» Chiesa Cattolica Italiana » Documenti »  Documentazione
XXV Congresso Eucaristico Nazionale: tavola rotonda (C. Simonelli)
Tavola Rotonda - Osimo, 9 Settembre 2011

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 6/11


1. La città è segnata dall’esclusione sociale di alcuni gruppi di persone e famiglie, minoranze non riconosciute, come i rom e i sinti, ‘un mondo di mondi’. Come l’Eucaristia aiuta a coniugare unità e diversità, a fare posto alle minoranze?
2. Maggioranza e minoranza sono due categorie spesso usate e contrapposte, anziché ordinate fra loro. La ricchezza della diversità rischia di essere vista come frammentazione a danno dell’unità. Come l’Eucaristia ricompone persona e comunità, i pochi e i molti?
3. L’Eucaristia è pane del cammino, suppone anche un’esperienza nomade, di migrazione; accompagna ovunque. Come può l’Eucaristia diventare fonte di accoglienza?
1. La situazione di rom e sinti rappresenta in effetti un caso emblematico: numericamente pochi, sia in proporzione alla popolazione italiana nel suo complesso, sia a confronto della presenza tzigana nella maggior parte degli altri Paesi europei, dell’Unione e al di fuori di essa, per motivi di ordine storico, culturale e politico sembrano rappresentare l’Altro, l’estraneo per eccellenza e dunque lo spauracchio da agitare per attirare consensi facili e superficiali, dunque con “poca spesa”. Non credo che ci sia bisogno di molti esempi, perché sia a livello della comunicazione su scala nazionale sia a livello di testate locali come di diretta esperienza è facile verificare l’affermazione. Mi sembra che l’analisi che ne offre Marco Revelli in Poveri, noi (Einaudi, Torino 2010) possa valere come visione sintetica: le vicende di Opera e Ponticelli, che riguardano dei rom, vengono studiate come parabola della situazione nazionale e «dell’incipiente intolleranza per le debolezze dei deboli e il simmetrico eccesso di tolleranza per i vizi dei potenti» (p. IX).
Non si tratta pertanto solo di dire che qualcuno è incluso e qualcuno è escluso, ma di meglio mettere a fuoco come quella esclusione tocca la qualità della nostra convivenza e nello stesso tempo mostra in fondo anche la possibile e imminente esclusione di tanti altri, l’impoverimento di un intero tessuto sociale e nello stesso tempo una sua sia pure spesso mal posta voglia di aggregazione, di località, di comunità. è un modo di osservare come il vivere sociale acquista forma di città (cfr Benedetto XVI Caritas in veritate 29; Un cammino che continua... dopo Reggio Calabria 46a settimana sociale dei cattolici italiani 21), immagine di essere insieme “non giustapposti” che, anche nella Scrittura, assume tratti non univoci, potendo essere utilizzata come “città amata” ma anche come babilonia (cfr Is 26).
Dal punto di vista della comunità eucaristica l’assenza di cui si diceva è una vera e propria ferita: la sua presa di coscienza fa parte della celebrazione stessa, della domanda di perdono, della nostra inadeguatezza rispetto all’eccedenza del Dono. I congressi eucaristici al loro inizio, ormai distante come epoca e come temperie, univano due dimensioni: quella della riparazione e quella della rilevanza sociale e pubblica. Oggi qui possiamo riprenderle, fatto anche tesoro del cammino di conversione “nei confronti di Cristo e del mondo” offerto Vaticano II: riparazione nei confronti del corpo del Signore è anche relazione fra l’Eucarestia e Mt 25, l’avete o non avete fatto a me...- è domanda di perdono e desiderio concreto di riparazione nei confronti di ogni esclusione. Direi pertanto che la prima modalità di tale “domanda di perdono/riparazione” è l’opportunità di passare dal sospetto o dall’aperta avversione - “non mi piacciono” “è colpa loro” - all’integrazione di altri punti di vista, fino al tentativo di dare corpo a pratiche diversamente inclusive: come l’eucarestia mai nella storia si è potuta celebrare senza la concretezza del pane e del vino, frutti della terra, delle mani, del lavoro, così domanda di perdono e riparazione chiedono mani operose e politiche rispettose, “la mistica del sacramento ha un carattere sociale” (Deus caritas est 14; Un cammino che continua, 21).
Ma aggiungerei un altro aspetto: come l’eucarestia è fonte ma anche culmine - tema conciliare rilanciato concretamente anche da Per un paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno 3 -, come la Chiesa ha molto da offrire ma anche ricevere (GS 40) è bene considerare anche un altro punto di vista. La celebrazione dell’eucaristia giudica evangelicamente le nostre realizzazioni concrete, ma vale il reciproco: una prassi non escludente, la possibilità di dividere spazi e tempi e parole anche con sinti e rom, giudica le nostre celebrazioni e ce ne consente una migliore qualità. Questo del resto è parte ineliminabile della tradizione biblico-profetica, che attraversa ogni forma rituale ed ecclesiale: chi vi ha chiesto di calpestare i miei atri, l’incenso mi dà nausea, non era questo... (cfr. Is 1).
Ovviamente questa è un’osservazione generale: forse riguardo a rom e sinti in particolare si può pensare che la loro storia e la loro particolare ingegneria culturale - “tra i mondi” e abituata a confrontarsi continuamente con altro - come pure, come ha ricordato Benedetto XVI nell’udienza del giugno scorso - “Siete un popolo che nei secoli passati non ha vissuto ideologie nazionaliste, non ha aspirato a possedere una terra o a dominare altre genti. Siete rimasti senza patria e avete considerato idealmente l’intero Continente come la vostra casa.” - possa a maggior ragione collocarsi in questo orizzonte, dando vita a un peculiare magistero della strada. Ascoltarlo può aiutare a pensare, comunque, che le nostre realizzazioni non sono tutto, che ci sono altri modi di vivere, il che aiuta tutti a disporsi in modo meno rigido e arrogante (cfr Leonardo Piasere, A scuola. Tra antropologia e educazione, Seid, Firenze 2010, in particolare La nuova Turii, pp. 27-44).
2. La comunità eucaristica è sempre molto particolare: rimanda costantemente ad Altro, l’assemblea riunita nelle varie articolazioni ministeriali, nella dinamica fra presidenza e assemblea dice in forme diverse ma coerenti la precedenza di Cristo che convoca una comunità in cui la comunione è interazione fra diversità che si ricevono e accolgono, donate a se stesse e le une alle altre. Si potrebbe dire, non c’è miglior scuola - se ne sappiamo approfittare - sia per uscire dalla logica dei numeri e del profitto, sia per porsi nella condizione di accettare “che altro sia”. è un po’ il tema della preghiera esicasta, in cui il primo step è rappresentato dal “pregare come la montagna”, riconoscendo così a tutte le cose “il diritto di esistere”. La cosa potrebbe essere provata a lungo, non mi sembra questo il luogo: mi sembra utile qui riprendere ancora un’osservazione estremamente felice del documento conclusivo della settimana sociale già citato: “[in questo senso molto concreto] è culturale il campo nel quale si decide dell’adeguatezza o meno delle forme sociali rispetto all’eccedenza di ogni vita umana e della sua intrinseca dignità” (5). Questo ambito culturale e antropologico - cfr il decennio CEI da poco iniziato Educare alla vita buona del Vangelo nonché il tema della prossima giornata mondiale della pace “Educare i giovani alla giustizia e alla pace” - rappresenta la sfida, anche eucaristica, che abbiamo davanti. Penso al documento Per un paese solidale, al suo sottolineare le sfide culturali (16), la questione educativa come priorità ineludibile (17) e all’invito a “osare il coraggio della speranza “ (20). E penso anche che adesso potremmo chiedere e attendere operosamente anche un’altra analoga riflessione di livello autorevole, attorno non ai temi della “questione meridionale”, ma a quelli di una “questione settentrionale” e, benché certo la questione abbia dimensione anche economica e politica, ne sottolineerei qui appunto l’aspetto culturale. Mi riferisco evidentemente alla dis-educazione rappresentata da logiche discorsive che incitano al razzismo, all’esclusione infine alla grettezza. Si dà anche il caso che più che episodicamente tali comizi si offrano anche come baluardi della tradizione cristiana, delle sue radici, delle sue ragioni. Certo la riflessione su questi temi non nasce oggi - come ben mostra l’accurata ricostruzione di Paolo Bertezzolo, Padroni a chiesa nostra, EMi Bologna 2011, si vedano ad esempio le pp. 254-259 dedicate ai conflitti con gli arcivescovi di Milano - ma la vigilanza da esercitare è ancora molta.
3. Ambrogio di Milano in un contesto molto conflittuale, nel quale aveva con i suoi occupato una basilica “pretesa” da altri appoggiati dal potere imperiale, afferma che «i goti hanno la loro chiesa sul carro» (ep 76). In quel contesto l’affermazione è polemica ma è comunque molto interessante: pur cercando di evitare anacronismi e romanticismi non si può non pensare con simpatia all’idea della chiesa sul carro. Credo che per questo aspetto siano tuttavia da evitare due estremi: spostare la questione “troppo presto” sul versante spirituale rischia di occultare i tratti di ingiustizia, di non accoglienza messi atto e di conseguenza impedisca di protestare per la precarietà imposta a molti rom, soprattutto, ma anche a sinti. Ma se si potesse tenere la cosa “con due mani”, dall’altra parte e contemporaneamente si dovrebbe accogliere l’insegnamento concreto e spirituale che proviene da una chiesa del carro o anche semplicemente dal carro, dalla strada. L’eucarestia “memoria del futuro”, aperta strutturalmente all’invocazione e al compimento, percorsa e attuata da un’epiclesi sulle offerte e “sui comunicanti” che diventa “epiclesi sul mondo” e rinvio all’escatologia, invita al cammino, sia nel senso della levità e della sobrietà dell’abitare, sia nel senso della profondità che apre all’adorazione, donec venias”.
Anche per questo aspetto credo che si dia una reciprocità che fa parte della logica eucaristica stessa: che ci invita a entrare in questa dinamica - ex opere operato.. cioè per dono gratuito e asimmetrico del Signore - ma che chiede anche che la prassi in atto entri nella celebrazione stessa, permettendoci così di meglio esserne coinvolti - si direbbe ex opere operantis: per questo si dà un intreccio fecondo fra i temi delle anafore e le pratiche, “più lente, più dolci, più profonde” (Alexander Langer), fra le preghiere eucaristiche e le storie di amicizia e rispetto (Giuseppina Scaramuzzetti, Una storia tante vite, Gabrielli Ed., Negarine di S. Pietro Incariano/VR, 2008) che con il pane e il vino spezziamo e riceviamo.
Concluderei ricordando un episodio realmente accaduto a Verona alcuni mesi fa, che mi sembra dica proprio questo, questa reciprocità, asimmetrica certo ma “reale” - fra l’eucarestia e il modo eucaristico di porsi nella realtà: un uomo muore per strada di fronte all’Arena, è giovane ma ha vita complicata, ha trentacinque anni, sta in carrozzina perché non ha i piedi. Se ne ricostruisce il nome e la nazionalità, forse qualche frammento di vita, ma nessuno lo cerca. Viene fatto il funerale nella vicina parrocchia, poi uno dei preti lo accompagna, solo, alla sepoltura: «Una donna anziana chiede chi sia quel morto senza corteo. “è un giovane straniero, si chiama Daniel”, sussurra il prete. La donna si mette al suo fianco e dice, nella lingua dei poveri: “Vengo io con voi: io sono la madre...”» (don Marco, don Roberto, Io sono la madre, Combonifem, maggio 2011, 14).