: “la tutela dell’identità etnica, culturale, linguistica e rituale del migrante” non giustifica mai “una azione pastorale efficace che non rispetti e valorizzi il patrimonio culturale dei migranti, che deve naturalmente entrare in dialogo con la Chiesa e la cultura locale per rispondere alle nuove esigenze” (78).
Le novità dell’Istruzione EMCC
Esse riguardano anzitutto l’impostazione generale del Documento:
- si parte dalle migrazioni viste nella storia della salvezza come “segno dei tempi” (prima parte);
- si dà quindi forte rilievo alla pastorale dell’accoglienza (seconda parte);
- per passare poi a trattare degli operatori pastorali (terza parte) e
- delle relative strutture (quarta parte).
- Gli aspetti normativi sono invece rinviati in un’apposita Appendice giuridico-pastorale.
B. La ecclesiologia
Prendo spunto dagli scritti di san Paolo, dove si nota con facilità che l’apostolo aveva un forte interesse per tutte quelle dinamiche che, in vario modo, riguardano la persona umana. Mentre egli dedica poca attenzione ai fenomeni naturali e ancor meno al mondo animale, è invece sensibile per tutto ciò che tocca la vita umana, ricorrendo spesso anche a metafore, immagini ed espressioni linguistiche che, imparate dalla quotidianità, spiegano plasticamente contenuti che sarebbe difficile esprimere in altre maniere. È il caso, per esempio, dei riferimenti alla vita militare (come in 1Ts 5,8; 2Cor 10,4-5), a quella amministrativa e commerciale (come in Fil 4,15) o alle esperienze agonistiche e sportive (come in 1Cor 9,24-27 e Fil 3,12-14).
Una delle immagini care a san Paolo è certamente quella del corpo umano, che gli viene in aiuto per descrivere l’identità della comunità cristiana. A dire il vero, non si tratta di una creazione originale, perché tale metafora era già in uso nel mondo greco-romano di allora per significare l’organicità del cosmo oppure per definire l’organizzazione di una città o di uno stato. Ma, nell’ambito cristiano, Paolo utilizza questo “artificio letterario” in maniera propria e, come accade per altri moduli linguistici dell’epistolario paolino, istituisce un ponte tra diverse culture, poiché con facilità può essere colta da molteplici ambienti linguistici e culturali.
Punto di partenza, agli occhi di Paolo, è la constatazione che, grazie all’opera redentrice di Gesù, l’umanità ha ritrovato la sua originaria unità: “Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è uomo o donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28).
Ma si tratta forse di un modello di coesione che livella le diversità, eliminandole in nome dell’uguaglianza? No di certo. L’esperienza di Paolo, a contatto con le giovani comunità cristiane, ha confermato che la nuova vita in Cristo, tramite il battesimo, non ha abolito i contrasti, le divisioni, le opposizioni e neppure ha cancellato le inevitabili differenze. Basta guardare tra le righe delle sue lettere per vedervi, come in uno specchio, le dispute, i litigi e le prevaricazioni che tenevano banco anche tra i primi gruppi di credenti. Proprio per affrontare tale situazioni, Paolo aveva trovato utile l’invio di documenti scritti, magari in attesa di un confronto di persona, in future circostanze. Tuttavia, egli insiste anzitutto nel valutare la molteplicità dei doni carismatici dei cristiani nella prospettiva della comunione, prima che nell’ottica della diversità e del confronto. In effetti, nel binomio libertà-amore Paolo assicura che è possibile comporre le differenze nell’unità, a motivo del fatto che il loro valore non è in se stesse, ma acquista importanza a partire dall’uno, che è Gesù Cristo. Ecco come l’apostolo concepisce la comunità ecclesiale: essa costituisce l’insieme di coloro che accettano Gesù Cristo e il punto di forza della loro aggregazione è proprio la partecipazione alla vitalità di Cristo morto e risorto.
Si tratta, dunque, di una constatazione di fatto, che Paolo desidera qualificare anche nella prospettiva della teologia, cioè nel suo pieno e realistico manifestarsi quanto alla relazione con Dio e ai rapporti tra i credenti. E per tale ragione, invece di proporre astrazioni e concetti, affida la riflessione al paragone della comunità cristiana con il corpo umano: “Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo” (1Cor 12,12).
Certo, l’insistenza di Paolo cade sull’unità dell’organismo, ma senza dimenticare che esso è composto dalla varietà delle singole parti. Dunque, la prima idea è quella che mette a fuoco la comunità come corpo ecclesiale, che ci costruisce attorno al Corpo eucaristico di Cristo, nella celebrazione del memoriale dell’Ultima cena (cf. 1Cor 10,16-17). Ma subito emerge una seconda idea, quella che vede la Chiesa come un corpo o come in un corpo, dove appunto balza in primo piano la metafora dell’unico organismo umano, che però è formato dalla varietà delle membra (cf. 1Cor 12–14). C’è, infine, un terzo passo, che orienta al futuro, poiché si realizzerà in pienezza solo nella dimensione dell’eternità il fatto che la comunità cristiana è il corpo di Cristo (cf. Ef 1,22-23; 4,11-12; Col 1,18.24).
La seconda immagine è quella che meglio descrive la chiesa nel suo normale, faticoso, quotidiano pellegrinaggio. Infatti, poiché raccoglie in comunione persone di varia estrazione etnica, sociale e culturale, che parlano lingue diverse e hanno tradizioni, costumi e mentalità differenti, essa è proprio simile ad un organismo che mette in connessione la varietà delle sue membra. Si tratta, comunque, di singole parti che, come avviene nel corpo umano, agiscono in concordia tra di loro, dal momento che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1Cor 12,26). Paolo contempla a lungo e nei dettagli le dinamiche di relazione tra le membra, che sono cifra simbolica delle persone: ognuno, cioè, ha una sua fisionomia, una storia, delle qualità, vive nel tempo e nello spazio, e si trova a contatto con altri individui concreti, tra i quali si creano e si intrecciano dei rapporti. La comunione dell’organismo ecclesiale è garantita, da una parte, dall’adesione sincera a Cristo e, dall’altra, anche dalla molteplice diversità dei credenti, se ognuno è disposto ad accoglierla e metterla a servizio della comunità come possibilità di mutuo scambio e arricchimento. Non si tratta, perciò, di sopprimere le differenze, ma di esaltare ciò che è comune, nel rispetto delle differenze. Ecco allora che la giusta collocazione dei rapporti umani, nel contesto della comunità ecclesiale, non garantisce soltanto il rispetto dei diritti di ciascuno, ma, soprattutto, orienta a trattare l’altro come se stessi. In proposito, sant’Agostino ha scritto: “Le differenze di nazionalità, di condizione sociale, di sesso, sebbene superate per l’unità della stessa fede, tuttavia rimangono durante la vita mortale, e gli apostoli comandano di rispettarne l’ordine finché dura il cammino di questa vita” (Epistolae ad Galatas Expositionis Liber Unus, PL 35, 28).
A partire dal Vaticano II, l’ecclesiologia è caratterizzata dalla comunione, una categoria importante che descrive il processo di unità e di scambio tra i vari membri del popolo di Dio. La comunione avviene in modo immanente e anche trascendente, in quanto si realizza attraverso le relazioni tra i vari membri e tra loro e la Trinità.
Un primo elemento da distinguere è dunque il rapporto tra Chiesa universale e quella locale. Non si tratta di trapiantare la Chiesa universale (occidentale) in quella locale, né tanto meno di contrapporle. Per esempio non si dovrebbe parlare di Chiesa africana, tedesca, americana… ma di Chiesa in Africa, in Germania, ecc. mettendo in risalto ciò che è in comune e le connette tutte, cioè la cattolicità, piuttosto che il suo aspetto culturale: è la fede che genera una nuova cultura, in quanto rappresenta l’incontro tra comunità (nella Parola e nei Sacramenti) e cultura locale.
Sicuramente, il testo che spiega bene questa relazione tra le due realtà ben distinte è la Costituzione dogmatica Lumen gentium 23, in cui si afferma che la Chiesa universale esiste e si realizza nelle e dalle Chiese particolari, il che significa che la Chiesa universale non è uniforme e a sé stante, ma una comunione di Chiese, cioè formata dalle Chiese locali. Avendo compreso questa differenza sostanziale, concentriamo allora la nostra attenzione sul concetto di missione, e in particolare di missione ai migranti.
1. Missione della Chiesa
a. Quando parliamo di missione della Chiesa, molto spesso facciamo riferimento ad un aspetto tra i tanti della comunità cristiana, un settore specifico che indica il lavoro pastorale ad extra. Eppure, è vero il contrario, e cioè la Chiesa è solo una parte, un momento della missione vera e propria, che è quella di Dio, che chiama a partecipare al suo piano di salvezza cooperando con la sua grazia. Fondamentalmente, la missione è trinitaria e divina allo stesso tempo; indica infatti l’opera che Dio compie attraverso la creazione e la redenzione. Se guardiamo al NT, notiamo in modo particolare in Gv la sua insistenza non solo sul mandato, ma anche sul mandante, che per amore della creazione e del suo popolo interviene ed opera attraverso la missione di Cristo e dello Spirito. Gesù viene mandato dal Padre in virtù della sua esperienza specifica di amore e comunione con Dio; per cui, Gesù conosce il Padre e può annunciare la sua Parola e il suo piano di salvezza.
b. Parlare di mandante implica far riferimento anche al mandato, a Cristo. La missione del Padre diviene allora la missione del Figlio, che viene nel mondo (mandato dal Padre) per compiere la missione a lui affidata. Gesù parla in nome del Padre, e lo fa con autorità. Inoltre compie delle opere specifiche, come miracoli e altri segni, per indicare la venuta del regno di Dio nel mondo e soprattutto la realizzazione del piano di salvezza del Padre. Inoltre in varie occasioni abbiamo la manifestazione del Padre attraverso le teofanie o il dono stesso della fede, che fa credere in Gesù, in quello che dice e fa nel nome del Padre. Scopo della missione di Cristo è annunciare il regno di Dio. Inoltre come conseguenza la sua predicazione produce la fede o l’effetto del credere… Credi tu questo? (Gv 11,26-27). Credere in Cristo significa poi avere la vita (Gv 20,31: … credendo abbiate la vita…). Proprio perché si vive una vita nuova, che sgorga dall’amore di Dio, esso comporta l’unità e la comunione dei vari membri. La missione di Cristo ha dunque questi effetti: 1) far conoscere il regno di Dio, 2) suscitare la fede, 3) dare la vita, 4) creare la comunione tra i credenti, intesa come condivisione della vita trinitaria che ora inabita nel credente e nella Chiesa stessa.
c. La missione del Padre nel Figlio passa poi come azione specifica dello Spirito, che opera in Gesù e dopo la pentecoste opera nei fedeli e nella Chiesa stessa. Il consolatore, il difensore, l’avvocato… la missione dello Spirito è quella di rendere vivo il memoriale, il ricordo sempre attuale dell’opera di Cristo, sostenendo l’opera della Chiesa ai suoi inizi. Solo con la venuta dello Spirito si può cominciare a parlare di missione degli apostoli. In effetti, la missione in riferimento agli apostoli e alla Chiesa è un termine post-pasquale ed indica la continuazione dell’opera iniziata da Cristo, cioè la proclamazione e propagazione del regno di Dio nel mondo. La Chiesa è dunque uno strumento, che annuncia il regno di Dio, suscita la fede di nuovi cristiani, compie le opere del Figlio e crea la comunione all’interno della comunità cristiana.
d. La missione del Padre-Figlio-Spirito viene affidata alla Chiesa e per mezzo del battesimo essa diviene il compito di ogni cristiano, ciascuno secondo il proprio stato e la propria chiamata specifica (genitore, maestro, politico, ecc.), all’interno della comunità cristiana e nel mondo. Naturalmente, attraversando i confini nazionali, culturali, generazionali, religiosi… i cristiani devono mantenere la loro condizione di pellegrini e con profonda umiltà e apertura. Il tutto deve essere condito da prudenza, cioè dalla delicatezza e dall’accortezza di riconoscere e includere le altre culture e formare una unità nella diversità. Così si manifesta la vera cattolicità della Chiesa, aperta alla diversità e alla comunione delle diverse culture.
2. Missione ai migranti
Anzitutto, occorre sottolineare che la missione ai migranti comporta l’uscire dalla propria cultura per incontrarne un’altra. Perciò non è più necessario andare dai migranti, quando sono loro stessi che vengono a noi. Questa pastorale specifica si chiama dunque “missione tra i migranti” (missio inter gentes).
a. La missione tra i migranti comporta anzitutto un cambio di mentalità, in quanto il migrante non rappresenta una minaccia o un problema, ma una ricchezza e una forza. Si deve insistere particolarmente su ciò che si ha in comune, cioè la fede in Cristo e l’appartenenza al popolo di Dio, in vista della salvezza. Il battesimo ci fa entrare nella Chiesa e nel popolo, non la nazionalità, la razza o il colore: tutti questi sono solo fattori culturali.
b. Per dimostrare apertura verso i migranti, occorre poi convertirsi. Ciò implica un vero cammino di rinuncia e sacrificio, per entrare in dialogo con le altre culture, distaccandosi dalle proprie sicurezze.
c. L’accoglienza del migrante vuol significare anche accettare le difficoltà e le esperienze traumatiche che molti migranti portano con sé come bagaglio culturale e personale. Questa loro via è la Via Crucis, soprattutto sperimentata nei primi anni di abbattimento, insuccesso e fatica di mantenere la propria dignità e la propria fede. Anche queste esperienze negative diventano un momento di confronto e di scambio con la comunità che accoglie. In questo il migrante si riveste dell’immagine di Cristo e diviene l’occasione per la Chiesa locale di aprirsi al Signore che viene nella sofferenza e nei problemi della vita quotidiana.
d. In pratica, la Chiesa di arrivo deve dimostrare verso i migranti accoglienza e ospitalità. Al di là dei fondamenti biblici e teologici di questi due valori, occorre vedere quali siano i risvolti a livello ecclesiologico. Si tratta di una vera apertura all’altro che si dimostra in gesti di normale e comune accoglienza. Può interessare tanto l’aspetto umano e materiale (cibo, vestiti, trovare una casa o un lavoro), quanto quello sociale e comunitario, dove significa il riconoscimento di questi gruppi a volte minoritari, per l’utilizzo di strutture e tempi specifici, per favorire l’incontro nelle celebrazioni, nelle feste e nelle adunanze.
e. Parlare di accoglienza e ospitalità implica inoltre un impegno specifico a difesa dei diritti dei migranti, contro ogni forma di violenza sulla loro dignità o sopruso. Sono le cosiddette prese di posizione da parte della Chiesa, per combattere ogni sentimento o legge razzista e xenofoba. Una tale denuncia, forse assai pronunciata in America Latina, sta prendendo piede sempre di più anche in Nord America… ma rimane ancora poco visibile in Europa.
f. Fare apostolato tra i migranti significa specialmente offrire ciò che si ha per uno sviluppo integrale e per una formazione dei nuovi arrivati. A volte però, difficoltà di gestione economica, diffidenza e grettezza mentale impediscono questa apertura della propria casa o della propria Chiesa ai migranti, quasi che questi ne approfittino e dia niente in cambio.
g. La pastorale tra i migranti è aperta al dialogo con le loro culture e religioni. Il dialogo interreligioso è una condizione imprescindibile, determinato dal rispetto della dignità di ogni persona umana, che porta con sé doni e qualità da condividere. Si tratta del dialogo della vita e dell’azione, cioè condivisione delle gioie e dei dolori della vita e dell’azione comune soprattutto per promuovere la giustizia.
h. Restringendo il campo di azione, la Chiesa locale deve garantire la pastorale dei sacramenti, rispettosa delle lingue e delle culture dei migranti, perché siano liturgie vive e significative, che continuino ad alimentare la fede e la vita dei migranti. Non dare loro spazio e il minimo indispensabile per potersi esprimere, comporta un cacciarli (indirettamente) dalle proprie comunità, non riconoscendo le loro culture e tradizioni religiose, e facendoli diventare facile preda di altre religioni.
i. La Chiesa locale è chiamata a essere mediatrice di liberazione e sviluppo anche dei paesi di provenienza dei gruppi migranti, sensibilizzando la gente del posto circa i loro problemi e descrivendo i problemi che sono chiamati ad affrontare nel loro paese. La collaborazione con organismi governativi e non permetterebbe di risolvere alcuni problemi o abusi che ancora imperversano nei paesi di provenienza di molto immigrati e profughi.
3. Missione dei migranti
Ogni persona umana è una ricchezza specifica per la società e la Chiesa: essa è un dono incommensurabile. Anche il migrante deve essere cosciente della sua responsabilità verso la Chiesa di arrivo, per entrare in dialogo con la comunità che accoglie e per condividere il proprio tesoro. Si deve pian piano generare una vera e propria armonia di culture, un’unità nella diversità, dove nessuno scompare, ma tutti si trasformano nello scambio della vita, con esperienze e doni personali.
La Chiesa dei migranti sottolinea principalmente l’essenziale, la povertà di vita, la dipendenza reciproca. La Chiesa rimane nella sua condizione di cammino, lasciando da parte tutti quei pesi e quelle zavorre che molto spesso le impediscono di camminare serenamente verso il regno di Dio.
Infine, la Chiesa migrante si riscopre particolarmente aperta e diretta per andare oltre, a superare i propri confini, per andare verso i margini, verso le periferie dove vive il volto di Cristo, dove si manifesta l’amore di Dio.
C. L’erga migrantes e la ecclesiologia di comunione
1. Il migrante battezzato quale titolare di diritti
L’art. 1,§1 dell’Appendice giuridico-pastorale (v. anche nn. 27 e 29) esordisce affermando
- “il diritto che i fedeli hanno di ricevere gli aiuti provenienti dai beni spirituali della Chiesa”
- e il conseguente “dovere dei Pastori di provvedere tali aiuti, in modo particolare ai migranti, attese le loro particolari condizioni di vita”,
- facendo esplicito riferimento al can. 213 del CIC (inserito nel Titolo I) dove si parla dei doveri e dei diritti dei fedeli.
- Ne consegue che le particolari cure pastorali non sono “da considerarsi soluzioni benevole a situazioni di indigenza, bensì risposte al diritto fondamentale del battezzato a ricevere abbondantemente i mezzi salvifici”, come scrive Eduardo Baura, il quale conclude: “Penso che non sia esagerato affermare che su questo principio è imperniato tutto l’impianto normativo della nuova Istruzione” (Osservatore Romano, 10 giugno 2004).
Nel valutare per quanto tempo o quante generazioni lo straniero potrà godere di questa pastorale specifica, il primo criterio sarà, come diceva la De pastorali migratorum cura, la sua “vera utilità” (n. 11).
2. Grande attenzione alle Chiese orientali
“per rispondere in modo più adeguato anche alle particolari esigenze di quei fedeli emigrati orientali, oggi sempre più numerosi” (cfr. nn. 52-55 e passim).
- non è una pura questione di praticità o opportunità, suggerita dal costante aumento degli immigrati di rito orientale,
- ma è una questione della pari dignità delle due Chiese, che consente all’unica Chiesa Cattolica di respirare, anche in contesto migratorio, a due polmoni;
- da sottolineare inoltre il problema dell’ecumenismo, determinato dalla presenza sempre più consistente dei migranti ortodossi dell’Est Europa.
3. Apertura anche ai “migranti di altre religioni” (nn. 56-58)
è un tema che compare fin dall’inizio e che viene ripreso nella conclusione (Universalità della missione, nn. 96-100) e viene notevolmente trattato nella parte centrale (nn. 58-68).
4. Le migrazioni, icona della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica
Nella comunità cristiana nata dalla Pentecoste, le migrazioni
- fanno parte integrante della vita della Chiesa
- ne esprimono bene l’universalità,
- ne favoriscono la comunione,
- ne influenzano la crescita.
Le migrazioni dunque offrono alla Chiesa l’occasione storica di una verifica delle sue note caratteristiche (n. 97): esse sono,
- oltre la già ricordata apostolicità o missionarietà, l’unità e la cattolicità espresse nella armoniosa molteplicità e diversità di popoli, lingue e culture,
- nonché la santità che si fa manifesta nei mille gesti di carità cristiana, culmine della legge,
- e infine, la quinta nota della Chiesa, popolo di Dio in cammino, la sua dimensione escatologica, di cui i migranti sono “segno vivo” (nn. 17-18).
5. Come vie alla fede e all’annuncio diretto, vengono ripetutamente proposti
* sia la testimonianza della carità e, in genere, la promozione umana, in termini di
- accoglienza (n. 9),
- solidarietà (nn. 39-42),
- comunione (cfr. nn. 37, 98-99),
* sia il dialogo interreligioso (n. 100), con i temi connessi
- del pluralismo etnico e culturale,
- della inculturazione della fede (nn. 34-36), anche in emigrazione
- dell’annuncio ed evangelizzazione.
Non si tratta, certo, di temi assolutamente inediti: la novità che troviamo nell’Istruzione è l’insistenza della proposta e la stretta esplicita connessione posta fra questa vasta problematica e le migrazioni.